Giuseppe Dossetti senza eredi

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Adesso si è trovato anche il modo di ipotizzare che due cattolici dichiarati come Matteo Renzi ed Enrico Letta, ognuno naturalmente con la sua particolare sensibilità, possano essere in qualche modo eredi del pensiero politico di Giuseppe Dossetti. Infatti essi, per rivitalizzare la spenta e spaesata politica italiana, pensa qualcuno, potrebbero sforzarsi di rilanciare «una inattesa centralità della cultura politica dossettiana» (G. Marengo, La sinistra italiana oggi e le radici dossettiane, in Zenit del 16 dicembre 2013). 

E, sebbene i due leaders del PD non si siano mai esplicitamente richiamati a Dossetti, i fautori cattolici di questa tesi ritengono che essi potrebbero fare cosa veramente utile all’Italia se, in un momento cosí drammatico e per certi aspetti simile alla situazione in cui si era venuto a trovare il nostro Paese nel secondo dopoguerra, tentassero di riappropriarsi, sia pure in una versione aggiornata, di alcuni elementi peculiari del pensiero politico di Giuseppe Dossetti: il riconoscimento di un marcato primato alla politica rispetto all’economia e a qualsiasi altro settore della nostra vita nazionale; il radicamento di tale primato «in una forte identità cristiana ed ecclesiale» com’era quella evocata da Paolo VI quando definiva la politica come una delle più alte forme della carità; la difesa ad oltranza dei princípi fondativi della Carta Costituzionale; il partito concepito non tanto come organo di mediazione tra le sue componenti interne e nei confronti di altre forze politiche costituzionali e parlamentari quanto come gruppo politico profondamente riformatore e riformatore in direzione degli eterni valori comunitari indicati dal vangelo; la potenziale funzione egemonica che lo stesso partito cattolico avrebbe dovuto esercitare ad alti livelli di progettualità economico-sociale nel quadro della dialettica intercorrente tra le diverse forze politico-culturali italiane.

Peraltro, in particolare sulla forma-partito, Dossetti, pur collaborando lealmente con De Gasperi per più di un lustro, avrebbe espresso una concezione diversa da quella del politico trentino. La DC, infatti, per il primo non doveva essere, come pensava il secondo, una specie di contenitore di istanze ed interessi molteplici ma anche virtualmente eterogenei o conflittuali, perché questo l’avrebbe condannata a sottostare a troppe mediazioni interne che alla lunga ne avrebbero quanto meno depotenziato l’originaria carica profondamente riformatrice, e allo stesso tempo non doveva puntare su una politica di compromesso con gli altri gruppi parlamentari dell’arco costituzionale solo per dar luogo a coalizioni governative stabili e durature che però ne avrebbero frenato o impedito lo spirito e lo slancio evangelicamente innovativi.    

La visione politica dossettiana del partito come dello Stato non coincideva con una difesa dello status quo o di posizioni conservatrici (come forse in parte si può dire per De Gasperi), ma con una strategia democratica d’attacco volta a porre, nel nome e nel segno della fede in Cristo, vere condizioni di emancipazione non solo economica e sociale ma anche morale e spirituale, non coincidenti con bruschi e repentini passaggi “rivoluzionari”, in un Paese povero e disgregato di cui certo andava ricostruito e potenziato il tessuto sociale e le strutture economiche ma di cui andava ancor più rafforzato lo spirito di mutua solidarietà per evitare che lo stesso sviluppo economico favorisse interessi privati di tipo particolaristico e non un bene comune fondato sulla giustizia sociale e su un diritto equamente ridistributivo.

Come ha ben ricordato il 9 febbraio 2013 sul suo blog (Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti) Pierluigi Castagnetti, che avrebbe conosciuto meglio Dossetti attraverso il personale rapporto di amicizia instaurato con suo fratello Ermanno Dossetti, non si deve dimenticare che il giurista e politico cattolico avrebbe molto contribuito a definire la struttura personalistica della Carta Costituzionale negli articoli 2 (sui diritti inviolabili dell’uomo) e 3 (sulla pari dignità sociale e sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge) e che sarebbe stato relatore degli articoli 7 (relativo ai rapporti tra Stato e Chiesa di rispettiva indipendenza e sovranità) e 11 (relativo al ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali). Inoltre, forse ancor oggi non tutti sanno che il politico democristiano avrebbe dato, d’intesa con il comunista Palmiro Togliatti, un grandissimo apporto alla definizione dei contenuti economico-sociali della Costituzione, in particolare sul delicatissimo tema del lavoro (che già nel 1° articolo figura come vera e propria struttura portante della Costituzione).

Per Dossetti il lavoro non aveva solo un significato politico e sociale (che poteva riassumersi nel riferimento ai diritti soggettivi e agli stessi soggetti che l’avrebbero esercitato ovvero ai lavoratori), come per Togliatti, ma un ancor più irriducibile significato religioso, nel senso che il lavoro in sé per lui, indipendentemente da specifici destinatari storici, era un valore e un valore dunque non ideologizzabile, nel senso che attraverso il lavoro l’uomo è chiamato a completare la creazione di Dio e a realizzare se stesso cioè a sviluppare e dare forma compiuta all’umanità che porta in se stesso.

Quindi il lavoro veniva pensato non solo come tramite di diritti soggettivi, di rivendicazioni sociali e politiche, ma come mezzo irrinunciabile per diventare persona, per acquisire dignità personale, per estrinsecare la propria libertà-responsabilità di cooperare al perseguimento del bene comune, e implicante conseguentemente, come recita l’art. 36 formulato congiuntamente da Dossetti e Togliatti, il salario come suo frutto e anche come condizione del fatto che esso realizzasse precise finalità sociali, tra cui Dossetti includeva significativamente (per sottolineare che tutte le forme di lavoro avessero pari dignità) anche quelle proprie di tutte le attività contemplative come lo studio in genere, la creazione poetica o artistica, l’osservazione del cosmo e dei processi naturali, sino alla stessa esperienza monastica, benché poi egli non pretendesse che questa sua specifica esigenza fosse specificata nel testo.

Ecco perché e in che senso, esattamente, l’Italia doveva essere una repubblica democratica fondata sul lavoro: l’Italia per essere di tutti e per tutti, sia pure nelle forme e nei limiti esercitati dalla stessa Costituzione, doveva essere fondata costitutivamente sul lavoro, che in tal modo, e indipendentemente da specifiche congiunture economico-finanziarie, non era solo un diritto costituzionalmente garantito ma il diritto che doveva garantire la natura e la funzione democratica della stessa Carta costituzionale, con la conseguenza che il lavoro, sia come valore in sé sia come concreta opportunità di esplicazione della propria dignità personale, dovesse essere sempre e comunque tutelato dall’ordinamento repubblicano oltre che dalla e nella stessa comunità nazionale.

Certo, la centralità della persona, l’uguaglianza, la libertà, l’autodeterminazione delle comunità locali che è alla base del regionalismo e del federalismo, erano anch’essi princípi ispiratori della Costituzione ma la loro affermazione formale poteva tramutarsi in concreta e materiale attualità democratica solo alla luce del lavoro, per mezzo del lavoro e in conseguenza di un esercizio aprioristicamente garantito del lavoro. Senza lavoro non poteva esserci né repubblica, né democrazia, né produzione di ricchezza, né sviluppo o crescita che dir si voglia. Compito imprescindibile e prioritario della politica nazionale, nella sua triplice articolazione di attività governativa, attività parlamentare e attività partitica o associativa, avrebbe dovuto essere, al di sopra di ogni altro interesse o necessità di Stato, quello di tutelare sempre e comunque il lavoro, difendendolo sia dalle cicliche crisi economiche, sia da eventuali turbolenze legate alla dinamica dei rapporti internazionali tra gli Stati e a quella di possibili e specifiche controversie commerciali.

Lungo queste direttrici valoriali e politico-programmatiche veniva profilandosi il grande riformismo cristiano di Dossetti, un riformismo aperto peraltro anche all’apporto di tutte quelle forze politiche che avrebbero manifestato la volontà di concorrere non tanto alla formazione di governi stabili e quanto più possibili unitari quanto alla formazione di governi capaci di adottare decisioni serie e responsabili ai fini di una vita economica nazionale regolamentata da inderogabili princípi di giustizia sociale e da criteri non arbitrari di distribuzione o ridistribuzione della ricchezza prodotta.

Ma la DC, per Dossetti, prima e più che a possibili alleanze governative di cui De Gasperi era fautore non solo per rendere più coesa ed efficace l’attività di governo ma anche per essere personalmente meno condizionato dal proprio partito e dalla complicata costellazione di interessi che vi gravitava intorno, doveva pensare a qualificare la sua azione politica con proposte legislative e misure economiche realmente compatibili con i suoi valori spirituali e religiosi. Ora, appare del tutto evidente che né Enrico Letta, propenso più ad assoggettarsi alla volontà dei mercati finanziari e dei grandi istituti bancari internazionali che non alla volontà di Dio, né lo stesso Renzi, impegnato a fare del problema generazionale piuttosto che di quello relativo ad un allargamento sociale dello Stato il problema centrale di una “nuova” politica nazionale, potranno mai ereditare, né direttamente né indirettamente, un patrimonio politico altamente ispirato come quello di Dossetti.

Chi assume i processi economici non come materia che la politica deve plasmare e su cui la politica deve incidere in funzione dei legittimi interessi popolari ma come un prius immodificabile di cui la politica deve solo seguire l’andamento e a cui essa può semplicemente adeguare le sue decisioni sia pure con metodologie più o meno efficaci e più o meno vantaggiose, non può poi assegnare alcun primato alla politica, costretta ad essere invece una funzione ancillare dell’economia, né tanto meno per via del suo spregiudicato pragmatismo modernizzatore sarà portato a radicare la sua azione politica in valori evangelici e cristiani o si sentirà particolarmente interessato a difendere oltranzisticamente gli stessi princípi e valori fondativi della Carta ove dovessero apparire d’intralcio alla suprema logica del profitto a tutti i costi e di uno sviluppo nazionale affidato a potenze economiche straniere e quindi ormai privo di spirito patriottico, cosí come e di conseguenza non potrà guardare al partito che come ad un semplice organo di mediazione tra le diverse anime in esso presenti e rispetto ad altre posizioni parlamentari e governative piuttosto che come ad un soggetto politico autonomo e capace di interpretare i bisogni oggettivi del popolo, facendosene carico attivamente con strategie e comportamenti politici altamente e cristianamente riformistici e non con transazioni o patteggiamenti di tipo meramente demagogico ed opportunistico.

Sulla scena politica attuale, pertanto, possibili eredi di Dossetti non se ne vedono, fermo restando che, il giorno in cui una forza politica di ispirazione cristiana dovesse venire realmente assumendo un profilo dossettiano, verrebbe effettivamente introducendosi nella vita politica italiana una fortissima istanza dialettica in grado di neutralizzare da una parte la carica meramente ribellistica di tanta cosiddetta “antipolitica” comprensibilmente presente nel nostro Paese e di sottrarre dall’altra la politica stessa alle sia pur qualificate competenze accademiche e manageriali dei cosiddetti “tecnici” oppure alla gestione di “governi tecnici” anche se “politici” e stoltamente convinti che la politica possa essere usata come una tecnica “neutrale” e non già come una tecnica che produce o non produce risultati economicamente e socialmente rilevanti a seconda degli obiettivi rispetto ai quali viene resa funzionale.

Non c’è tuttavia bisogno di spiegare come e perché non ci si possa più augurare che Dossetti, come qualcuno parrebbe invece auspicare con toni quasi trionfalistici, diventi nuovamente «il principale punto di riferimento di Romano Prodi e di tutti i leader del centrosinistra» (P. Mieli, La rivincita postuma delle idee di Dossetti, in “Corriere della Sera” dell’8 dicembre 2013). La sua preziosa eredità, considerando la pochezza spirituale dei soggetti evocati, verrebbe ad essere non solo impoverita ma letteralmente dissipata, per il semplice fatto che, rispetto ai Prodi e ai vari leaders più o meno occasionali del centrosinistra, Dossetti, dotato di una ben diversa struttura intellettuale e morale, non fu un “moderato”, né fece calcoli elettoralistici né cercò mai il consenso popolare su programmi politici solo illusoriamente avanzati ma sostanzialmente subordinati ad oscure e ambigue direttive sovranazionali.

In questo caso penso si possa condividere il giudizio dato da Rosy Bindi: «il segreto di questa persona cosí straordinaria sta nel legare la dimensione spirituale (la radicalità della sua fede) e la capacità di leggere ed intervenire nella storia con la forza del cambiamento che la politica deve avere. Lasciò la politica non solo per il disaccordo con De Gasperi ma per la consapevolezza di vedere la crisi morale dell’occidente molto prima di quanto la vedessimo noi e perché intuí che la politica non era in grado di tornare all’autenticità della fede e dei valori per risolvere le difficoltà» (Intervento alla “Festa democratica del PD, Reggio Emilia 25 agosto- 9 settembre 2012” sul tema A 100 anni dalla nascita di Giuseppe Dossetti. Il ricordo di Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Alberto Melloni, Sergio Cofferati). Un profeta della politica, un profeta tout court : questo fu principalmente Giuseppe Dossetti. Questo è ciò che manca ancora all’odierno scenario politico italiano e in particolare a tutti quei cattolici che si sentono decisamente orfani della sua eredità. Almeno per ora.

Per uscire cristianamente dall’euro

euro-italiaAl dualismo economico tra nord e sud del mondo e a quello tra nord e sud d’Italia sembra essersi stabilmente aggiunto oggi il dualismo economico tra nord e sud d’Europa ovvero tra i paesi centrali e i paesi periferici dell’Unione Europea, per cui, secondo alcuni analisti, nel corso del prossimo decennio questi ultimi «potrebbero essere ridotti al rango di fornitori di manodopera a buon mercato o, al più, di meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà sempre più spesso a situarsi al centro del continente» (E. Brancaccio, Uscire dall’euro: c’è modo e modo, “Alternative per il socialismo”, n. 27, luglio-agosto 2013). Non c’è infatti dubbio che il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione salariale, a colpi di continua riduzione dei redditi individuali, degli stipendi, dei salari e delle pensioni, messo in atto nei paesi periferici dell’Unione, sembra essere destinato al fallimento, per cui appare probabile che prima o poi, contrariamente alle previsioni o agli auspici di tanti europeisti convinti, l’eurozona possa deflagrare e i paesi che ne fanno parte debbano prepararsi a sganciarsi dalla moneta unica per tornare alle monete nazionali.

Sarebbe perciò il caso che anche l’Italia, anziché attardarsi in una difesa ad oltranza della sua prospettiva e della sua politica europeiste, cominciasse ad elaborare una sua precisa “strategia d’uscita” dall’euro, per non trovarsi impreparata, nel caso in cui l’eventualità qui ipotizzata dovesse materializzarsi in un breve volgere di tempo, ad adottare soluzioni capaci di favorire il ritorno quanto più incruento possibile alla lira e quindi quanto meno possibile dannoso sui diversi gruppi sociali. Non c’è, in effetti, solo un modo di gestire un’eventuale uscita dalla moneta europea: anche nel caso in cui non la si potesse scongiurare si darebbero modi “di destra” e modi di “sinistra” per governare il relativo processo di transizione, benché tale processo al momento, è sempre opportuno precisare, non sia affatto scontato sia per la forte contrapposizione tra i diversi interessi finanziari nazionali sia perché a nessuno è veramente chiaro se un passaggio del genere potrebbe essere più conveniente rispetto alla situazione attuale e a quali paesi in particolare potrebbe convenire di più.

E’ tuttavia certo che, se le cose dovessero continuare a peggiorare (e non è detto che, almeno in questo caso, al peggio non ci sia mai fine), «la scelta di uscire dall’euro e di svalutare diventerebbe l’ultima carta per tentare di rimettere in equilibrio le bilance verso l’estero dei paesi periferici» (ivi). In questo senso, purtroppo, in Italia non esiste una “sinistra” che abbia pensato e stia pensando al modo in cui eventualmente sia più opportuno gestire la transizione, anche perché, al contrario, essa continua a ripetere stancamente e fatalisticamente (chissà poi perché) che all’Europa monetaria non c’è alcuna alternativa.

Pur non sussistendo alcun dubbio circa il fatto che la permanenza della moneta unica e dello stesso mercato unico europeo dipende esclusivamente dalla partita in atto tra i diversi assetti proprietari del capitale europeo e che rispetto a tale partita il mondo del lavoro con le sue residue rappresentanze partitiche e sindacali è ormai ininfluente perché subalterno al capitalismo finanziario europeo come sinora non era mai successo, e pur essendo totalmente evidente che tale partita continua a svilupparsi in un vuoto assoluto di proposte concrete e di decisioni operative, come potrebbe essere quella di avviare programmi di investimento pubblico nelle aree maggiormente in crisi tra cui anche l’Italia, la sinistra italiana continua a non capire o fa finta di non capire che in questo modo l’Unione monetaria finirà ineluttabilmente per mostrarsi insostenibile e si attarda a discutere di debito pubblico e di PIL negli stessi termini dogmatici di sempre, come se fosse tabù discutere di questi argomenti in modi diversi da quelli stereotipati, astratti e vessatori in cui amano trattarne i centri finanziari e burocratici di potere della UE: un po’ perché certe vecchie categorie economico-finanziarie riflettono gli odierni rapporti di forza o di potere tra i diversi gruppi capitalistici europei, e un po’ per non rischiare di indebolire oltre il “politicamente corretto” gli interessi nazionalistici di alcuni forti paesi del centro-nord d’Europa.

E’ sconfortante, ma in uno scenario obiettivamente cosí fosco e cosí poco promettente o appetibile, le sinistre europee non hanno ancora neppure avviato una riflessione su come eventualmente uscire dall’euro e su come uscirne principalmente per tutelare «gli interessi del lavoro subordinato», in un momento storico in cui persino un intellettuale spento come Prodi, che è uno dei responsabili di questa disgraziata situazione europea, e sia pure mosso da ragioni opportunistiche, sembra avvedersi del fatto che non si sia ancora pensato in Europa di cambiare il Trattato di Maastricht solo perché lo status quo va bene alla Germania. In realtà, egli dice, «non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati per 20 anni. Il 3% di deficit/Pil ha senso in certi momenti, in altri sarebbe giusto lo zero, in altri il 4 o il 5%. Un accordo presuppone una politica che lo gestisca e la politica non si fa con le tabelline» (Prodi: bisogna cambiare i Trattati di Maastricht. I conti non si mettono a posto senza il Pil, in “Il Sole 24Ore” del 4 novembre 2013).

Come uscire dall’euro è dunque una questione di decisiva importanza, perché, nel caso di un’uscita forzata o pilotata, il vero dilemma non sarebbe quello tra un ipotetico sistema di cambio irrevocabile e un’ipotetica libera fluttuazione delle monete, quasi si potesse ridurre il complessivo discorso politico ad una scelta di regime valutario, essendo invece la questione, specialmente in relazione ai rapporti sociali di produzione, molto più complessa. Non è possibile eludere determinate domande e giungere impreparati al tanto temuto evento: sganciamento dall’euro e conseguente svalutazione monetaria potrebbero determinare una caduta cosí pesante del valore dei capitali nazionali (e anche questo sarebbe un tema tutto da chiarire perché al riguardo non esistono certezze o dati incontrovertibili) da imporre alle autorità governative la scelta tra il favorire l’importazione estera a basso costo e il contrastarla: da un punto di vista strettamente economico- commerciale la prima soluzione sarebbe forse (ma con molti interrogativi) la più vantaggiosa e potrebbe essere definita “di destra”, mentre da un punto di vista economico-sociale, e quindi per ciò che riguarda la produttività interna e quindi il tenore di vita delle classi lavoratrici, contrastare l’importazione e tornare ad esportare a prezzi competitivi potrebbe essere la più saggia e opportuna, anche se tale opzione comporterebbe non solo la rinuncia alla moneta unica ma anche, in antitesi alle posizioni degli stessi “liberoscambisti di sinistra”, al mercato unico europeo, il che ovviamente non sarebbe per nulla semplice da attuare.

In economia, come sta a dimostrare il complessivo fallimento delle previsioni economiche dell’ultimo lustro, non si può mai prevedere esattamente come vadano le cose: ci sono troppe variabili che, anche volendo, non potrebbero mai essere contemplate in modo preciso o adeguato.

Tuttavia, c’è un punto dell’analisi di Emiliano Brancaccio che anche i cattolici possono ritenere di poter sottoscrivere con relativa tranquillità. Questo punto è quello in cui egli afferma quanto segue:  «Cosí come è da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe inesorabilmente una svalutazione di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali, cosí pure risulta infondata la tesi di chi esclude l’eventualità di un impatto negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito. Un elemento certo tuttavia sussiste: l’uscita da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali – scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati, ecc. – in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività. Escludere tali meccanismi implica, in buona sostanza, un’uscita dall’euro “da destra”.Contemplarli significa predisporre un’uscita “da sinistra”» (ivi).

Non ci sono prove di nessun genere che con l’Europa unita economicamente e burocraticamente, con l’euro, con la BCE, con la troika, con l’ulteriore supporto dello stesso Fondo Monetario Internazionale, nelle loro forme attuali, i popoli europei nel loro insieme abbiano ricevuto o potranno ricevere dei veri benefici, mentre appare innegabile che il fronte europeo è oggi molto più diviso da interessi e programmi monetari e fiscali di quanto non fosse sino a prima della costituzione della stessa UE.

E, in ogni caso, questo è certamente vero già ora per nazioni come la Grecia, Cipro, il Portogallo, la Spagna, l’Italia o la stessa Francia, cioè per porzioni cosí consistenti d’Europa che voler continuare a parlare d’Europa e di questa Europa a tutti i costi come dell’unica possibile sarebbe come voler scommettere non sulla rinascita ma sull’ineluttabile e tragico declino della stessa Europa oltre che delle singole entità statuali nazionali.

Almeno i cattolici non possono consentirlo e non possono stare ancora ad ascoltare gli ottimistici ma irrealistici e propagandistici discorsi politici di strani cattolici come Enrico Letta che continua a ritenere di poter meglio difendere i poveri difendendo i ricchi e che non potrà esorcizzare il fallimento della sua esperienza governativa semplicemente definendo indistintamente “populisti” tutti coloro che avversano un’Europa costruita ad immagine e somiglianza di ricche e potenti plutocrazie internazionali.

Ma i cattolici, per contribuire a portare i loro paesi oltre l’Europa e l’euro dei mille inganni, non dovranno né cedere a tentazioni “complottistiche”, secondo le quali gli occulti “nemici” dei popoli debbano essere subito attaccati frontalmente e magari per mezzo di violente rivolte popolari o di atti politici inconsulti piuttosto che attraverso pacifiche ma risolute manifestazioni di dissenso e attraverso sagge ma avanzate politiche di mediazione con le autorità europee rispetto alle ciniche e fallimentari direttive sovranazionali che si vorrebbe continuare ad imporre, né fare promesse esorbitanti e strumentali come sono forse quelle che sta facendo in America in questo momento l’italo-americano Bill de Blasio.

Essi saranno credibili solo se, mentre si impegneranno a persuadere i partners europei e i massimi organismi decisionali della finanza internazionale circa la necessità di ridiscutere trattati economici e fiscali già stipulati e di ridefinire in un senso di maggiore ragionevolezza ed equità i termini e le cifre dei “debiti sovrani” (e maggiore ragionevolezza ed equità converrebbero anche alla potente locomotiva economica della Germania merkeliana che potrebbe avere a sua volta problemi molto seri il giorno in cui tutti i suoi mercati di sbocco nel sud d’Europa dovessero crollare verticalmente), saranno poi in grado di ottenere una di queste due cose: o rilanciare un’idea europeista a livelli finalmente apprezzabili dal punto di vista etico e politico con ricadute economiche altrettanto efficaci o almeno non deprimenti per tutti gli Stati membri, o l’abbandono della prospettiva europeista e la riconquista della sovranità monetaria nazionale al fine di poter più dignitosamente tutelare i legittimi interessi nazionali con una spinta, maggiore di quella resa possibile oggi dagli odierni e spesso incomprensibili “vincoli” europei, a valorizzare le proprie risorse naturali, i propri prodotti alimentari e commerciali, e persino la propria forza lavoro di massa (dipendenti, operai, ricercatori e tecnici, lavoratori in genere) con politiche non solo fiscalmente e tributariamente equilibrate e tollerabili ma anche retributivamente e distributivamente adeguate e al tempo stesso capaci di affrontare la concorrenza internazionale ad alti o più alti livelli di produttività.

Come ha ben rilevato Alberto Bagnai, l’euro si è ormai rivelato per molti paesi,  tra cui l’Italia, “insostenibile”. Il problema è dunque quello di uscirne per tempo, cioè prima che sia troppo tardi (vedi Grecia, vedi Cipro). Per il momento, dice Bagnai, «i fondamentali dell’economia italiana sono sostanzialmente buoni, il debito pubblico italiano non è a rischio e il popolo italiano è ancora risparmiatore, quindi ha tutto il vantaggio di tirarsi fuori da questa trappola prima che la propria ricchezza, gli immobili e i risparmi in banca vengano aggrediti dall’Europa per ricapitalizzare quelle banche del nord che hanno sbagliato» [Addio Euro. Come uscirne (senza danni) per non farsi rapinare dall’Europa, in “Economia e Finanza” del 28 marzo 2013]. E’ certamente questo uno dei punti più incontrovertibili dell’analisi di Bagnai. Mai come in questo caso sembra cosí vero il detto secondo cui “il tempo è denaro”, quel denaro di cui l’Italia non può ulteriormente privarsi per non sprofondare nelle acque paludose della miseria e del sottosviluppo. La tempestività dell’azione politica è e sarà una delle condizioni necessarie per un salvataggio non avventuroso ma almeno relativamente tranquillo della vita economica e sociale italiana.

Da questo punto di vista i cattolici, domani impegnati evangelicamente in politica, se ci saranno realmente dovranno essere ambiziosi: non per se stessi ma per la propria gente (e forse per l’intera umanità) e innanzitutto e soprattutto per soddisfare le necessità più impellenti dei ceti e dei soggetti più deboli. Consapevoli, come è ovvio, dell’estrema difficoltà del compito ma anche del fatto che, con Cristo nel cuore e nella mente, nulla è impossibile specialmente se gran parte di un popolo si predisponga di nuovo a credere in Lui e a perseguire il proprio bene in spirito di carità e di giustizia.

L’Italia tra insipienza governativa e incubo europeo

cittaIl dibattito politico italiano è inconsistente e menzognero. E’ molto probabile che le forze politiche italiane, affette ormai da cronica cecità etica e politica oltre che da una manifesta capacità di elaborare e proporre analisi economiche sufficientemente attendibili, non abbiano dato e non diano alcuna importanza ad articoli-documento come quello molto recente pubblicato da uno studioso italiano della London School of Economics che ha annunciato cosí, con un’analisi assolutamente impeccabile per chiarezza ed obiettività, l’inevitabile declino dell’Italia: “Dell’Italia non rimarrà nulla, in 10 anni si dissolverà” (nel sito “Irib World Service”, giovedì 17 Ottobre 2013).

Ci si riferisce al dottor Roberto Orsi che, descrivendo con precisa cognizione di causa le terrificanti dinamiche in atto nel nostro Paese, prevede, a meno di radicali inversioni di tendenza oggi improbabili, lo sprofondamento dell’Italia in una condizione di decadenza civile e culturale e di estrema povertà economica al massimo entro un decennio: «Gli storici del futuro», egli afferma, «probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampante terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale». Perché?

Perché anche l’attuale governo Letta, sostanzialmente in linea con i programmi del precedente governo Monti, continua a fare tutto quello che non dovrebbe fare per poter sperare di rimettere realmente in carreggiata il nostro Paese: la supina condiscendenza ad una Unione Europea visibilmente fallimentare, e quindi provvedimenti economici totalmente insufficienti a risollevare il mondo del lavoro e il complessivo mondo produttivo dallo stato di depressione in cui sono precipitati gradualmente e sempre più pesantemente nell’ultimo ventennio. Si pensi all’aumento obiettivamente insensato dell’IVA al 22% che non può che deprimere ulteriormente i consumi, nonostante i «vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie» e nonostante le ottimistiche ma false e infondate rassicurazioni circa una “imminente ripresa” dell’economia italiana.

In effetti, dopo i numerosi salassi fiscali e tributari imposti senza soluzione di continuità ai cittadini italiani specialmente nell’ultimo decennio, un qualche infinitesimale miglioramento ci sarà anche stato ma esso non può che risultare del tutto insignificante ai fini di una effettiva “ripresa”. Si può dire che, dal governo Monti al governo Letta, si sia verificata «una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione», cioè qualcosa di irrilevante dal punto di vista economico e sociale. Se si pensa che, prima della crisi, l’Italia era il più grande Stato europeo subito dopo la Germania nel settore manifatturiero e che oggi ne risulta distrutto il 15% con la scomparsa di circa 32.000 aziende, ci si può fare un’idea abbastanza precisa di quali irreparabili danni siano stati arrecati da una politica economica insipiente e irresponsabile e da una politica governativa tout court che negli anni non ha mai voluto capire che «l’apertura indiscriminata ai prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori».

L’altra faccia della medaglia di questa politica nazionale acriticamente favorevole alla globalizzazione di merci e denaro è consistita nella irresponsabile decisione dell’Italia di firmare i trattati sull’euro con la promessa ai partners europei di impegnarsi a perseguire politiche di austerità e ad attuare riforme che, fortunatamente o sfortunatamente, non sono mai state attuate non già per senso di responsabilità verso il popolo italiano ma solo per il timore che riforme attuate nel segno del liberismo europeista avrebbero potuto determinare sollevamenti popolari incontrollabili.

Ora, viene giustamente rilevato e ribadito senza mezzi termini, «questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori», giacché la globalizzazione, egemonizzata oggi dal grande capitalismo finanziario internazionale, non riguarda solo lo spostamento delle merci da una parte all’altra del mondo ma anche quello sempre più drammatico e frequente di masse di esseri umani (si pensi al fenomeno dell’immigrazione in particolare in Italia ma poi anche in tutte le parti del mondo in cui il capitalismo non ha ancora prodotto condizioni di totale ed irreversibile povertà), che da un lato pongono ulteriori problemi economici (specie ad un Paese di frontiera come l’Italia) e dall’altra non possono che diventare oggetto di uno sfruttamento selvaggio.

Se a queste rovinose dinamiche strutturali che agiscono anarchicamente a livello mondiale senza che siano contrastate da una volontà di restituire, rispetto alle imperanti logiche di progressiva totale espropriazione dei popoli della loro legittima ricchezza, una forte centralità alla politica e a politiche sociali fatte nell’interesse dei popoli e non dei magnati della grande finanza mondiale, si aggiunge che in Italia «un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale ma persino…verso la vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli», il quadro non può non risultare terribilmente fosco per gli stessi sostenitori di un europeismo ad oltranza.

Si dà il caso che nella mente dello stesso Letta qualche dubbio cominci a sorgere se è vero che, come riportato dagli organi di stampa,  in un discorso tenuto ieri alla Sorbonne di Parigi egli abbia detto ad un certo punto: «L’Europa non è la causa della “crisi”, ma i problemi attuali come l’elevata disoccupazione vengono dalla “mancanza d’Europa”», dove però il premier italiano evidentemente non si avvede della incongruenza presente nella sua affermazione. Perché se tu ammetti che “i problemi attuali”, come “l’elevata disoccupazione”, «vengono dalla mancanza d’Europa», non dovresti poi concludere che questa Europa reale, che oltre tutto commina irrazionalmente e arbitrariamente pesanti multe o sanzioni pecuniarie anche a causa della cosiddetta eccedenza di beni alimentari preziosi come il latte o gli agrumi o dello stato relativamente fatiscente e inadeguato delle carceri, è solo fonte di guai e di immiserimento materiale e morale? Non dovresti quindi sganciarti da questa Europa per meglio tutelare gli interessi e la dignità del popolo che rappresenti e governi, salvo facendo il principio che, in quanto Paese libero e a pieno titolo sovrano e non suddito o schiavo di autorità sovrastatuali sostanzialmente indifferenti al bene dei popoli, con tutti gli Stati occorra pur sempre collaborare e istituire scambi commerciali e culturali di reciproca utilità?

Peraltro, rileva l’economista italiano della London School of Economics, il declassamento dell’Italia come nazione industriale comporta anche la drammatica conseguenza di una fuga mai cosí massiccia come quella odierna di cervelli ottimamente predisposti ad una ricerca scientifica di alto livello, per cui migliaia di giovani ricercatori, tecnici e scienziati emigrano, oltre che negli USA e in Asia orientale, anche in Paesi europei come la Germania, Francia, Gran Bretagna o Scandinavia, che sulla carta dovrebbero essere tutti concorrenti dell’Italia, dove possono disporre di trattamenti economici di gran lunga più soddisfacenti di quelli che si vedono offerti in Italia.

Tutto questo accade proprio mentre, come forse pochi sanno, l’Italia viene ceduta a pezzi come la Grecia: si pensi, come ha evidenziato il sito “ImolaOggi” il 4 ottobre 2013, alla vendita o piuttosto alla svendita proposta, con tanto di annuncio nel sito “Immobiliare.it”, di isole bellissime come l’isola di Santo Stefano, che è la più piccola isola dell’arcipelago Pontino, vicino alla storica isola di Ventotene, e di altre isole di grande bellezza ambientale-paesaggistica e di notevole richiamo turistico disseminate tra Venezia, la friulana Grado e Messina: veri e propri gioielli nazionali che potrebbero avere ricadute finanziarie notevoli e assolutamente vantaggiose per lo Stato italiano e che invece si ritiene di dover mettere in vendita: incredibile ma vero!

Ora, però, tutto lo sfascio attentamente descritto e spiegato dal nostro esperto economista, si è venuto compiendo anche nel quadro di una progressiva e sia pure tacita violazione della nostra carta costituzionale, in quanto la nostra nazione per molti, troppi anni è stata governata, scrive senza peli sulla lingua il dottor Orsi, «da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale».

Accusa più chiara verso Napolitano e i suoi imbelli complici di sinistra e di destra, incapaci tra l’altro di avere una visione politica a lungo termine, non poteva essere formulata, e non in modo isterico come è solito fare il comico Grillo bensí in termini di pacata e obiettiva razionalità e alla luce di dati empirici francamente inoppugnabili che solo coloro che sono in malafede o completamente soggiogati da categorie economiche ormai obsolete e da un modo totalmente sbagliato di intendere l’attività politica possono ancora ostinarsi a manipolare e a mistificare sul piano della comunicazione sociale. Tutta questa gente, dice Roberto Orsi, sta garantendo semplicemente «la scomparsa dell’Italia», anche se molti cittadini sono stati indotti e continuano ad essere indotti a pensare illusoriamente che Napolitano e compagni stiano invece lavorando al fine di salvare la nostra nazione. In questo modo il declino dell’Italia, in un arco di tempo non superiore a un decennio, è destinato ad essere veramente inarrestabile.

Tanto più inarrestabile se si pensa che, proprio in questi giorni, il Fondo Monetario Internazionale, pur smentendo formalmente talune indiscrezioni di stampa secondo cui esso starebbe già pensando ad applicare un prelievo forzoso del 10% sui redditi e sui conti correnti più consistenti dei cittadini europei e naturalmente anche italiani (ma sino a quando si continuerà a parlare ipocritamente e demagogicamente di redditi più alti dal momento che, di fatto, come dimostra il caso della Grecia, persino ceti agiati ma certamente non ricchi finiscono poi per pagare il prezzo più alto e infame di queste stupefacenti soluzioni praticate cinicamente dall’UE, dalla famigerata Commissione Europea e dal rapacissimo Fondo Monetario Internazionale?) al fine di ridurre i debiti sovrani o l’indebitamento pubblico degli Stati europei finanziariamente più compromessi, ha tuttavia molto sinistramente precisato per bocca del suo portavoce William Murray, che in realtà il Fondo si starebbe dedicando solo ad “un lavoro di analisi” e alla elaborazione di “semplici ipotesi”, al più permettendosi di sottoporre all’attenzione dei governi nazionali europei delle “raccomandazioni”.

Solo gli sprovveduti potrebbero non cogliere qui il modo subdolo e arrogante in cui parlano questi signori della grande finanza internazionale per tentare di mascherare i loro piani criminali. Non è decisamente ora, secondo l’invito più volte espresso in questo sito, che i popoli reagiscano in modo adeguato e che i cattolici intellettualmente e spiritualmente radicati nel vangelo di Cristo entrino presto nell’arena politica?

I ricchi non cantino ancora vittoria!

Uno degli uomini più ricchi della terra come Warren Buffett, noto come re dei mercati finanziari globali ed esponente di punta di un esercito plutocratico chiamato High net worth individuals (individui con un elevato patrimonio finanziario pari almeno a 35 milioni di dollari) e composto da circa 200.000 persone ma suscettibile di continua crescita nonostante la crisi o piuttosto proprio grazie alla crisi, ha dichiarato recentemente con toni trionfalistici che la lotta di classe di cui parlava Marx nell’800 non è affatto finita, come per troppo tempo si è andato dicendo, ma che essa è più che mai viva e vegeta anche se non più guidata egemonicamente come in un passato ormai lontano dalle classi povere bensí dalla classe ricca che starebbe conseguendo vittorie sempre più significative (P. Lambruschi, Marx sconfitto dai super ricchi, in “Avvenire” del 12 settembre 2012).

Buffet si riferisce al fatto che nell’odierno mondo globale i ricchi riescono a rubare ai poveri senza che ciò determini reazioni popolari particolarmente significative in virtù di un supporto intellettuale e culturale, certo élitario ma dotato di articolazioni efficaci in tutte le parti del mondo, che è stato capace di ottenere senza colpo ferire un consenso forse in gran parte passivo ma comunque vastissimo e inimmaginabile anche presso i ceti medi e bassi delle varie popolazioni del mondo. Tale consenso riguarda principalmente un punto: che, per uscire dalla crisi, fossero e sono ancora necessarie misure di austerità perché uno Stato, al pari di una famiglia, può spendere solo in base alle entrate e in esso non c’è sviluppo possibile senza contenimento e riduzione del debito pubblico ovvero senza tagliare la spesa pubblica che comprende anche degli “sprechi” da eliminare ma che non può essere considerata in senso generale come sinonimo di “spreco”.

Questo assunto, che ha fatto incredibilmente breccia nella psicologia delle masse, è manifestamente falso per tutta una serie di ragioni tra cui anche quella per cui non è affatto vero che la crescita economica presupponga necessariamente l’abbassamento o l’azzeramento del debito pubblico e quindi anche il notevole contenimento della spesa sociale, essendo al contrario ben noto come storicamente sia proprio il debito pubblico, che non può essere confuso o identificato con gli sprechi, a finanziare la crescita o la sana economia di uno Stato. Che tuttavia la gente sia stata convinta della ineluttabilità dell’austerità al fine di fronteggiare tanto il debito pubblico quanto la depressione economica è dimostrato dal fatto che, persino in una situazione disperata come quella che si è venuta determinando in Grecia, non è scoppiata alcuna rivoluzione.

Questo dato ovviamente ha finito per incoraggiare l’offensiva capitalistica mondiale volta ad espropriare quanto più possibile tutti i cittadini del mondo delle loro stesse ricchezze o risorse economiche personali e ha fatto quindi sí che tale offensiva portasse ad un graduale smantellamento nei paesi occidentali dello Stato sociale, dei tradizionali diritti dei lavoratori, della sovranità nazionale e della stessa democrazia. E’ sin troppo facile capire che quanto più irreversibile dovesse risultare questo processo di erosione dei tradizionali assetti costituzionali e giuridico-istituzionali degli Stati occidentali, sia pure attraverso abili accorgimenti e manovre di tipo “riformistico” di sicura risonanza mediatica anche se di molto debole impatto sociale ed economico, tanto maggiore sarebbe la possibilità di ricavare profitti ancora e sempre più alti senza grossi traumi.

Purtroppo, questa è la situazione. E’ bene fissare in mente questo concetto: la lotta di classe sarà effettivamente e irreversibilmente vinta dai capitalisti e dunque dai ricchi di tutto il mondo se si consentirà che la crescita, la ripresa economica, la riduzione del debito sovrano e il rifiorire del benessere sociale, passino tranquillamente attraverso la distruzione dello Stato sociale e della democrazia. Questa, in realtà, è solo la più recente e moderna versione di una poliedrica e flessibile ideologia capitalista che, pur sempre identica nei suoi obiettivi classisti di fondo, cerca di adattarsi pragmaticamente ai diversi mutamenti storici. La domanda è: che fare perché tutto questo non accada?

Sarebbe ingenuo pensare, come pare abbiano fatto i trecento economisti firmatari di un documento pubblicato sul Financial Times, La advertencia de los economistas (Il monito degli economisti), 23 settembre 2013, che l’austerità europea sia solo la ricetta sbagliata (perché capace solo di deprimere la domanda di beni e di servizi, di penalizzare il lavoro e l’occupazione, di scoraggiare i consumi e ogni concreta possibilità di ripresa economica sia nel settore produttivo pubblico che in quello privato) di una teoria economica e di previsioni economiche sbagliate, pur ammettendo che in buona fede questo o quell’economista abbia potuto semplicemente sbagliare i suoi calcoli.

Certi cataclismi o disastri economici non si verificano per semplici errori teorici, specialmente quando tendono a perpetuarsi nel tempo. Anche perché se certi errori teorici potessero davvero provocare situazioni cosí devastanti, si avrebbero a quel punto delle ottime ragioni per non tenere più in alcuna considerazione gli economisti medesimi, qualunque cosa dicano o propongano.

Ma cataclismi e disastri sono dovuti invece a qualcosa di decisamente deliberato e di molto più grave: ad una precisa strategia di lotta, elaborata politicamente dalle principali oligarchie finanziarie del mondo e corredata certo di ogni opportuno supporto “teorico-economico-scientifico”, per appropriarsi, sotto l’egida di un certo numero di trattati e di vincoli finanziari resi legittimi solo da una ristrettissima comunità internazionale di politici, banchieri ed esperti di varia estrazione culturale e organici al disegno capitalista, della maggior parte del valore e quindi del denaro prodotto dalla forza-lavoro di massa esercitata in tutti i sistemi produttivi del mondo. Una strategia che comporta, per l’appunto, l’abbattimento del Welfare State e della stessa democrazia nelle stesse nazioni occidentali di più salda e radicata tradizione democratica.

Che fare dunque perché questa ennesima barbarie capitalista non infesti irreversibilmente il mondo sino a farne un pianeta di nuovo segnato dal dominio di pochi padroni su una massa sterminata di schiavi? Si può sempre eccepire che l’analisi qui proposta veicoli in realtà certe visioni “mondialiste” e “complottiste” che al più potrebbero rientrare nella categoria delle semplici supposizioni. Ma, pur ritenendo chi scrive che il mondialismo non sia affatto una semplice supposizione bensí una realtà suffragata da dati ormai inconfutabili (non si capirebbe, per esempio, perché certi esclusivi clubs economico-finanziari di cui fanno parte anche numerosissimi politici ed economisti italiani di alto profilo istituzionale operino periodicamente in totale segretezza e senza far trapelare alcunché delle “decisioni di studio” da essi assunte), in realtà anche economisti che non si professano né mondialisti né complottisti riconoscono chiaramente quale sia il vero problema da risolvere.

Un economista come Emiliano Brancaccio ha di recente rilevato sul suo sito che sino a quando resterà inalterata l’attuale deregolamentazione finanziaria con relativa e completa libertà di movimento internazionale dei capitali, la situazione è destinata a non cambiare o a cambiare verso il peggio: «La verità è che in condizioni di libera circolazione dei capitali – e di relativo smantellamento della produzione pubblica – non è certo la volontà dei singoli ma è il meccanismo di riproduzione capitalistica, con la sua instabilità e le sue crisi, che decide della distribuzione, della composizione e del livello della produzione e dell’occupazione» (“Liberare” i migranti senza “arrestare” i capitali? Un suicidio politico, 10 ottobre 2013), dove peraltro, come si intuisce dal titolo dell’articolo, la scottante e attualissima questione degli “immigrati” che sbarcano ormai ininterrottamente sulle coste italiane viene intelligentemente posta non già solo in rapporto a princípi di ordine giuridico e umanitario ma proprio in rapporto al problema di un necessario ed inedito rilancio di «proposte finalizzate al controllo politico dei movimenti di capitale. Dove per controllo dovrebbe intendersi il ridimensionamento dei mercati finanziari e il riassorbimento, nell’ambito della dialettica politica, della questione cruciale del riequilibrio dei conti esteri. Il ripristino di una rete di controlli sui capitali è una delle condizioni necessarie per impedire che lo scontro distributivo e occupazionale continui ad esprimersi solo tra i lavoratori, in particolare tra nativi e migranti» (ivi).

Ma non è che la messa a punto di questi controlli sui capitali richiedano necessariamente tempi biblici; sarebbe sufficiente che le politiche nazionali degli Stati con maggiori difficoltà di tenuta economica e sociale, a cominciare da quella italiana che potrebbe ben decidersi autonomamente al grande e storico passo, sebbene non privo di insidie, iniziassero a lavorare per spostare il loro baricentro dalla preoccupazione di onorare irrazionali impegni “europei”, che andrebbero assolutamente ridefiniti o rimodulati, alla preoccupazione primaria e inderogabile di tutelare e di come tutelare le proprie comunità nazionali molto meglio di quanto abbiano fatto sinora. Prima che sia troppo tardi: prima che la violenza dei popoli esploda in forme incontrollabili e si contrapponga alla controllata ma criminale violenza di quella classe ricca che sta tanto a cuore al supermagnate americano Warren Buffett.

Noi cattolici non possiamo augurarci che la storia dell’umanità evolva o involva verso forme di aggressività e di lotta primordiali e beluine. Ma, proprio per questo, dovremo impegnarci strenuamente per estirpare il più possibile dal mondo, con le armi pacifiche ma oltremodo efficienti della giustizia e dell’amore evangelici, le radici stesse del male: quel peccato personale e sociale che consiste nel voler negare legittimità alla comune e inviolabile dignità degli esseri umani. Noi cattolici, tra l’altro, dovremo fare di tutto, nel vincolo di amore e di fedeltà a Cristo vivo, per contrastare incisivamente quell’immorale ideologia secondo cui i ricchi sarebbero legittimati non solo ad accumulare smisurate ricchezze ma persino a manipolare direttamente e indirettamente le persone allo scopo di far credere loro che il loro diritto all’arricchimento illimitato sia in fondo giusto e che le uniche ricette valide per combattere la povertà e la regressione economica siano quelle della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea.

Cattolici: svegliamoci!

Un economista cattolico, non accademico ma generalmente più chiaro e preciso di altri economisti cattolici dotati di titolo universitario e costantemente ospitati sulle colonne di alcuni importanti giornali nazionali, alcuni mesi or sono gettava brillantemente luce sulle dinamiche che sono alla base di una crisi epocale che non accenna ancora a finire.

Alla fine di luglio scorso, descriveva questa situazione: «il 9 luglio scorso la maggiore agenzia di rating mondiale, Standard & Poor’s (S&P), la stessa agenzia che nel 2008 poco tempo prima del fallimento Lehman and Brothers, aveva emesso un giudizio positivo sulla banca d’affari americana (“ci si poteva mettere la mano sul fuoco”), ha declassato il rating dell’Italia a BBB (la stessa valutazione del Perù), con outlook negativo (prospettive negativo, ossia ci sono il 30% di possibilità che il rating venga ulteriormente abbassato nel corso del 2013-2014)…La motivazione esplicita di questa penalizzazione secondo S&P è dovuto alla mancanza di attuazione delle riforme strutturali da parte dei governi che si sono succeduti…Si tratta di un giudizio molto grave che pone i titoli di stato italiani appena due categorie di rating sopra la valutazione di titoli spazzatura…Questo ha delle pesanti conseguenze sia di breve che medio lungo periodo (nel caso si dovesse arrivare in futuro a tale valutazione), sul costo del debito pubblico che l’Italia deve e dovrà pagare. Imporrà ulteriori tagli devastanti che incideranno sulle carne viva delle famiglie e delle imprese» (C. Tabarro, Europa, finanza o democrazia? -prima parte- in “Zenit” del 28 luglio 2013).

D’altra parte, la valutazione negativa della tristemente nota agenzia americana di rating avrebbe ulteriormente scoraggiato il sistema bancario nel suo insieme a finanziare l’economia reale, al cui servizio la finanza dovrebbe di norma sempre porsi, contribuendo notevolmente ad alimentare la perversa spirale di recessione e povertà. La non attuazione delle riforme strutturali necessarie all’economia italiana, la sostanziale stagnazione del PIL, la difficoltà di raggiungere gli obiettivi di bilancio per il 2013 a causa di una recessione ancora in corso e della volontà del governo italiano di sospendere o eliminare una tassa importante come l’IMU e infine dell’aumento di un punto percentuale dell’IVA, la quale, abbassando probabilmente il consumo, non avrebbe potuto non compromettere l’auspicata ripresa, non avrebbero consentito di superare talune rigidità presenti nel mercato del lavoro e in quello dei prodotti, per cui non era sembrato difficile alla Standard & Poor’s prevedere un ulteriore allontanamento della soluzione della crisi.

Nel frattempo, però, l’agenzia americana insisteva sul fatto che la condizione necessaria di qualsivoglia processo di crescita, di sviluppo, di ripresa dell’occupazione e quant’altro, doveva rimanere pur sempre l’obbligo del governo italiano di tenere in ordine i conti pubblici con tutto quel che di vessatorio ciò sarebbe venuto ancora implicando per il popolo italiano e principalmente per le sue fasce sociali meno protette e meno abbienti. A questo punto, il nostro economista non poteva fare a meno di affermare: «le misure proposte da S&P per evitare ulteriori declassamenti, lasciano alquanto perplessi sia dal punto di vista della giustizia sociale, della solidarietà e della tenuta democratica, sia dal punto di vista tecnico. Quale giustizia sociale, quale solidarietà, quale democrazia può perseguire la finanza speculativa, rappresentato da poche persone (di cui S&P è uno dei massimi esponenti), che nessuno ha votato, quando emette le sue “valutazioni” interessate che incidono sulla carne viva e sui destini di miliardi di persone?» (ivi).

E non poteva non denunciare la cecità ideologica che stava in realtà alla base di una visione economica e sociale non solo pseudoscientifica perché costantemente priva di positivi riscontri empirici ma anche profondamente nichilistica e immorale perché completamente priva di interesse per l’umanità e la solidarietà, dove, se questa denuncia è vera, come è vera, né l’Europa né l’Italia potranno mai uscire da una crisi suscettibile invece di peggiorare in modo indefinito. A ben vedere, le riforme invocate da S&P non possono minimamente intendersi come da concepire nell’interesse dei lavoratori italiani e di un sano sviluppo della nostra compagine sociale ed istituzionale, ma esclusivamente nell’interesse di un capitale internazionale sempre più vorace che non avendo ormai molto da lucrare nelle tradizionali aree modiali del sottosviluppo ha deciso di doversi accanire sulle ultime riserve di ricchezza rimaste, ovvero sulle stesse società occidentali che fino a ieri potevano godere di un buon tenore di vita pur se anch’esse caratterizzate dalla presenza di non trascurabili sacche di povertà.

Questa è la verità pura e semplice e ha perfettamente ragione chi scrive incidentalmente, pur da veterocomunista, che «l’attuale recessione non è un episodio accidentale, ma una crisi strutturale causata dall’eccessivo sviluppo delle forze produttive, una crisi accelerata dalla saturazione dei mercati internazionali» (L. Garofalo, Avanguardia di “ciarlatani e pifferai magici” o consociazione di rivoluzionari?, in sito “Il Dialogo”, 8 settembre 2013), il che significa che questa crisi «si spiega in virtù dell’enorme divario tra la crescente produttività del lavoro e la declinante capacità di consumo dei lavoratori. In altri termini, gli operai producono troppo, a tal punto che non si riesce a vendere quanto essi producono. E’ questa la radice delle contraddizioni del capitalismo, che è riconducibile alla sua tendenza intrinseca (e cioè innata) alla sovrapproduzione di merci. In questo quadro complessivo l’azione dei governi (qualsiasi governo) asseconda gli interessi del capitalismo di finanza» (ivi).

Se non si capisce, adottando politiche appropriate, che è proprio questa tendenza strutturale il reale motore della crisi in atto, come è significativamente dimostrato dalla persistenza negli ultimi decenni delle politiche di liberalizzazione indiscriminata poste in essere dai vari governi nonostante si accresca la consapevolezza che esse favoriscono grandi potentati economici, banche e società finanziarie, a netto svantaggio dei lavoratori di ogni ordine e grado, non sarà mai possibile ottenere significative inversioni di tendenza volte a tutelare il lavoro in tutti i suoi aspetti ed articolazioni contro la volontà ormai non solo incontrollata ma ostentatamente dispotica del grande capitale finanziario internazionale.

Come si fa a non capire che, oggi più che mai, termini come impresa, mercato, produttività, profitto, rigore finanziario e amministrativo, sono sempre meno termini asettici o neutrali perché definiscono al contrario affari e poteri concreti, persone in carne e ossa apparentemente anonime ma terribilmente reali? Come si fa a non capire che la prima mossa di una onesta e sensata strategia politica deve essere quella di non esibire più univocamente questi interessi come beni comuni o come strumenti irrinunciabili del bene comune? Fino a che punto, al di fuori di eventuali o reali riferimenti ideologici non più accettabili, anche un cattolico integro può dissentire da chi sostiene che «la contraddizione centrale è tuttora quella che contrappone l’impresa capitalista al mondo del lavoro sociale. I lavoratori devono prendere coscienza che il vero problema risiede nel costo del capitale, nell’inasprimento delle condizioni di sfruttamento e nell’aumento degli straordinari, nella crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita degli operai» (ivi)?

Sono sempre più numerosi, dopo un lungo periodo di letargo intellettuale, gli economisti che non esitano più ad indicare con chiarezza lo stretto nesso che intercorre tra le politiche europee di austerità e il crollo del PIL con una decrescita economica che non accenna a fermarsi. Cosa si aspetta dunque a zittire per sempre l’agenzia americana di S&P che da una parte ci punisce abbassandoci il rating perché il PIL non cresce secondo le previsioni (le previsioni poi di chi?) e dall’altra chiede nuove misure di austerità per raggiungere gli obiettivi di bilancio? Fino a quando ancora la classe politica italiana ed europea sarà disposta, per obbedire a queste assurde direttive, a tollerare che i propri cittadini siano trattati come “bestiame umano”, come “scarti umani? Ma soprattutto: è possibile che non ci siano cattolici italiani capaci di impegnarsi politicamente, con tutti i loro limiti, per tentare in tutti i modi di restituire dignità morale e vera stabilità economica alla loro nazione?

E’ vero che il nostro attuale ministro dell’economia Saccomanni ha avuto parole molto dure sul declassamento dell’Italia sanzionato da S&P, affermando che «è aperto il dibattito nelle sedi ufficiali sul ruolo delle agenzie di rating nell’orientare le scelte e le aspettative dei mercati finanziari internazionali. Decisioni non adeguatamente sostenute da analisi condivise possono avere effetti pro-ciclici e destabilizzanti» (C. Tabarro, Europa, finanza o democrazia? -seconda parte- in “Zenit” 29 luglio 2013), ma poi egli dichiara di voler rispettare alla lettera gli impegni finanziari presi dall’Italia con l’Unione Europea e con la BCE, dimostrando cosí di non aver compreso come alla lunga proprio questi impegni siano obiettivamente insostenibili e contrari ad ogni reale e durevole possibilità di ripresa economica.

Tanto più questo è drammaticamente vero quanto più si rifletta sulla strafottenza con cui un’altra agenzia americana come Moody’s, proprio mentre viene scritto il presente articolo, dichiara che, benché l’attuale governo italiano sia sopravvissuto alla recente crisi politico-parlamentare provocata da Berlusconi, esso sia tuttavia cosí “fragile” da mettere in seria discussione l’attuazione delle riforme fiscali e strutturali gradite ai signori burocrati e tecnocrati di Bruxelles e necessarie alla ripresa economica del Paese che però non sarebbe affatto sicura. La previsione di Moody’s, quindi, non può essere altro che negativa ed è quella per cui dunque difficilmente l’Italia potrà centrare «l’obiettivo di portare il deficit di bilancio entro il limite del 3% del Pil nel 2013». Risponderà ancora una volta il ministro Saccomanni, e che cosa risponderà?

Sembra perfettamente inutile che persino un premio nobel per l’economia ed uomo espertissimo di finanza mondiale come Joseph Stiglitz si sia molto sbracciato per cercare di far capire ai signori che decidono del destino dei popoli vivendo isolati dalla realtà e resi ciechi e indifferenti dal proprio status di sicurezza e di privilegio, che «l’austerità è una condanna a morte per i più poveri» (Ridateci il sogno, in “L’Espresso” del 7 marzo 2013).

Allora, si diceva, possibile che non ci siano cattolici evangelici in grado di farsi carico non velleitariamente ma coerentemente della necessità di liberare l’Italia dalla tirannide finanziaria internazionale, dietro la quale non è affatto vero che ci siano solo altri risparmiatori i cui diritti devono pur essere garantiti in modo adeguato, essendo molto più vero che dietro e tra questi risparmiatori ipotetici o reali agiscono persone in carne ed ossa che sono emeriti  farabutti, delinquenti, criminali come narcotrafficanti e mafiosi di tutte le categorie, oppure individui che sono galantuomini d’aspetto ma che in realtà sono mascalzoni incalliti?

Che c’entrano le riforme con la mancanza di lavoro, di domanda, essendo stati ed essendo consumi e investimenti asfaltati drasticamente proprio dall’austerity di questi cervelloni dell’alta finanza, a cui in realtà interessa esclusivamente prelevare tutto il denaro che possono al maggior numero di persone possibile e che parlano di riforme solo per tentare di nascondere il totale vuoto etico ed economico dei loro strambalati e disonesti ragionamenti? In realtà, questi novelli padroni del mondo non vogliono né democrazia né uguaglianza ma vogliono solo ridisegnare profondamente il mondo a loro immagine e somiglianza ovvero alla luce di princípi iniqui, immorali e contrari ad ogni idea di umanità giusta e solidale.

Per questo è ora che ci si renda conto che l’enorme debito pubblico, che le attuali politiche di austerità non potranno certo arrestare ma solo incrementare, è la principale causa strutturale del declino italiano e sorprende dolorosamente che l’economista cattolico sopra citato oggi sostenga che i nostri guai si devono spiegare principalmente col fatto che nel corso dei decenni gran parte della spesa sociale non sia stata destinata solo alla creazione di necessarie strutture e infrastrutture ma sia stata finalizzata principalmente a garantire “consenso elettorale”, per cui «per pareggiare l’aumento del debito pubblico è stata aumentata la pressione fiscale, senza riuscire a pareggiare le perdite» (C. Tabarro, Debito pubblico. Una storia triste, in “Zenit” dell’1 ottobre 2013).

Certo, per via di astrazioni, specialmente se esse siano totalmente indeterminate e non circoscrivibili a fatti empirici rigorosamente riscontrabili ed accertabili (come nel caso specifico) al di là di dati numerici che notoriamente possono essere usati in tanti possibili modi, si può rendere conto, si può giustificare qualunque cosa. Ma, in realtà, chi per esempio è nato nel 1949 da dignitosa ma non agiata famiglia impiegatizia e monostipendiata, laureandosi poi con sacrificio in una università italiana lontana dal suo luogo d’origine e avendo poi la fortuna di esercitare per circa 40 anni il lavoro di professore liceale, e pur non potendosi lamentare di come gli siano andate le cose a livello personale, può testimoniare di aver sempre vissuto sino ad oggi in una società di sprechi ma anche di iniquità, di poche opportunità di lavoro e di grandi delitti contro il lavoro e contro i cittadini, di diffuso o eccessivo benessere per pochi anche a prescindere da meriti e capacità professionali e di benessere assai contenuto se non decisamente insufficiente per molti e soprattutto per non poche persone certamente bisognose e meritevoli di un migliore destino di vita. Anche lo Stato Sociale, che l’economista cattolico Tabarro dice essere stato sostenuto con il debito pubblico, a questo testimone del 1949 non è mai apparso particolarmente florido e capace di rispondere adeguatamente alle necessità e alle priorità oggettive del popolo italiano.

Ora, poiché questa testimonianza è veritiera, è da ritenere semplicemente ridicolo che il baratro in cui stiamo cadendo possa essere stato determinato semplicemente dalla cattiva amministrazione politica o dallo sperpero della pubblica ricchezza, che peraltro nessuno nega, e non soprattutto da cause molto più distruttive per la nostra economia. In primis, come sempre Tabarro ricorda, l’infausta divisione intervenuta nel 1981 in materia di debito pubblico tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, la quale diventando cosí autonoma dalla politica «non era più obbligata all’acquisto illimitato del debito pubblico» (ivi). Rileva quindi Tabarro che, a quel punto, «senza nessun filtro della Banca d’Italia, nei quindici anni successivi, il debito esplose indebitando il nostro futuro e quello dei nostri figli» (ivi). Egli forse non si rende conto della portata di questa affermazione: perché se il filtro della nostra Banca nazionale era cosí decisivo per la nostra economia, a quale genio della stirpe italica è stato consentito, e per quale motivo, e per favorire chi, di farlo saltare a vantaggio della Banca Centrale Europea che notoriamente non può e non potrà, né vuole e vorrà con o senza il ricchissimo banchiere Mario Draghi, neppure lontanamente, garantire gli interessi nazionali italiani come erano garantiti dalla Banca d’Italia?

Inoltre, ormai è pacifico che, almeno per il grande pubblico e più segnatamente per i ceti sociali medio-bassi, il cambio della lira in euro non ha certo rappresentato un buon affare per la nostra vita economica e sociale, anche perché viene ormai riconosciuto quasi unanimemente che il valore della moneta europea non è uguale in tutti i Paesi dell’Unione ma differisce da Paese a Paese in dipendenza della maggiore o minore forza economico-finanziaria complessiva di determinati Paesi europei rispetto ad altri.

Per contro, la rinuncia alla nostra sovranità monetaria ha forse comportato nel frattempo dei vantaggi? Quali? Proprio nessuno, per quanto riguarda almeno la maggior parte della nostra popolazione: non solo sul piano economico, ma neppure sul piano morale giuridico e civile, giacché, nonostante gli ideologi dell’Europa unita si riempiano la bocca di ideali altisonanti di progresso, di benessere e di civiltà, tali solenni proclami sono sonoramente smentiti dai fatti nudi e crudi: quale benessere e quale civiltà possono essere realmente perseguiti da un centro tecnocratico di potere che parla solo di soldi, di denaro da reperire o prelevare a tutti i costi mostrandosi totalmente indifferente al destino di milioni e milioni di uomini e donne sempre più costretti a trascurare persino le loro più essenziali e vitali necessità? Quale giustizia e quale uguaglianza possono mai garantire quelle commissioni parlamentari europee che vorrebbero persino abolire la differenza naturale tra il genere maschile e quello femminile con dei provvedimenti e delle norme giuridiche ad hoc e che sono impegnate ad irrogare pesanti multe tutte le volte che, solo per fare qualche esempio, i nostri contadini, i nostri agricoltori o i nostri pescatori violano gli assurdi paletti da esse imposte alla produzione di latte, alla raccolta e alla commercializzazione della frutta o del pescato? Non sono danni enormi per la nostra economia, per il benessere del nostro popolo e per le stesse capacità nazionali di competizione economica e commerciale internazionale? Quali valori di umanità e solidarietà tra i popoli possono essere veicolati da un apparato politico sovranazionale di potere che non si preoccupa minimamente o si preoccupa molto poco del fatto che nel mediterraneo si verifichino quasi settimanalmente immani stragi di immigrati?

Peraltro, forse pochi sanno che l’Europa ideologica e politica, che conta molti suoi adepti anche nelle élites della vita politica italiana (a cominciare da Giorgio Napolitano, Mario Monti, Enrico Letta), nel frattempo sta lavorando alacremente al progetto di costituzione di una polizia e di un esercito europei che, ove fosse attuato, garantirebbe allo Stato sovranazionale e mondialista in fieri e vagheggiato da tutti coloro che frequentano assiduamente i clubs economico-finanziari più esclusivi e riservati del mondo il massimo di potere repressivo e di controllo militare sulle complessive attività politico-legislative e sulla stessa volontà democratica di ogni singolo Stato dell’Unione.

Cosa facciamo concretamente anche noi cattolici che diciamo di non poter vivere senza Cristo e senza il suo vangelo per contrastare tutta questa barbarie? Ecco perché alla fine risultano incomprensibili le indicazioni del nostro economista cattolico Tabarro, pur cosí limpido in altri scritti, che, nell’indicare le strade da percorrere per risanare i conti pubblici e ridare speranza alle famiglie e ai giovani italiani, si accoda a tanti altri economisti di scuola bocconiana o luissiana e affini che individuano tali strade risolutive nella riforma della pubblica amministrazione, nella riforma fiscale, nella lotta ad oltranza all’evasione fiscale, nella vendita di beni patrimoniali dello Stato per abbattere il debito pubblico, nelle liberalizzazioni e in una vera riforma del mercato del lavoro, con un contenimento strutturale anche se oculato della spesa corrente, con specifiche politiche fiscali per il meridione d’Italia.

Ora, non è che nel corso dei decenni i governanti italiani, sia pure tra limiti e resistenze di varia natura, non abbiano in qualche misura operato per lo svecchiamento e la modernizzazione della macchina statale italiana intesa in tutti i suoi comparti e articolazioni: la razionalizzazione della pubblica amministrazione, il fisco e la lotta all’evasione fiscale, privatizzazioni e innovazioni nel mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica e politiche a favore del Meridione, sono sempre stati, almeno a partire dagli anni ’70, impegni programmatici ben presenti nelle diverse agende dei governi che si sono succeduti in Italia. Certo, si può eccepire che ogni volta si sia fatto sempre troppo poco o male. Ma non è che si possa pensare con assoluta certezza che le strade indicate da Tabarro e altri oggi sarebbero percorribili senza intoppi di sorta e secondo modalità operative e attuative assolutamente perfette. Anche oggi converrà procedere lungo determinate direttrici di riforma, a condizione però che non si smarrisca mai la realistica consapevolezza che gli stessi limiti incontrati dai precedenti governi potrebbero essere sperimentati, sia pure per motivi diversi e in presenza di contingenze storico-politico-economiche diverse, anche dai governi italiani del tempo presente, i quali seguono fedelmente quelli precedenti almeno su un punto: sulla direzione conservatrice di quasi tutti i loro disegni di riforma, quali che sia la loro apparente carica innovativa.

Si intende dire, in sostanza, che non esistono garanzie assolute circa il fatto che, nonostante tutti gli sforzi politici che si potrebbero compiere, queste strade potranno essere percorse in modo radicale, perché umanamente e quindi anche politicamente la perfezione non esiste, perché le possibili variabili storiche sono sempre tante; ma si intende dire principalmente che, anche se ipoteticamente tutto dovesse esser fatto in modo esemplare e tutto dovesse filare liscio, non è né vero né possibile che, come scrive ancora Tabarro, queste operazioni o manovre o riforme che dir si voglia sarebbero in grado di conferire all’Italia quella credibilità e stabilità politica che sono assolutamente necessarie per «aggredire quegli 80-90 miliardi di interessi passivi che i governi italiani, di qualunque colore politico, sono costretti a recuperare ogni anno sui mercati per finanziare il debito pubblico di oltre 2mila miliardi» (ivi).

Ecco: sostenere questo significa mistificare ancora una volta la realtà. Nell’ultimo lustro il popolo italiano, è bene insistere su questo punto, è stato sottoposto a tagli e a ristrettezze di ogni genere: tagli sulle pensioni e sull’età pensionabile, sulla sanità, sulla scuola e sulla ricerca tecnologica e scientifica, licenziamenti di massa in aziende e fabbriche di diversa entità finanziaria, aumento dei prezzi in diversi settori produttivi e commerciali e aumento vertiginoso delle tasse, impossibilità quasi totale per famiglie e imprese di ottenere prestiti e mutui dalle banche a condizioni tollerabili, disoccupazione galoppante. Bene, è forse migliorata la situazione o non sta ulteriormente peggiorando nonostante le ottimistiche e propagandistiche previsioni del governo Letta? Quella dell’Italia sembra una vera fatica di Sisifo: più grandi sono i sacrifici, più grande è la percezione collettiva di non riuscire a risalire la china del profondo fossato in cui già siamo caduti.

Francamente non si capisce come il cattolico Tabarro, che critica aspramente le politiche monetarie e fiscali dell’Unione Europea, la sua insensibilità umana e morale, possa poi giustificarne il principale postulato: che il debito sovrano, al pari di tutti i trattati su cui è stata costruita questa Europa, non sia soggetto, per nessun motivo e in alcun caso, a revisioni o a ridefinizioni di sorta. Che è come dire: gli uomini possono anche crepare, ma le oligarchie finanziarie che governano invisibilmente il mondo non potranno mai smettere di accumulare denaro. E’ invece proprio la lotta al principio mistificante di debito sovrano il principale compito della politica italiana. O se ne ridefiniscono termini e condizioni, o è molto meglio ritornare alla vecchia lira, con una manovra ben preparata per tempo su posizioni “di sinistra” e non “di destra” ovvero tale da non incidere troppo negativamente sui ceti economici e sociali più deboli, e alla nostra vecchia Banca d’Italia che ricomincerebbe finalmente a battere moneta. Non è affatto detto che questa prospettiva riservi a noi italiani maggiori sofferenze di quelle che stiamo già adesso sperimentando.

Possono i cattolici italiani ritenere l’attuale stato di cose compatibile con la loro fede o non dovranno piuttosto sbrigarsi ad abbattere il nuovo Vitello d’Oro che un numero imprecisato di persone invasate ed abitate dallo spirito del male stanno ancora una volta fraudolentemente erigendo contro il genere umano e contro Dio?

La crisi attuale tra critica e fede

L’economista ungherese Karl Polanyi contestava fortemente che la “società di mercato”, una società cioè contrassegnata dalla presenza di un’alta finanza e in cui tutto è mercato per cui non c’è nulla (natura, lavoro, denaro, cultura) che non sia oggetto di scambio e non sia ridotto a merce secondo regole molto fluttuanti e mutevoli, fosse un “prodotto naturale”. Essa, in realtà, era piuttosto da considerare come un’anomalia  intervenuta nel processo storico di sviluppo dell’umanità, dal momento che storicamente l’economia, solo in questi ultimi decenni a cavallo tra XX e XXI secolo, sarebbe venuta sempre più arbitrariamente riducendosi alla sua forma mercantile e affermandosi come realtà dotata di leggi indipendenti dal complessivo funzionamento e dalle specifiche problematiche della società umana, rispetto alla quale invece l’economia non può e non deve isolarsi potendosi giustificare la sua stessa esistenza solo in funzione della società e dei suoi bisogni oggettivi e di conseguenza solo se sia in essa integrata o radicata (embedded e non embeddedness).

Come sempre accade quando la realtà avanza per vie completamente diverse da quelle pronosticate dagli esperti, anche oggi, in presenza di una crisi economica che non accenna a regredire se non in misura del tutto irrilevante, nei confronti dell’establishment scientifico-economico mondiale cominciano ad essere mossi dubbi, critiche, riserve sulla scia dei severi rilievi espressi da alcuni nuovi economisti o economisti per cosí dire “alternativi” (tra cui Jean Paul Fitoussi, Paul Krugman,  Prem Shankar Jha o lo stesso fondatore della Nuova Sociologia Economica come Mark Granovetter), che, da sempre sensibili alla scienza economica polanyiana, concordano nel riconoscere che in epoche e società del passato la dimensione mercantile costituiva solo una componente, e spesso molto marginale, dell’attività economica, mentre oggi, a causa di processi storici del tutto irrazionali, essa è assurta ad un ruolo cosí dominante da rendere completamente subordinato a sé e alle esigenze dei mercati finanziari l’insieme delle attività sociali, benché non siano poche le forme di scambio “non economico” presenti nella società contemporanea tra cui figurano per esempio il volontariato, associazioni di beneficenza, le economie informali e specifici interventi dello Stato (Welfare State) volti a sostenere essenziali attività e realtà economiche di grande importanza sociale.

Per Polanyi, come per gli economisti che oggi a lui sembrano richiamarsi insistentemente, è assolutamente necessario ripensare l’economia e adottare paradigmi economici meno restrittivi e ben più funzionali alle cose reali della vita, a bisogni individuali e collettivi semplicemente necessari e vitali del mondo in cui viviamo: magari anche, come propone Polanyi, in direzione di un socialismo liberale in cui sia possibile rimodulare e rinnovare il rapporto tra produzione e consumo per mezzo di cooperative autonome capaci di organizzare il mercato senza intermediazioni. Altrimenti, volendosi ostinare a negare l’evidenza dei fatti e volendo perseverare nell’errore, scrive l’economista ungherese nei suoi inediti oggi raccolti nel volume “Per un nuovo Occidente” e curati da Giorgio Resta e Mariavittoria Catanzariti (Il Saggiatore, Milano 2013), «l’intero meccanismo è destinato ad incepparsi, ponendo l’umanità di fronte all’immediato pericolo della disoccupazione di massa, dell’interruzione della produzione, della perdita dei redditi e, conseguentemente, dell’anarchia sociale e del caos», che è esattamente la situazione verso cui stiamo precipitando a grande velocità.

Oggi, non molto dissimile per alcuni aspetti è la diagnosi di un filosofo marxista come Alain Badiou, il quale, pur richiamandosi non a Polanyi (che non era stato né liberista né marxista) ma al comunista Marx, osserva che, come aveva previsto quest’ultimo, ormai il capitalismo è sul punto di dispiegare integralmente tutte le sue (residue) virtualità irrazionali e catastrofiche, descrivendo il mondo attuale con estrema lucidità e precisione: «Il capitalismo affida il destino dei popoli agli appetiti finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo senso, è un regime di banditi. Come si può accettare che la legge del mondo si regga sugli spietati interessi di una cricca di eredi e di parvenus? Non possiamo forse a ragione chiamare “banditi” uomini il cui unico principio è il profitto? E che, solo per assecondare tale principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di persone? In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone dipenda dai calcoli di questi banditi è cosí palese e cosí lampante, che accettare questa “realtà”, come dicono i loro scribacchini, è qualcosa che sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante» [A. Badiou, Il capitalismo oggi (risposta a Tony Negri), in “Micromega” del 27 agosto 2013].

Polanyi, contro il mito di un mercato autoregolamentato, propendeva per un’economia regolamentata e guidata dall’alto, pur senza aderire agli esiti totalitari dell’esperienza russa. Da questo punto di vista non si può dire che Badiou sia molto distante da lui, anche se naturalmente sulla forma di Stato che dovrebbe provvedere a questa regolamentazione dall’alto le due posizioni cominciano ad essere probabilmente confliggenti. Ma è molto verosimile che anche per Polanyi, vissuto in un contesto economico pur sempre diverso dal nostro, sarebbe stato semplicemente spaventoso pensare che il “mercato” sia rappresentato da loschi figuri senza scrupoli, da avidi speculatori e cinici parassiti del mondo della proprietà e del patrimonio finanziario, e che intere popolazioni debbano attenersi senza poter battere ciglio alle loro immonde e reiterate pretese. E quali sono gli ordini diramati con ossessiva monotonia da questa cricca di criminali lasciati inspiegabilmente liberi di operare, quali sono gli ordini che milioni di persone dovranno eseguire per condannarsi alla propria rovina? Eccoli, scrive ancora Badiou:  «Privatizzate tutto. Eliminate ogni sostegno ai deboli, alle persone sole, ai malati, ai disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non alle banche. Non curate più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i salari dei poveri, ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino fino a novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto agli ideologi di servizio» (ivi). Sembra solo un brutto incubo ma purtroppo questa è già realtà.

Marx, nota Badiou, fu lungimirante in molte cose. Per esempio, egli definiva “procuratori del capitalismo” i governi reazionari europei tra il 1840 e il 1850 volti a privilegiare indecorosamente la ricchezza e a penalizzare altrettanto spudoratamente il lavoro, e questo ci consente di capire che, oggi come ieri, governanti e banditi della finanza fanno parte generalmente dello stesso mondo. Infatti, che differenza c’è anche oggi tra governi di destra (vedi Sarkozy o Merkel) e governi di sinistra (vedi Obama, Zapatero, Papandreu)? Tutti questi governi e governanti non sono forse anch’essi “procuratori del capitalismo”? Dall’800 ad oggi c’è stato tanto progresso, è vero; ma oggi non stiamo forse ritornando indietro, quasi che il presente e il futuro dell’umanità dovessero essere risucchiati dal passato e che tutti i processi storici pure reali di emancipazione umana dovessero essere miseramente vanificati?

Che cosa bisogna fare dunque per non sprofondare nella barbarie, per non perdere ogni speranza di poter ritornare a vivere? Sono ancora condivisibili le indicazioni di Badiou: «Non saranno di certo il capitalismo o la schiera dei suoi servi politici a risvegliare la Storia, se con “risvegliare” intendiamo l’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice, con lo scopo di uscire una volta per tutte dall’ordine stabilito… Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo nel carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza di un’Idea» (ivi).

Tace però il filosofo francese (almeno in questo articolo), come aveva taciuto lo stesso pur “profetico” Polanyi, sulle modalità in cui “la potenza di un’Idea”, di un’idea radicalmente nuova, dovrà venire radicandosi nell’iniziativa popolare (come dice Badiou) o in una nuova generazione di economisti orientati a ripensare altrettanto radicalmente la scienza economica non a prescindere dai bisogni vitali degli uomini ma esclusivamente a partire da essi e in funzione di un destino collettivo di vita e non di disperazione e morte (come probabilmente avrebbe desiderato Polanyi).

Noi cristiani sappiamo tuttavia che quelle “modalità” non potranno essere né violente, né semplicemente calate dall’alto dall’ennesima aristocrazia di dotti e saggi. Noi cristiani sappiamo che quelle “modalità” potranno e dovranno essere il frutto di un modo nuovo (non solo e non tanto di un nuovo modo ma di un modo nuovo ovvero inedito), e svincolato da meschini interessi particolaristici, di coinvolgere le masse popolari in un processo di partecipazione etico-politica favorito o sollecitato da un’opera totalmente limpida e onesta di evangelizzazione della vita politica e delle dinamiche economiche e finanziarie, in modo che “pane e dignità per tutti, a tutti i livelli” possa diventare finalmente lo slogan di una stagione storica in cui governare un popolo torni a significare governare realmente per il popolo, in funzione dei suoi reali interessi e nel nome di una condivisione sociale di risorse materiali e spirituali quanto più estesa e profonda possibile. Il che significa che, per noi, la potenza di quell’Idea che dovrà radicarsi nell’iniziativa popolare di domani non potrà non corrispondere alla potenza dell’idea cristiana di un bene comune perseguibile soltanto attraverso un’opera di servizio e non di comando o di dominio finalizzata a contrastare i “poteri forti” di qualsivoglia natura e a creare le condizioni per una società più libera, più eguale e più giusta nel segno della croce redentiva di Cristo.

Come ha giustamente osservato il teologo cattolico della liberazione Frei Betto, sono moltissimi i giovani che oggi non vogliono né dittatura, né disoccupazione, né limitazione dei diritti sociali, né aumento del costo della vita, né inquinamento e alterazione dell’ecosistema e dei processi naturali. Solo che non sanno a chi rivolgersi, non sanno che fare, dal momento che, per la corruzione dilagante nei partiti politici e per il potere di cooptazione che in esso esercita il capitale, sino al punto che la stessa sinistra risulta ormai invisibile in Europa, essi non trovano nei partiti canali capaci di rappresentare onestamente i veri interessi popolari e di creare alternative credibili al potere forte dei gruppi finanziari internazionali (F. Betto, Protesto! Ma che cosa propongo?, in “Koinonia” agosto 2013).

L’analisi di Betto è estremamente chiara almeno dal punto di vista descrittivo-diagnostico: «Come già aveva previsto Robert Michels nel 1911, i partiti progressisti facilmente si lasciano addomesticare dalle cortesie borghesi quando arrivano al governo. Cambiano il progetto dei paesi con il progetto del potere; si allontanano dai movimenti sociali e si avvicinano a quelli dei loro antichi avversari; tralasciano di mettere in discussione il capitalismo per proporre  soluzioni cosmetiche di miglioramento della vita dei  più poveri…..Il capitalismo in crisi cerca in tutti i modi possibili di moltiplicare le sette vite del gatto neoliberale. Disattende le raccomandazioni dell’ONU riguardo alla crisi finanziaria (come quella di chiudere i paradisi fiscali) e rifiuta di regolamentare il capitalismo speculativo. Nel suo sforzo di perpetuarsi, il sistema dell’idolatria del capitale propone rattoppi nuovi con toppe vecchie: propone un capitalismo verde;  combatte la povertà con programmi sociali compensativi (e non emancipativi); baratta le libertà individuali con la sicurezza; disprezza i movimenti sociali, criminalizza il malcontento popolare…Il sistema si rivela più distruttivo che creativo. Perfino i partiti progressisti, prima considerati di sinistra, non hanno più proposte alternative e quando arrivano al potere si limitano ad essere meri gestori della crisi economica» (ivi). Betto pensa per esempio al Brasile di Dilma Rousseff, incapace di attuare le riforme promesse al popolo prima di arrivare al potere, ma come negare che la sua critica calzi a pennello agli stessi uomini politici della sinistra europea ed italiana?

E conclude amaramente il teologo brasiliano: «Non basta denunciare i difetti e gli abusi del sistema, come è solita fare la Chiesa Cattolica. È necessario indicare le cause e le alternative. Altrimenti l’insoddisfazione dei giovani si trasforma in rivolta, e questa a sua volta in nido che accoglie l’uovo del serpente: il nazifascismo» (ivi). Certo, non basta denunciare i difetti e gli abusi del sistema, anche perché senza quei difetti e quegli abusi in realtà il sistema, che è sempre stato costruito storicamente sulla base dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non potrebbe sopravvivere. Solo una nuova generazione di cristiani assistiti dallo Spirito Santo, ormai, potrà indicare “cause e alternative”, anzi una sola alternativa: quella di un mondo sociale costruito su pratiche coerenti ed efficaci di condivisione e socializzazione, in cui la proprietà privata di qualunque bene materiale non abbia più un valore assoluto ma un valore relativo e funzionale ad una liberazione finalmente e non retoricamente integrale di uomini e donne.

Per una critica evangelica della ricchezza

img9Questo scritto non avrebbe visto mai la luce se non avesse potuto avvalersi dei preziosi apporti esegetico-teologici di don Mario Cascone (in particolare quelli contenuti in un suo scritto del 1974 letto ad Assisi ed intitolato L’uso del denaro e della ricchezza nella vita del cristiano).

Oggi anche tra i cristiani abbondano persone molto facoltose economicamente che, pur non esitando a definire semplici mezzi ma non certo fini della vita il denaro e la stessa ricchezza, in realtà conducono la loro esistenza all’insegna di una continua accumulazione di beni materiali che, se anche talvolta in piccola parte destinati ad opere di carità o di beneficenza, tendono ad incrementarsi senza sosta e in modo illimitato. Questi ricchi cristiani, in un periodo di crisi strutturale come quello che stiamo vivendo, mostrano generalmente di preoccuparsi per la società di cui fanno parte, per i lavoratori sempre più frequentemente espulsi dai processi lavorativi, per i moltissimi giovani cui è impossibile accedervi, per i livelli decrescenti di benessere del popolo nel suo insieme, e auspicano un rigore finanziario, uno sviluppo economico e una rinnovata crescita sociale senza cui ritengono praticamente inimmaginabile una adeguata soluzione della crisi stessa; ma tra essi è davvero difficile trovare chi si preoccupi di andare almeno parzialmente incontro alle necessità materiali e immateriali di tanta gente ormai sul lastrico o priva di mezzi di sussistenza, spesso anche indebitata o afflitta da gravi ed urgenti problematiche familiari, mettendo in qualche misura a repentaglio i propri consueti e pur ingenti profitti e manifestando concretamente il proprio spirito di carità o solidarietà nei confronti di tante persone bisognose e spesso disperate.

Come dire: quando c’è una crisi di questa portata, sembra che anche i ricchi non possano che piangere e meditare sui modi in cui sia possibile proteggere il patrimonio sin lí accumulato. Ma, in realtà, la loro ricchezza, accumulata in tempi economici ordinari senza soluzione di continuità e senza alcuna preoccupazione per i salari bassi o molto contenuti che nel frattempo venivano concessi ad operai o a dipendenti pubblici e privati, è, evangelicamente parlando, una ricchezza disonesta: non nel senso che ci sia anche una ricchezza onesta perché Gesù non definisce mai onesta la ricchezza, ma nel senso che la ricchezza in se stessa, la ricchezza cioè che non viene condivisa comunitariamente e socialmente, non viene messa a disposizione dei non abbienti e dei più poveri, è sempre e comunque “disonesta” anche se è facile illudersi di potersi mettere la coscienza a posto con qualche lauta donazione o con qualche lascito cospicuo.

Gesù, certamente, non condanna ma benedice la ricchezza se di questo suo importante dono si fa l’uso e lo scopo cui è destinata ovvero la partecipazione di tutti ai beni materiali e spirituali che essa consente di produrre e di ottenere, mentre è del tutto evidente la sua avversione spirituale a tutte quelle forme di ricchezza personali o pubbliche che in realtà non siano fatte fruttare nell’interesse di tutti e in funzione della dignità personale di ognuno. E’ un concetto evangelicamente chiarissimo anche se ancora non molto familiare nell’ambito della mentalità cattolica e talvolta persino delle più alte sfere ecclesiastiche della Chiesa di Cristo. Duole doverlo dire, ma questa è la pura e semplice realtà.

Le crisi strutturali prima o poi esplodono nella storia non perché non ci siano più risorse da utilizzare ma semplicemente perché le risorse, più o meno ingenti e più o meno disponibili obiettivamente nelle singole società nazionali e oggi nella società globalizzata internazionale, vengono amministrate e distribuite in maniera sempre più arbitraria e iniqua sino a dar luogo a vere e proprie forme statuali di prevaricazione fiscale e tributaria e di usura legalizzata a loro volta indotte da potentissimi e spregiudicati gruppi finanziari internazionali, nei quali si può trovare di tutto e persino individui affiliati a cosche criminali di varia natura, che vengono lasciati indisturbati nel dettare legge sui mercati, sulle banche, sugli Stati e sui popoli. E la verità è che sono sempre di più quelli che sarebbero contenti di poter disporre almeno “del pane quotidiano” necessario, mentre sono sempre di meno quelli che, cristiani o non cristiani, vivono in condizioni di agiatezza ostentata o in ogni caso opulenta oppure addirittura di lusso sfrenato.

E se, da una parte, la Chiesa ripete con una certa frequenza che il cristianesimo è vita di comunione e non di competizione, di solidarietà e non di egoistico arrivismo, dall’altra la realtà continua ad essere segnata da un macroscopico sbilanciamento della gestione delle ricchezze sia a livello planetario sia a livello territoriale e locale, ed è proprio da questo sbilanciamento sempre suscettibile di aggravarsi ulteriormente che derivano in definitiva tutti gli effetti che abbiamo sotto gli occhi: dalla disoccupazione galoppante alle “nuove povertà”, alle immigrazioni di massa e alle nuove forme di schiavitù di cui il fenomeno sempre più esteso e visibile della prostituzione è certo un segno eclatante, a conflitti di vario genere che potrebbero prima o poi compromettere la sopravvivenza stessa dell’umanità.

Il sistema dell’economia mondiale è manifestamente iniquo e oppressivo e, anche secondo la migliore dottrina politica della Chiesa, i popoli sono o dovrebbero essere ormai legittimati a reagire contro questa forma di manifesta tirannide, se non con la violenza, quanto meno con tutti i mezzi pacifici di resistenza che sono a loro disposizione. Ma ad esser chiamati innanzitutto a vivere in modi più misurati o sobri e ad esercitare responsabilmente e democraticamente il proprio potere di scelta economica, anche al di là delle opzioni economiche spesso inadeguate o risibili dei diversi gruppi politici esistenti, sono i cristiani e i cattolici in quanto singoli e in quanto comunità, anche se si può presumere che ben pochi di essi si pongano almeno la seguente fondamentale domanda: cosa significa per me vivere da cristiano in questa società dell’opulenza e del benessere che sta precipitando rapidamente verso una povertà di massa e verso un malessere generalizzato? Come devo comportarmi concretamente, in base a quel che possiedo e tenendo conto delle mie reali e vitali necessità, per non allontanarmi dal principio evangelico di comunione e condivisione?

Già nell’Antico Testamento, in cui Dio è presentato come unico e vero padrone della terra e di quanto essa contiene (“Del Signore è la terra e quanto contiene”, recita emblematicamente il salmo 24, 1), il desiderio di possedere e di arricchirsi in modo stabile e illimitato è considerato come un disconoscimento della sovranità di Dio che mette a disposizione di tutte le sue creature i beni della terra. Il desiderio smodato di arricchimento è sancito anche nel settimo e soprattutto nel decimo e ultimo comandamento: “non rubare” e “non desiderare la roba d’altri”, il cui significato in verità viene spesso equivocato o univocamente interpretato nello stesso ambito della dottrina o della teologia cattolica. Infatti, questi due comandamenti non implicano soltanto il divieto corrente e più accreditato di non togliere e anzi di non desiderare di togliere al ricco o a chi sia proprietario di determinati beni la proprietà o parte di essa ma anche e innanzitutto il divieto universale di non volersi arricchire a spese degli altri e soprattutto dei più poveri (orfani, vedove, stranieri, per esempio, secondo quanto si desume da Dt 24, 17 ed Es 22, 20-22), sottraendo loro, non importa se in modo violento o avvalendosi di leggi arbitrarie e ingiuste, quella ricchezza e quelle risorse naturali di cui anch’essi sono destinatari per volontà di Dio.

La Chiesa cattolica, nel corso della sua storia, ha insistito molto più sul primo che non sul secondo di questi due divieti biblici, ma sarebbe il caso che ormai essa ristabilisse pienamente la verità esegetica e chiarisse in modo inequivoco e definitivo che i comandamenti citati vengono implicando in realtà ambedue i divieti, dal momento che, indipendentemente dal fatto che storicamente il popolo ebraico abbia faticato non poco a rispettare in particolare questi due comandamenti, nella religiosità ebraica la difesa e l’accoglienza dei poveri non erano viste in termini di semplice azione sociale ma come riproduzione del modo di agire di Dio stesso nei confronti del suo popolo. Non esistono biblicamente questioni economiche e finanziarie, questioni di bilancio e via dicendo che possano impedire a tutto il popolo e alla struttura statuale in cui è organizzato di provvedere prioritariamente alle necessità dei più poveri, dei più deboli, dei senza potere, dei semplici, di tutti coloro che sono oppressi dal potere dei ricchi e che costituiscono in sostanza “il popolo del Signore”.

Dal punto di vista biblico, l’economia non può essere risanata a spese dei non abbienti perché il soddisfacimento dei bisogni di quest’ultimi è principio fondante e imprescindibile della stessa prassi economica. Si pensi alla vibrante denuncia sociale del profeta Amos che condanna senza mezzi termini il latifondismo creato dal tremendo peso fiscale esercitato su piccoli contadini e commercianti (2, 6-7) e il comportamento gaudente e immorale delle matrone di Samaria, chiamate “vacche di Basan” (4, 1) perché dedite ad una vita di piaceri e di lusso resa possibile dallo sfruttamento e dall’oppressione cui erano sottoposti i più diseredati: Amos mostra bene il nesso intercorrente tra questi peccati di ingiustizia sociale e il culto idolatrico a divinità straniere ovvero ad idoli. Ogni epoca ha i suoi idoli: se al posto delle divinità straniere si mettono i dollari e gli euri è praticamente inevitabile che si perdano di vista i poveri e il senso della giustizia non solo sociale ma della giustizia tout court.

Si pensi anche al colto e raffinato profeta Isaia, che inveisce contro i grandi proprietari di case e di campi perché non esitano ad intensificare i loro profitti ricorrendo ai mezzi più loschi e perversi a spese dei poveri e ad usare la disonesta ricchezza accumulata per corrompere i giudici e condurre una vita dissoluta (Is 5, 8-24). Costoro, peraltro, osservano tanto devotamente quanto ipocritamente le pratiche rituali del culto inducendo il profeta ad usare parole terribili: “Voi alzate le mani che sono sporche di sangue…” (1, 13-17).

Nella cultura religiosa biblica non c’è dunque economia possibile senza sapienza religiosa e il denaro non ha quella ossessiva centralità che oggi occupa nell’economia contemporanea. Quanto alla collocazione sociale di Gesù, egli faceva parte di quel ceto medio in cui rientravano piccoli commercianti e artigiani, per cui non era né ricco come i latifondisti, i grandi commercianti, gli alti funzionari laici e religiosi, né povero come gli schiavi, i braccianti e i salariati. Gesù tuttavia volle vivere deliberamente da povero e il suo giudizio sui beni economici viene dunque da un uomo libero dal bisogno economico: in lui convergono il pensiero profetico e il pensiero sapienziale dell’Antico Testamento. Per lui i beni materiali, per quanto obiettivamente effimeri e inidonei a mettere gli uomini in una condizione di assoluta e definitiva sicurezza esistenziale, possono assumere indubbiamente un posto centrale o predominante nelle loro preoccupazioni condizionandone la condotta di vita e la sensibilità spirituale. Se un uomo vive fondamentalmente in funzione del denaro e della ricchezza, è evidente che la sua umanità e la sua spiritualità risulteranno gravemente alterate rispetto a quell’aspettativa divina di pienezza spirituale o di piena esplicazione di sé cui ogni essere umano è chiamato e destinato ab aeterno.

Ecco allora le celebri e serissime minacce rivolte da Gesù a ricchi e benestanti (Lc 6, 24-26), cui faranno seguito, con pari intensità, le invettive di Giacomo contro i ricchi latifondisti (Gc 5, 1-6) e i giudizi sferzanti dell’apostolo Paolo sul valore effimero ed illusorio dei beni di questo mondo (1Cor 7, 30). Non è che Gesù condanni la ricchezza in se stessa, perché essa è dono di Dio da partecipare a tutti e da condividere con tutti, né egli esalta la povertà che non può certo essere considerata in sé un bene, ma condanna la ricchezza come idolatria se essa non è più usata come mezzo di sostentamento e di benessere personali e comunitari ad un tempo bensí come mezzo di puro e semplice arricchimento personale a qualunque costo  e quindi come fine a se stessa cui risulti subordinato ogni altro valore umano.

Qui non si tratta solo di rinunciare ai beni, perché anche gli stoici hanno questa esigenza, ma di rinunciare ai beni per amore, per utilizzarli in funzione non solo del benessere personale ma di un benessere più grande e più generale quale è il benessere di tutti e in particolare dei più svantaggiati. Qui non è la ricchezza in quanto tale, in quanto abbondante disponibilità di mezzi e di risorse, ad essere presa di mira, ma il modo di concepire e di usare la ricchezza stessa, ovvero la ricchezza come puro e continuo accumulo di denaro e come attività economica e finanziaria completamente indifferente al bene sociale, al bene pubblico o comune a cominciare dal bene dei soggetti e delle categorie più deboli.

Questo è un punto delicato del vangelo che bisogna impegnarsi a comprendere bene se si vuole evitare di svuotare di senso e di valore l’insegnamento di Gesù, che non si limita a dire: “non ha importanza che voi siate ricchi ma ha importanza che voi non vi rendiate schiavi della ricchezza”, perché con una formuletta cosí generica sarebbe sempre molto facile tacitare la propria coscienza di ricco sfondato e tuttavia capace di compiere tante opere caritatevoli senza perdere un centesimo del proprio capitale ma anzi continuando ad accrescerlo a dismisura. No, Gesù chiede a tutti indistintamente di essere realmente generosi e caritatevoli non privandosi del superfluo ma, ove la situazione lo richieda, persino di una parte del necessario, il che significa che da persone ricche come Zaccheo si aspetta ancora di più, vale a dire la capacità di privarsi in modo sostanzioso o rilevante dei propri beni per consentire a chi ha molto di meno di condurre una vita quanto meno dignitosa.

L’elogio evangelico della povertà non ha motivazioni estetiche o vagamente etiche, ma motivazioni spirituali e religiose strettamente connesse alla necessità pratica, e quindi economica sociale e politica, che nessuno sia lasciato troppo indietro rispetto ad altri. Tale elogio, specialmente in epoche di scarsità economica come quella attuale, è funzionale non già ad ideali pauperistici e antieconomici ma ad un progetto altamente economico e produttivo di consapevole e responsabile partecipazione umana e sociale quanto più possibile corale alla gestione e alla produzione dei beni materiali del mondo. L’umanità sarebbe certamente più ricca e più evoluta nel suo insieme se non solo alcuni ma tutti potessero essere messi nella condizione di cooperare, in modi naturalmente diversi, al potenziamento e allo sviluppo dei suoi beni, mentre un’umanità il cui sviluppo sia affidato a ristretti gruppi di potere, che dispongano a proprio piacimento di tutto e di tutti, può dirigersi solo verso la sua autodistruzione.

La Chiesa apostolica delle origini aveva capito perfettamente il senso delle parole di Gesù, perché, come recitano gli Atti degli apostoli, “Chi aveva proprietà e sostanze, le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 45); “Nessuno infatti tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno” (At 4, 34-35). Non mancarono certo i problemi, anche nella Chiesa apostolica, come dimostra l’episodio di Anania e Saffira (At 5, 1-11). Ma in generale ci fu la presa di coscienza che i beni terreni vanno dati e condivisi. Si chiede infatti S. Giovanni: “Se uno ha ricchezze in questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimorerà in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 16-17).

Le esperienze di comunione dei beni della prima Chiesa di Gerusalemme, ha scritto giustamente don Mario Cascone, «dimostrano chiaramente la contrarietà ad una concezione di proprietà privata, come è stata elaborata successivamente da alcune teorie economiche. Sono anche lontane da certe indicazioni della teologia morale classica, che insegnavano a dare ai poveri solo il superfluo. La Parola di Dio ci dice che l’obiettivo non è di avere i poveri per potere fare opere buone, ma di aiutarli a non essere più poveri. E per fare questo bisogna mettersi dalla parte dei poveri: come ha fatto il Signore, che si è fatto povero per noi per arricchirci mediante la sua povertà (cfr. 2 Cor 8, 9)». Riflessi precisi di tali indicazioni evangeliche ed apostoliche si colgono poi nei Padri della Chiesa. Nella Didaché si legge: “Non respingerai l’indigente e farai partecipe di ogni cosa il tuo fratello; e non dire che ci sono cose private: se avete in comune le cose immortali, quanto più logicamente non dovete avere in comune quelle mortali?”. Tertulliano scrive: “Da noi tutto è comune, tranne le mogli. Sono i pagani che, gelosi custodi della proprietà, iniziano la comunanza là dove i cristiani la terminano”. E Giovanni Crisostomo afferma: “Il tuo e il mio, questa fredda parola: qui scoppia il contrasto, qui sorgono le inimicizie. Dove invece codesta distinzione non esiste, non si vedono sorgere né conflitti né rivolte. Di modo che la comunanza è nostro retaggio, più che la proprietà”.

Piaccia o non piaccia, la fede cristiana originaria comportava una concezione e una pratica sociali fondate sulla comunione dei beni materiali e spirituali in modo tale che nessuno mai fosse troppo agiato e nessuno troppo povero. Ognuno era chiamato a dare liberamente secondo le sue capacità anche contributive e ad ognuno si cercava di dare secondo le sue reali necessità. A chi osserva che questa sarebbe nient’altro che una visione comunista della società e della storia, si deve replicare che non fu il cristianesimo a prendere l’idea di comunione o di messa in comune di tutte le risorse disponibili dal comunismo ateo di Marx ma fu semmai quest’ultimo ad ereditare tale idea dalla tradizione biblico-ebraica e dallo stesso cristianesimo.

Per questa ragione, quindi, non il cristianesimo comunitario avrebbe ereditato un certo marxismo ma piuttosto quest’ultimo avrebbe ereditato il primo pur attraverso una radicale opera di laicizzazione ateistica che l’avrebbe privato della sua ispirazione religiosa. Tuttavia, non c’è dubbio che tra cristianesimo e marxismo comunista resta una non superabile incompatibilità, non solo in ordine alla fede in un regno extrastorico che cristianamente verrà pienamente rivelandosi  o compiendosi alla fine dei tempi ma anche là dove il primo postula una comunione dei beni da affidare esclusivamente alla libera scelta di coloro che costituiscono la comunità mentre il secondo prevede una società di eguali sotto l’egida di un violento potere coercitivo.

La logica evangelica e patristica è dunque una logica di comunione e condivisione, non di privatizzazione e competizione. Uno può certo usare i beni di questo mondo, a condizione che non li consideri come di sua assoluta proprietà ma come suoi solo in senso relativo e convenzionale, a condizione cioè che sappia bene che ciò che possiede deve essere messo anche a disposizione degli altri in caso di bisogno e che dunque la o le sue proprietà non potranno mai avere un valore assoluto ma pur sempre relativo. Come diceva bene san Tommaso d’Aquino: quello che possediamo lo abbiamo certo per usufruirne noi stessi ma anche e in certi casi soprattutto per darlo e condividerlo e per darlo anche largamente, cioè generosamente o, per usare le stesse parole di Tommaso, “con facilità”.

Pertanto, non è che evangelicamente non ci sia un diritto alla proprietà privata, ma quel che è inaccettabile evangelicamente e tomisticamente è che questo diritto possa essere esercitato in chiave egoistica nella completa dimenticanza dell’intrinseca funzione sociale della stessa proprietà; ne deriva, sempre secondo Tommaso d’Aquino, che il diritto di proprietà privata, più che essere un diritto naturale primario, è piuttosto un diritto secondario e strettamente connesso al dovere primario di porsi al servizio del bene comune. Che nella stessa vita della Chiesa ci si sia talvolta allontanati non poco dallo spirito evangelico, è vero, ma ciò non toglie che esso, su ricchezza e povertà, su proprietà personale e comunione dei beni, su libertà individuale e condivisione comunitaria, non possa essere né frainteso né equivocato in alcun modo, ove si abbia la disponibilità ad ascoltare e ad intendere la Parola di Dio senza preconcetti di sorta o interessi precostituiti.

Ad entrare però in decisa rotta di collisione con queste elaborazioni teologiche del cristianesimo sarebbe stato il pensiero laico e liberale moderno, a partire da Locke secondo il quale la proprietà privata sarebbe un diritto naturale non secondario ma assoluto perché legato all’essere stesso dell’individuo che decide di vivere in società con altri individui solo per motivi utilitaristici e quindi per pura e semplice convenienza. Questa formulazione teorica prepara il terreno al capitalismo più spietato (ed è il caso di ricordare che non esiste un “capitalismo buono” e un “capitalismo cattivo” oppure un “capitalismo mite” e un “capitalismo selvaggio”, dal momento che le diverse tonalità del capitalismo moderno e contemporaneo sono funzionali esclusivamente all’immutabile logica capitalistica dello sfruttamento e del profitto a tutti i costi) nel quale determinate preoccupazioni morali pure presenti tendono a cedere ineluttabilmente il passo, fin quasi a scomparire del tutto, ad istanze prettamente economicistiche e finanziarie non già di estesi gruppi sociali ma di oligarchie di potere sempre più ristrette.

Dove però è utile precisare che, contrariamente a un luogo comune cui lo stesso don Mario Cascone sembra a torto indulgere, quella formulazione teorica di origine lockeana non può essere attribuita più o meno strumentalmente anche al padre della scienza economica moderna, ovvero ad Adam Smith, che, in quanto professore e studioso di filosofia morale, ebbe ben chiaro lo stretto legame intercorrente tra economia ed etica e il concetto per cui non tutto si esaurisce con il mercato e che molti beni, come per esempio la cultura, la giustizia, la scuola, l’assistenza sociale ai soggetti più deboli, non possono essere assoggettati alle leggi del mercato, cosí come d’altra parte fu consapevole del fatto che la ricchezza o il capitale è certamente di fondamentale importanza per avviare un sistema di produzione industriale ma che questo non potesse in nessun caso implicare una sottovalutazione o una penalizzazione del lavoro, essendovi o dovendovi essere anzi tra capitale e lavoro non già un rapporto conflittuale ma un rapporto di reciproca funzionalità e convenienza. D’onde prive di fondamento sono ancora oggi tutte quelle interpretazioni che, in un’epoca in cui il capitale finanziario pretende di esistere e di incrementarsi senza o contro il lavoro, tendono a presentare Adam Smith come il «padre del liberismo economico fondato sul cheering nichilism (radicale individualismo privo di senso, scopo e valore etico)» (C. Tabarro,   Contratti “zero hours”: distruzione della dignità umana nel lavoro, in “Zenit” dell’8 agosto 2013).

Ma, riprendendo la pur sommaria disamina storica, contro la “sacralità” liberale della proprietà privata si sarebbero schierati, sia pure con finalità profondamente diverse o opposte, l’ateo marxismo ottocentesco e postottocentesco e la Chiesa cattolica di fine ottocento e della prima metà del novecento. E’ significativo che, sia pure sotto l’influsso della travolgente avanzata del socialismo e del movimento operaio, papa Leone XIII nella sua enciclica “Rerum Novarum”, pur in un’ottica antitetica a quella marxiana, prenda a difendere vigorosamente gli interessi della classe operaia contro i soprusi del sistema capitalistico; che successivamente Pio XI con la “Quadragesimo anno”, pur difendendo il diritto di proprietà privata, introduca e accentui chiaramente nella dottrina sociale della Chiesa princípi di sussidiarietà e solidarietà finalizzati al perseguimento del bene comune; che infine con il Concilio Vaticano II venga sottolineata energicamente la funzione sociale della proprietà privata.

A chiusura dello stesso Concilio venne votata e promulgata il 7 dicembre 1965, dopo essere stata oggetto di intenso dibattito e occasione di serrato e libero confronto soprattutto nella terza sessione conciliare (28 ottobre-10 novembre 1964), la Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, di cui qui si riporta un brano particolarmente significativo:  «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che tutti gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo».

In questo modo il cerchio si chiudeva, nel senso che veniva pienamente ripristinato con queste parole, dopo alcuni secoli di parziale “dimenticanza” o “omissione”, il senso più originario e genuino della dottrina evangelica sull’uso dei beni economici anche se non ancora la stessa prassi della Chiesa delle origini. In effetti, non può non rilevarsi che le indicazioni del Vangelo, dei Padri della Chiesa e del Magistero pontificio ed ecclesiale, sarebbero risultate non funzionali ma antitetiche all’economia del mondo contemporaneo, la quale sottopone a dura prova sia l’esistenza personale del cristiano sia la sopravvivenza di buona parte dell’umanità. E’ infatti in esso sempre più difficile distinguere tra “guadagno”, “profitto” e “usura”, come anche tra “giusto interesse” e “giusto prezzo”: il cosiddetto libero mercato è sempre più impersonale, anonimo, arbitrario, irrazionale e anarchico, e i confini tra ciò che è lecito e ciò che è illecito sono diventati cosí sottili da risultare del tutto evanescenti.

Nell’impostazione dell’economia globalizzata è cambiato il significato del possesso del denaro rispetto al passato, in quanto ormai si studiano scientificamente i modi in cui la vita economica, alimentata dal desiderio di voler possedere sempre di più da parte di chi già molto possiede, possa creare un profitto sempre maggiore e libero da preoccupazioni morali di qualunque tipo. Oggi la domanda del sistema economico mondiale non è: di che cosa ha bisogno veramente e vitalmente il mercato fra sei mesi o un anno, ma: che cosa si deve fare perché il mercato chieda quello che per gli imprenditori conviene produrre e, ancora più radicalmente, che cosa si deve fare, nel caso in cui il mercato sia comunque poco dinamico e si instauri una crisi economica non già congiunturale ma strutturale come quella odierna, per soddisfare le permanenti esigenze di profitto dei vari livelli gerarchici del sistema economico-finanziario internazionale.

In tal modo la tendenza più caratteristica dell’economia mondiale sarà quella per cui la ricchezza verrà concentrandosi nelle mani di oligarchie finanziarie sempre più ristrette che, a loro volta, verranno concentrandosi in cartelli e holdings ancora più potenti e tendenti al monopolio dei prezzi. La conseguenza sarà la creazione di enormi masse di poveri, con tutte le implicazioni sociali e politiche che tutti oggi possono vedere. Don Mario Cascone, già nel lontano 1974, notava come i mali dell’economia contemporanea fossero ben sintetizzati sulla tomba di Gandhi su cui appaiono scritti i sette peccati sociali individuati da quest’ultimo: politica senza princípi, ricchezza senza lavoro, piacere senza coscienza, sapienza senza carattere, commercio senza moralità, scienza senza umanità, culto senza sacrificio. Se già nel 1974 questi erano i terribili mali dell’economia e della società occidentali, non c’è dubbio che essi oggi lo siano ancora di più.

Nei monasteri benedettini non esiste, per volontà esplicita del suo fondatore, alcuna forma di proprietà essendo ogni cosa comune a tutti e da tutti condivisa. Certo, non è possibile trasformare il mondo, e specialmente il complesso mondo globalizzato di oggi, in un immenso monastero benedettino, però oggi la proprietà privata sta assumendo forme veramente mostruose e direttamente o indirettamente sempre più nocive al pubblico interesse e al bene comune. I cristiani non possono mettersi la testa sotto la sabbia confidando semplicemente in un intervento speciale e risolutore dal Cielo, perché infinita è senza dubbio la misericordia celeste a condizione però che essa trovi una giusta cooperazione tra gli uomini e soprattutto la disponibilità a sacrificarsi realmente per gli altri da parte di coloro che fanno professione di fede in Cristo. I cristiani, oggi come ieri, non possono non ricordare che c’è una povertà subìta, il più delle volte creata dalle umane iniquità e che come tale va combattuta perché è fonte e condizione di infelicità universale, e che poi c’è anche una povertà scelta liberamente che rende beati, secondo la promessa di Cristo, e che costituisce il modo migliore di contrastare la prima forma di povertà. Essi devono dunque farsi il più possibile poveri, in tutti i sensi, per poter lottare contro le molteplici forme di povertà esistenti nel mondo.

E’ stato recentemente osservato che sulla scena politica contemporanea mancano uomini politici e uomini di Stato capaci di dare un impulso significativo di cambiamento alle dinamiche dell’economia nazionale ed internazionale attraverso politiche governative e/o intergovernative puntate a riorientare gli stessi processi economici e finanziari in funzione del benessere di tutti o almeno di molti piuttosto che ad assecondarne l’odierna funzionalità al benessere moralmente illegittimo ed economicamente e socialmente distruttivo di pochi individui o di pochi gruppi (C. Tabarro,Veramente l’Europa è fuori dal tunnel della recessione?, in “Zenit” del 19 agosto 2013). Non solo singole personalità, si direbbe, ma nuove forze politiche organizzate in grado di dare veramente uno scossone ad una situazione paludosa da cui si rischia di non uscire più vivi: questo, almeno nel panorama politico nazionale italiano, è ciò che soprattutto sembra mancare.

Una politica europea e una politica nazionale responsabili che cosa ormai dovrebbero mettere all’ordine del giorno se non la disoccupazione ipergaloppante, l’aumento visibile delle diseguaglianze economiche e sociali, il risanamento delle banche alla luce di criteri compatibili con le sacrosante esigenze dei risparmiatori, delle imprese e delle famiglie, la ritrattazione di trattati economici internazionali rivelatisi completamente sbagliati? Ma, in realtà, il messaggio politico che istituzione europee e governi nazionali continuano a veicolare e a propagandare è che, senza politiche di rigore, senza riforme di struttura (il cui cinico significato è ben noto ai non sprovveduti), senza il rispetto dei vari patti di stabilità, senza un qualche rilevante programma di sviluppo, il destino dei paesi più deboli dell’area euro sarà identico a quello che ha già travolto la Grecia e Cipro! Stando cosí le cose non c’è dubbio che la parola “solidarietà”, pur talvolta proferita dalle autorità politiche europee e dai governanti di singole nazioni, venga da tutti percepita come parola totalmente vuota di senso e di valore.

I cristiani, se vogliono esserlo non solo di nome ma soprattutto di fatto, non hanno alternative: devono scendere anche nell’arena politica per cominciare a restituire al denaro la sua giusta dimensione, sforzandosi di ridurne il ruolo arbitrariamente acquisito di pericoloso e tirannico padrone e di potenziarne invece quello (che dovrebbe correttamente esercitare) di utile e buon servitore. Essi sanno infatti che Mammona o la ricchezza non è iniqua solo se diventa “cibo dei poveri” e che in tutti gli altri casi essa è ingiustificata e palesemente contraria alla volontà di Dio.

Il loro impegno politico non potrà non tener conto di un preciso e non eludibile insegnamento evangelico: che se persino il povero è tenuto, ove o quando sia necessario, a solidarizzare concretamente con chi abbia bisogno d’aiuto, il ricco, la cui ricchezza non è mai onesta ma sempre ingiusta per il semplice fatto che chi accumula in un modo o nell’altro non può non sottrarre agli altri, deve quanto meno cercare di “farsi degli amici con le ingiuste ricchezze” (Lc 16, 9), e quindi con il denaro, con i capitali, con il benessere di cui dispone, come dice Gesù; dove evidentemente gli amici cui si fa qui riferimento sono poveri o persone che comunque versano in uno stato di difficoltà economica. Sono proprio questi gli amici che testimonieranno un giorno a favore di quei ricchi che, volendo entrare nel regno dei cieli, avranno saputo privarsi di una parte consistente dei loro beni per soccorrere i propri fratelli indigenti ed ottenere l’eterna salvezza.

I cristiani in politica dovranno essere soggetti capaci di invertire la visione politica delle cose oggi dominante: non continuando ad avallare politiche economiche e politiche tout court  volte a spogliare o a spolpare un’intera popolazione e persino i più poveri dal punto di vista fiscale, tributario e retributivo, per far fronte a “debiti pubblici” costituitisi sulla base di contratti e parametri del tutto unilaterali, arbitrari e alla fine indiscutibilmente usurai che andrebbero contrastati e cambiati oltre che dichiarati immorali e illegali, e predisposti a crescere a dismisura quali che siano i sacrifici economico-finanziari imposti dai governi alle masse, ma mettendo le poche o molte risorse economico-finanziarie dello Stato sempre e comunque innanzitutto al servizio di esigenze insopprimibili di lavoro, di assistenza pensionistica e sanitaria, di formazione scolastica e culturale, di vita almeno accettabile e dignitosa per tutti, e assumendosi al cospetto dei poteri politico-finanziari europei e internazionali la responsabilità di porre dei paletti invalicabili a richieste di tassazione o di riscossione finanziaria di qualsivoglia natura.

I cristiani dovranno fare politica senza illudersi di trovare facili consensi o alleanze disinteressate ma forti della speranza di poter fare comunque di Cristo “il cuore del mondo” e di rendere questo nostro mondo un po’ più simile a quel regno di Dio in cui tutti in un certo senso sono signori! Già, perché Gesù è il Signore e questa sua prerogativa egli la comunica e la estende ad ognuno di noi, ad ognuno di noi che è chiamato ad essere signore. Il regno di Dio è un regno di “signori”, ma non di ricchi. La differenza non è di poco conto, perché il ricco è colui che ha, il signore è colui che dà, e di conseguenza l’unica politica economica praticabile cristianamente su questa terra è o deve essere una politica economica sostenibile e pur sempre compatibile con l’istanza etica prioritaria di salvaguardare la dignità umana, una politica non dell’avido possesso personale, non del profitto ad ogni costo, non del capitale senza o contro il lavoro, non del risanamento finanziario senza equità, non dello sviluppo senza giustizia sociale, non del progresso civile contro la dignità morale degli uomini, ma una politica del risanamento e dello sviluppo per l’appunto sostenibili, della disponibilità a farsi concretamente e coerentemente carico delle vitali necessità del prossimo più sofferente e a correggere storture o anomalie del sistema economico con provvedimenti pur sempre avveduti e ragionevoli e ispirati a criteri di equa e solidale condivisione.

Se i cristiani si mobiliteranno sul piano politico lungo queste direttrici spirituali, nella preghiera e nell’onesto lavoro quotidiano, essi potranno cambiare ancora una volta con Cristo il mondo, anche se non dovessero fare in tempo a vedere il successo, per quanto parziale, della loro opera.

Manifesto di un nuovo partito cattolico

Quando la politica non ha più profeti, ovvero persone credenti e non credenti che si occupino del bene comune non a chiacchiere o con idee solo apparentemente significative ma con irreprensibili condotte di vita e precise, rigorose e impopolari prese di posizione, suscettibili di esplicarsi coerentemente sul piano legislativo, a favore degli ultimi di sempre come i disabili, i malati, i nullatenenti, e dei “nuovi poveri” come intere masse giovanili prive di lavoro, disoccupati e cassintegrati, titolari di pensioni medio-basse, sino al punto di non sottrarsi al pubblico oltraggio pur di rimanere persone integerrime e serie, il mondo, la società e ogni forma di vita civile sono destinate ad impoverirsi ineluttabilmente sia in senso economico sia in senso morale e spirituale.

Per i cattolici in particolare, dopo la fine della Democrazia Cristiana, non si è mai data, certo per loro diretta responsabilità, un’occasione di rinascita e di unità politica all’interno di un partito che, pur rappresentando voci ed esigenze diversificate o variegate, fosse capace di coniugare al suo interno l’istanza di ben rappresentare punti fermi della loro fede quali quelli relativi ai princípi dogmatici da cui essa non può prescindere e ai cosiddetti “valori non negoziabili” con un’istanza forte di giustizia economica e sociale anch’essa a pieno titolo appartenente all’insegnamento evangelico e alla migliore storia dell’impegno cattolico nel mondo. Dopo la fine della Democrazia Cristiana, c’è stato Berlusconi e il berlusconismo, c’è stato l’illusionista delle folle e la sua capacità di manipolarle a proprio piacimento nel nome di un benessere nazionale sempre promesso ed esaltato ma mai realmente voluto e perseguito e di una concezione strumentale e demagogica della libertà volta ad affermare il primato dell’individuo sulla collettività e sugli stessi ordinamenti democratici dello Stato.

Alla fine per Berlusconi la condanna giudiziaria, troppo tardiva secondo alcuni e ingiusta secondo molti, è arrivata, mentre la sua mentalità, la sua filosofia di vita, il suo cinico e opportunistico pragmatismo, ha nel frattempo contagiato e inquinato la coscienza di molti italiani, ivi compresi quei cattolici che nella DC avevano militato solo per tornaconto personale e che nel partito dell’imprenditore lombardo hanno trovato per tanti anni un’occasione ancora più ghiotta per accaparrare vantaggi, profitti e privilegi personali.

Un lucido e coraggioso intellettuale cattolico come Aldo Maria Valli ha evidenziato come, all’indomani della condanna inflitta al “guitto Berlusconi”, non si può fare a meno di porre una domanda concernente i cattolici e le gerarchie: «come è stato possibile che per tanti, troppi anni la Chiesa istituzionale e un largo numero di sedicenti cattolici abbiano appoggiato quest’uomo? Com’è stato possibile che tanti cattolici, a tutti i livelli, abbiano votato e chiesto di votare per lui, che gli abbiano concesso credito, che lo abbiano visto come l’uomo della provvidenza? Com’è stato possibile che una parte, una larga parte del mondo cattolico non abbia provato un moto di spontanea ripulsa verso il guitto impegnato a usare la politica e gli italiani per il proprio tornaconto?» (L’esame di coscienza che non ci sarà, in www.vinonuovo.it, 3 agosto 2013).

Difficilmente a tale domanda si potrà dare una risposta perché i cattolici italiani generalmente non sono abituati a fare esami di coscienza troppo rigorosi e dolorosi e perché rispondere a questa domanda equivarrebbe a riconoscere «il vuoto culturale di un soggetto, il cattolico medio italiano, che sia sotto la Dc sia, e a maggior ragione, sotto l’ombrello berlusconiano non è mai stato abituato a pensare con la propria testa, a usare lo spirito critico, a distinguere tra senso dello Stato e opportunismo, ma si è lasciato guidare da una categoria tanto generica quanto comoda, l’anticomunismo, accontentandosi di parole d’ordine vuote» (ivi). Inoltre, osserva impietosamente Valli, «fare questo esame di coscienza equivarrebbe a togliere il velo steso sopra una classe dirigente ecclesiale in gran parte modesta e tremebonda, incline a non disturbare il manovratore e anzi a ingraziarselo, per ottenere vantaggi immediati. Fare questo esame di coscienza equivarrebbe a mostrare come la religione, separata dalla fede, diventi facilmente alibi per giustificare il non giustificabile, per chiudere gli occhi davanti all’arroganza del potere, per trasformare la stessa appartenenza di fede in strumento di potere e di sottopotere. Procedere con questo esame di coscienza equivarrebbe alla fin fine a mostrare il tradimento del Vangelo operato da tanti, sia chierici sia laici cattolici, che il berlusconismo o l’hanno sposato in pieno o l’hanno tollerato in silenzio o hanno cercato di utilizzarlo».

E infine, senza dimenticare che massicce dosi di berlusconismo sono state iniettate nel frattempo anche in quasi tutti gli oppositori politici ufficiali di Berlusconi che ne hanno enormemente favorito la durata politica proprio perché subalterni al “berlusconismo”, ecco la domanda più crudele ma anche più significativa: «Dov’erano i cattolici quando il guitto destabilizzava lo Stato con le sue battaglie ad personam? Dov’erano quando inebetiva gli italiani con i suoi circenses televisivi? Dov’erano quando separava la morale privata da quella pubblica infrangendo cosí uno dei pilastri della dottrina sociale della Chiesa? Dov’erano quando, palesemente e senza vergogna, divulgava con il proprio comportamento l’idea che con la ricchezza sia possibile guadagnarsi l’impunità?». La risposta è esplicita, veritiera e implacabile: «la verità è che la Chiesa italiana e gran parte dei cattolici, se si studia il loro rapporto con il guitto di Arcore, hanno sulla coscienza gravi peccati, sia di connivenza sia di omissione. Quando ne hanno preso le distanze lo hanno fatto timidamente e in ritardo, a scempio ormai compiuto, e comunque è difficile dimenticare certe immagini, come la folla del meeting di Rimini osannante nei confronti del guitto, accolto come un salvatore e riverito, incredibile dictu, come un vero statista» (ivi).

Fin qui una pars esclusivamente destruens del cattolico Aldo Maria Valli. Ma in questi giorni un altrettanto coraggioso e umile intellettuale cattolico, che risponde al nome di Edoardo Tincani e che l’“esame di coscienza” ha inteso farlo in profondità a cominciare da se stesso, si sta adoperando per approntare anche una pars construens, per far circolare quanto più estesamente possibile una sua proposta politica, non già di ricostituzione della “balena bianca” ma di formazione ex novo di un partito cattolico totalmente radicato nel vangelo stesso di Cristo: non un partito dei cristiani e dei cattolici (nonostante quanto sembrerebbe esprimere il sottotitolo del suo significativo volumetto “In politica con più fede. Un nuovo partito dei cristiani?”, Reggio Emilia 2012), perché sarebbe non solo presuntuoso ma anche impossibile perseguire una soluzione del genere, ma un partito di cristiani e di cattolici che si sforzi, come un “piccolo resto” della politica, di far germogliare la speranza altrimenti irrimediabilmente perduta di poter migliorare, senza retorica e senza proclami programmatici ma solo con la saggezza e l’audacia della fede in Cristo Signore della vita e della storia, l’esistenza individuale e collettiva sino a renderla sensibilmente più dignitosa di quanto oggi non sia.

Questo è il principale nucleo ispiratore della proposta di Tincani, che non indulge né a manifestazioni di orgogliosa indipendenza spirituale dalle gerarchie della Chiesa né a forme di calcolato o interessato ossequio verso le stesse gerarchie ecclesiastiche, anche perché quest’ultime, egli nota giustamente, non di rado vengono assumendo e svolgendo ruoli politici “impropri” o comunque molto più adatti a dei laici credenti che abbiano conoscenze e competenze ben più specifiche e puntuali. Il fatto è che Tincani, da cristiano colto e sensibile, non ritiene più sopportabile cristianamente assistere ad un epocale naufragio della politica e della politica democratica, sempre più incapace di dare risposte vere e non fittizie a ciò per cui nacque storicamente e in funzione di cui può giustificarsi la sua stessa ratio originaria e costitutiva: ai problemi e alle necessità della gente comune e, più specificamente, dei ceti popolari meno abbienti.

Egli è ben consapevole di come «la globalizzazione dei mercati, delle tendenze culturali, delle strategie del terrore, cosí come la scarsa attitudine della politica nel fornire alle persone risposte soddisfacenti alle incognite del lavoro, della sicurezza o della stessa tenuta del loro indebitatissimo Stato» rendano non più prorogabile un impegno politico cattolico oltremodo ravvicinato (p. 34), e  rileva poi che lo scollamento tra fede e vita, le divisioni non solo politiche esistenti tra i cattolici e nella Chiesa, il sostanziale “disimpegno” politico di cattolici non convenzionali e tuttavia isolati, sono diventati d’altra parte troppo macroscopici e abnormi perché dei credenti che siano in possesso di una coscienza cristiana ancora sufficientemente vigile, reattiva e caritatevole, possano continuare a far finta di non vedere e a starsene in disparte in attesa che qualcosa di nuovo possa succedere quasi meccanicamente.

E’ giunto il tempo di agire. C’è un tempo per formarsi (l’allusione è alle curiali “formazioni permanenti” cui si assoggettano di buon grado molti credenti laici) e c’è un tempo per agire anche e soprattutto in politica non per trarne benefici personali ma solo per sacrificarsi e mettere i propri talenti a disposizione degli altri, della comunità nazionale e persino internazionale. Sí, perché Tincani rileva che oggi la politica ritrova il suo o un suo senso solo se torna ad essere capace di riorientare il mondo e non questo o quel settore della vita nazionale, solo se si mostri in grado non di subire ma di riorientare la finanza e l’economia di cui la prima è solo parte, e in sostanza di riequilibrare i rapporti tra le diverse forme di potere (economico-finanziario, etico-giuridico, burocratico-amministrativo) sulla base di una ritrovata tendenziale centralità della politica. 

Non è più tempo di confronto tra scuole cattoliche di pensiero, di convegni e giornate di studio, di ennesimi proclami politici dei vescovi. Bisogna che chi sente realmente vivo Cristo nella sua vita, nel suo cuore, nei suoi progetti e nelle sue speranze, si dia da fare per ritrovarsi insieme a quanti avvertano la medesima necessità di agire, di offrirsi onestamente, di servire gli altri con dedizione e inequivocabile spirito di carità. Occorre oggi che ci siano dei “tralci” anche e soprattutto in politica se non si vuole che, salvo che nelle omelie e nelle predicazioni istituzionali e solitamente un po’ astratte di vescovi e preti, il mondo resti senza luce e la terra senza sale. Cristo, più che la sua stessa Chiesa ma possibilmente insieme alla sua Chiesa, deve animare i nostri pensieri e muovere i nostri passi di cattolici giustamente convinti che egli sia l’unico rivoluzionario della storia non solo perché capace di farci superare le angustie, i limiti e la fine della nostra esperienza storico-umana nel quadro della sua vita divina che continua dopo la morte e in cui le nostre vite non avranno più fine, ma anche perché egli è venuto a cambiare radicalmente il mondo non solo in senso genericamente spirituale ma anche in un concreto e specifico senso economico, sociale e politico.

Questo è precisamente l’impegno inderogabile dei cattolici: operare e militare in politica da figli di Dio, uniti saldamente a Cristo come i tralci sono strettamente uniti alla vite, incapaci di produrre cose buone da soli ma di produrne senz’altro insieme a lui  e in lui. Un partito dei “tralci”, scrive Tincani, ma un partito che forse, proprio in ossequio a questa bellissima e impegnativa immagine del tralcio evangelico, potrebbe anche denominarsi felicemente “vangelo e democrazia” o “vangelo e democrazia popolare”, dove il termine “vangelo” sarebbe tra l’altro il vero discrimine tra una concezione “laicista”, licenziosa o permissiva e demagogica o populista, e una concezione religiosa e cattolica (non nel senso di confessionale ma di “universale” e quindi di aperta a tutti e al contributo di tutti gli uomini di buona volontà) della politica e della democrazia.

Dunque: “cercansi tralci”, è l’appello di Tincani. Chi pensa di poter essere un tralcio evangelico e non inutile intralcio in politica, si faccia avanti, si presenti, si qualifichi: con l’aiuto di Cristo Tincani, primo e principale responsabile di questa necessaria ed auspicabile impresa politica, cercherà di capire, di distinguere, di fare la migliore selezione possibile, di metter su un partito leggero, agile ed efficiente dal punto di vista statutario, organizzativo e finanziario, massmediale e programmatico, di farvi confluire energie intellettuali e spirituali vigorose, sane, laboriose, che sotto la benevola assistenza di Cristo potranno far lievitare il Regno di Dio anche nel complicatissimo mondo politico nella misura del cento, del sessanta o del trenta per cento, tenendo ben presente che il primo e non eludibile obiettivo di una seria ed evangelica azione politica non può che essere in questo momento storico la lotta intelligente e responsabile ma convinta e necessaria per una profonda e radicale ridefinizione di tutti i trattati internazionali ed europei che, tutti indistintamente e acriticamente subordinati alla indiscussa ma molto problematica logica dei cosiddetti “debiti pubblici”, risultano realisticamente finalizzati non già al progresso economico e civile dell’umanità ma al suo ineluttabile e globale declino. 

Il libro di Tincani è bello, ispirato, profetico! E’ un prezioso e coraggioso anche se non ancora esaustivo manifesto delle direttrici lungo le quali presto potrebbe cominciare il suo cammino di testimonianza e di concreto impegno politico il nuovo ed evangelico partito cristiano e cattolico cui l’audace e generoso fratello di Reggio Emilia ha già saputo dare un vitale e lodevole impulso.  Generoso ma anche sapiente e non sprovveduto fratello cattolico che avverte perentoriamente quanto segue: il nuovo partito dovrà «tenere il più possibile lontano dalla propria dirigenza arrampicatori e personaggi subdoli del sottobosco politico perennemente pronti a riciclarsi o a rifarsi una verginità politica» (p. 83). Che Dio lo illumini e lo benedica!  

Per una nuova identità cattolica in politica

homeNient’affatto. Come cattolici non siamo d’accordo né con il vecchio conservatorismo politico di marca democristiana, né con alcune frange “progressiste” dello stesso mondo cattolico che, in funzione della possibile e auspicabile nascita di una nuova formazione politica di ispirazione cristiana, chiedono di “tener bassa la voce su questioni che interessano l’antropologia dei nostri tempi”, come quelle relative ai “princípi non negoziabili”, al fine di non urtare la suscettibilità di molti non credenti politicamente seri e “propositivi” e di non creare quindi occasioni pregiudiziali di scontro che non aiuterebbero i cattolici ad organizzarsi appunto in una nuova ed efficace forza politica.

Naturalmente questo non implica che di conseguenza saremmo d’accordo con altri segmenti cattolici che invece agitano ipocritamente e strumentalmente i “princípi non negoziabili” per poter meglio giustificare la loro contrapposizione, spesso reazionaria e interessata, alle forze laiche anche su questioni di natura economica e sociale. Anche perché tra i “princípi non negoziabili” noi includiamo il principio di dignità personale che non può non essere strenuamente difeso anche contro l’incapacità dello Stato di garantire un giusto posto di lavoro, un salario o uno stipendio accettabili, il tassativo rispetto del diritto a non vedersi pignorata in nessun caso la prima casa di proprietà o a non essere completamente abbandonati sotto il profilo economico-finanziario anche in caso di licenziamento, di perdita del lavoro o di malattia.

Se il signor Beppe Grillo, attor comico di professione che molte speranze, ivi comprese quelle di chi scrive, ha forse illusoriamente suscitato nel nostro Paese, dice che il suo movimento non sarebbe né di destra né di sinistra, perché conterebbero solo le idee buone e giuste che come tali non sono appunto né di destra né di sinistra, noi, consapevoli del fatto che nella vita come nella politica non ci sono solo idee ma anche ideali, non temiamo di affermare che il movimento cattolico che auspichiamo possa presto nascere e svilupparsi in Italia non dovrebbe avere alcun timore nel rischiare di apparire di destra su alcune cose e nell’essere di sinistra su certe altre cose.

Ma, intanto, a quei nostri fratelli di fede che vorrebbero si allentasse la guardia cattolica su problematiche “eticamente sensibili”, per evitare inutili e dannosi “scontri di religione” e per dare prova di buona volontà o di volontà pacificatrice rispetto a talune istanze “civili” del mondo laico, noi rispondiamo che, né in quanto uomini né in quanto cattolici, saremo disposti ad accogliere le loro erronee sollecitazioni, per il semplice fatto che in gioco qui non ci sono semplicemente le sorti della religione cattolica ma quelle della stessa civiltà.

Peraltro, la religione cattolica, e diciamo deliberatamente religione e non fede, potrebbe eclissarsi non solo perché i cattolici non siano eventualmente capaci di ascoltare il mondo e interagire con esso, ammesso e non concesso che per mondo possa intendersi qualcosa di definibile in modo univoco e lineare, ma anche e soprattutto perché essi, sempre meno sorretti dall’amore-carità verso Dio e verso gli uomini, abdichino eventualmente al loro compito evangelico di essere sempre e comunque sale della terra e luce del mondo (Mt 5, 13-16). Potrebbero mai cattolici degni di questo nome soprassedere sulla volontà di legalizzare il cosiddetto matrimonio tra persone omosessuali, senza con questo tradire la loro fede e infliggere un colpo mortale al futuro della famiglia e della stessa umanità?

Qui non si ha a che fare con bisogni umani, con istanze morali, con diritti civili, ma solo con forme inconfessate di turpitudine umana, con capricci individuali, con patologie spirituali e con perversi disegni di potenti lobbyes politico-culturali con annessi e corposi interessi finanziari che mirano a mutare le stesse caratteristiche antropologiche del genere umano e a lucrare sull’introduzione nella vita sociale dell’intero pianeta di bisogni artificiali e falsi, come falsi sono i bisogni alimentati dall’esistenza dei casinò o di certi teatri d’avanguardia. Peraltro, di sesso non è mai morto nessuno e mai si morirà, come invece si muore di fame, di mancanza di lavoro, di violenza sessuale subíta o di tante forme di umiliazione personale e sociale, fisica e spirituale, che molti esseri umani, privi di protezioni o di tutele privilegiate, sono costretti a subire ogni giorno. 

A noi non importa niente di apparire, anche agli occhi di questi nostri fratelli, dei cattolici integralisti o integristi, dogmatici e fondamentalisti, proni alla gerarchia ecclesiastica piuttosto che al vangelo, cosí come non ci importa niente di apparire ad osservatori cattolici diversamente collocati come cattolici comunisti o cattolici eversivi dal punto di vista economico e sociale. A noi importa solo di essere, e non certo in modo autoreferenziale e autosufficiente, quello che dobbiamo essere secondo il vangelo di Cristo e secondo gli insegnamenti più illuminati e profondi della nostra Chiesa.

Anche perché, francamente, dar vita a un movimento politico cattolico che dovesse preoccuparsi di non apparire conservatore o reazionario per la questione dei gay, di loro presunti specifici “diritti” aggiuntivi rispetto a quelli di cui godono e devono godere in quanto persone, sarebbe come voler somigliare al movimento 5 Stelle di Grillo, che è partito “sparato” per dar luogo ad una vera e propria rivoluzione “culturale” prima che politica nel nostro Paese e dopo appena due mesi di vita parlamentare, sottraendosi in modo grottesco a possibili e specifiche responsabilità governative, si è ridotto a brillare per il particolare impegno profuso dai suoi parlamentari proprio sui “diritti” dei gay! Otto milioni di voti messi a disposizione di un movimento che doveva essere “alternativo”, semplicemente per consentire sia pure involontariamente a quest’ultimo di trattare la questione omosessuale nelle sue molteplici articolazioni come una delle sue priorità politiche!

I cattolici dovrebbero scendere nell’arena politica con un movimento o un partito che rompa decisamente con le mode del “political correct”, secondo le quali sarebbe sempre e comunque conveniente non assumere atteggiamenti che collidano con una certa opinione pubblica o con modi di pensare e modelli culturali che abbiano il favore di gran parte dell’informazione massmediale e dei principali commentatori politici di parte laica. I cattolici dovrebbero scendere nell’arena politica anche per contribuire finalmente ad una moralizzazione della vita sociale ed economica, moralizzazione non più generica e farisaica, né soggetta ad acritiche e conformistiche aspettative di massa, ma efficacemente mossa dalla sicura vitalità della carità evangelica, per mezzo di un’attività politico-parlamentare capace di interagire criticamente e responsabilmente ma non arrendevolmente con i cosiddetti “poteri forti” internazionali e in pari tempo volta di principio ad affrontare ogni priorità o ogni emergenza nazionale a partire sempre, e in modo inderogabile, dall’assoluto e non negoziabile rispetto delle necessità dei ceti sociali più disagiati o meno abbienti, delle strutture produttive nazionali più vitali ed efficienti, delle piccole e medie imprese professionali e artigianali più laboriose e meritevoli di ogni singola regione, e in generale dalla volontà programmatica di fissare paletti ben precisi e invalicabili a qualsiasi ipotetica manovra di risanamento e di riequilibrio dei conti pubblici.

Sul terreno dell’azione politico-culturale ed economico-finanziaria, i cattolici che saranno impegnati domani sulle piazze o nelle aule parlamentari dovrebbero sempre ispirare le loro proposte, scelte, decisioni, ad un principio etico di chiara derivazione evangelica anche se spesso contestato dai tanti sapienti del mondo: quello per cui, al limite, sarebbe meglio una società più povera ma più giusta che non una società ricca o più ricca ma ingiusta o sempre più ingiusta. E’ inutile girarci attorno: le previsioni più volte fallimentari degli economisti, il graduale aggravarsi di ricorrenti o cicliche crisi economico-finanziarie, la periodica esplosione di conflitti sociali o di violente contestazioni popolari nei confronti dei poteri costituiti, non possono più non indurre a ritenere che il mondo si salva anche in un senso molto terreno non tanto favorendone sviluppo o crescita economica quanto impegnandosi coerentemente a ripensarne radicalmente modelli culturali, stili di vita e soprattutto forme strutturate e consuetudinarie di potere politico che ad oggi risultano orientate a salvaguardare invariabilmente, molto al di là di ogni revisione legislativa e di ogni apparente tentativo di modernizzare la macchina amministrativa e burocratica dello Stato oltre che lo stesso mondo del lavoro,  “interessi forti” e non “interessi deboli”.

Un santone della società civile italiana come Roberto Saviano ha scritto che «la Chiesa non ha alcun diritto di condizionare le leggi e le istituzioni dei paesi laici. I cattolici possono dire la loro, ma non influenzare o boicottare nuove leggi. Questo è profondamente ingiusto» (Lasciate che i gay adottino bambini, in “L’Espresso” del 17 gennaio 2013). Qui il tema è quello dei “diritti civili” da estendere alle particolari esigenze dei soggetti omosessuali, ma il modo di ragionare di Saviano potrebbe applicarsi a qualsiasi altro tema. Il punto è che secondo l’eroe dell’anticamorra i cattolici non avrebbero il diritto di concorrere alla formazione delle leggi e alla regolamentazione delle istituzioni nei paesi in cui essi vivono, pur pagando le tasse e godendo, al pari di tutti gli altri cittadini, dei diritti civili e politici sanciti dalle relative costituzioni statuali.

Io cattolico “posso dire la mia”, privatamente, ma pubblicamente e quindi politicamente dovrei astenermi, magari per legge, dal tentare di ostacolare o comunque condizionare la vita legislativa e istituzionale della mia nazione, affidandola completamente al giudizio e alle decisioni delle forze laiche. In quale articolo della Costituzione italiana stia scritto che un cittadino di fede cattolica non possa esercitare pressione sullo Stato per via democratica al fine di far valere le sue idee sul piano normativo, Saviano non ce lo dice ma non ce lo dice solo perché non ha letto il testo costituzionale oppure perché intende esprimere un pensiero eversivo rispetto al medesimo testo. Eppure è a tutti evidente che se i cattolici non potessero influenzare le leggi ci si troverebbe in una situazione in cui essi per primi si troverebbero ad essere discriminati e a vedersi negati quei “diritti civili” che egli invece vorrebbe estendere ai gay (con matrimoni resi legali anche per quest’ultimi e adozioni di bimbi da autorizzare a loro favore) non in quanto persone e cittadini ma in quanto omosessuali. Si poteva mai sospettare che l’intelligenza di un Saviano fosse cosí rigorosa e cosí penetrante?

Ma, checché ne dica lo scrittore campano, i cattolici hanno non solo il diritto ma anche e soprattutto il dovere di contrastare movimenti di opinione come quelli capitanati, se non proprio da ciarlatani, da avventurieri del pensiero come Saviano, e di unirsi in una formazione politica che tenda umilmente e coraggiosamente, nel nome e per conto di Cristo, ad egemonizzare pacificamente la cultura e la politica nazionali, o, ove non sia possibile, almeno a contrastarne sempre per via democratica eventuali degenerazioni e perversioni, tanto sul piano dei diritti civili quanto sul piano della prassi politico-legislativa ed istituzionale in genere. 

Vincenti o perdenti, i cattolici domani impegnati in politica dovranno operare solo secondo i princípi e i valori evangelici di integrità morale, di libertà umana e civile, di giustizia economica e sociale, adoperandosi ogni volta, al fine di testimoniarli storicamente, nella ricerca delle soluzioni politiche più idonee a favorirne una coerente traduzione in fatti oppure nell’opporre resistenza a processi impersonali di finta modernizzazione e di sempre più accentuata espulsione del lavoro e della dignità umani dai processi economico-produttivi della nazione. Se questi cattolici, nel segno di Cristo, potranno continuare a comunicare e a dialogare con il mondo, essi avranno compiuto un’opera utile per tutti, altrimenti avranno comunque saputo onorare il mandato spirituale loro conferito da Cristo. E avranno altresí cooperato ad instaurare il Regno di Dio già su questa terra.  

Grillo: achtung, achtung!

Il comico genovese Beppe Grillo, cui non fanno difetto l’intuito e la scaltrezza politica e che ha il merito storico di aver dato una spallata resasi ormai necessaria ad un sistema italiano di potere totalmente incapace di rinnovarsi per via interna o endogena, sta cercando di compiere in Italia un’operazione tanto soggettivamente ambiziosa quanto oggettivamente ambigua e pericolosa. Ambiziosa perché volta, in un sol colpo, a distruggere completamente le attuali forze politico-parlamentari di destra e di sinistra per sostituirle in toto con il suo movimento 5Stelle, in cui per dire la verità, dopo i primi mesi di vita parlamentare, non sono ancora emerse né competenze individuali e generali talmente eccelse da indurre buona parte del popolo che lo ha votato a coltivare aspettative troppo ottimistiche, né qualità morali cosí specchiate da indurre persino gli osservatori più imparziali ed onesti a deporre le armi della critica; ambigua e pericolosa, perché volta a convogliare il maggior numero possibile di segmenti sociali di diversa e composita estrazione politica in quell’unicum del 5Stelle che a tutt’oggi non risulta politicamente definito con chiarezza di princípi e linearità di metodo e che non fornisce ancora garanzia alcuna circa la natura e le finalità democratiche della sua struttura interna e della sua volontà politica di potere.

Poiché il carro di Grillo oggi è indubbiamente un carro politico vincente, era ed è inevitabile che molti saltassero e continuino a saltare su di esso alla ricerca di vantaggi leciti e illeciti che altrove ormai non era più possibile sperare di perseguire o di ottenere. Il guaio è che Grillo, per calcolato interesse, non sembra al momento volersene preoccupare, badando piuttosto ad incrementare il numero dei suoi seguaci ai fini di una presa sempre più stringente del potere e presentando propagandisticamente il suo movimento come composto per intero da persone di diversa estrazione sociale e professionale ma ugualmente oneste ed interessate in modo esclusivo al bene comune.

Con la sua urlata retorica antisistema, con il suo aggressivo e spesso becero richiamo alla volontà popolare, con la sua raffinata quanto astuta tecnica di alternare analisi critiche indubbiamente efficaci a velate ma insistenti allusioni relative a possibili e concreti pericoli di insurrezione sociale, e infine con il suo greve moralismo politico spesso fine a se stesso e totalmente disgiunto da una complessiva etica politica capace di farsi coerentemente carico delle oggettive necessità economiche della nazione e di dare risposte mirate a specifiche problematiche di ordine sociale ed occupazionale, Grillo non appare per niente interessato a stabilire sia pure approssimativamente la natura della composizione sociale e politico-culturale del suo movimento.

Quanti ex fascisti, ex comunisti, cattolici, quanti soggetti eversivi, quanti massoni, quanti mafiosi o terroristi possano farne parte, non gli interessa minimamente saperlo e ancora meno avverte per ora l’esigenza di protestare preventivamente contro tutti gli arrivisti e gli opportunisti che, semplicemente gridando il loro entusiastico “viva Grillo”, sono riusciti ad ottenere e possono sempre ottenere la sua paterna e benefica benedizione.

Per Grillo l’importante è rendere quanto più denso ed esplosivo possibile, sia pure per via democratica, il magma rivoluzionario anche sulla base di quell’ammaliante e mistificante slogan secondo cui il movimento non sarebbe né di destra né di sinistra ma si fonderebbe solo su idee buone e giuste; per lui l’importante è continuare a gridare contro tutto e contro tutti, persino contro persone come la giornalista Milena Gabanelli che appena un mese fa veniva votata dai parlamentari “grillini” come candidata alla più alta carica dello Stato e che oggi, solo per aver rivolto qualche “impertinente” domanda sulla gestione finanziaria interna del 5Stelle, viene subissata di critiche e di insulti sul blog del comico genovese. Per Grillo l’importante è cercare di tenere in stato di continua mobilitazione le masse dolorosamente afflitte dalla miseria e dalla disperazione e non già evitare di condannare il suo stesso movimento all’insignificanza politico-legislativa con decisioni dissennate e irrazionali come quella di non sostenere un governo PD-5Stelle o con i suoi cronici attacchi isterici che ben poco lasciano sperare circa la volontà e la capacità dei “grillini” di incidere realmente sul destino del nostro Paese.

E’ peraltro sconfortante constatare come nessuno ancora, tra i suoi stessi parlamentari, osi prospettare seriamente al leader genovese la possibilità che il movimento politico da lui fondato possa determinarsi a sopravvivere anche senza di lui e senza la sua guida. Anzi, sono ancora molti gli attivisti che pensano che il movimento debba chiudersi a qualsiasi confronto con “i nemici” o comunque con voci ad esso non organiche; che l’identità del movimento (ma quale sia l’identità del movimento, al di fuori di una generica volontà di disarticolazione del vigente sistema politico di potere, non è dato ancora sapere) si possa salvaguardare solo aggredendo in modo virulento i presunti o reali responsabili dell’attuale situazione di crisi e non sedendosi attorno a un tavolo giornalistico-televisivo o politico-parlamentare per discutere in modo disteso e conciliante con i propri avversari.

Non sono pochi i militanti che lanciano sistematici moniti a non andare contro la natura “rivoluzionaria” del movimento, avvertendo che chi disattende tale avvertimento non possa e non debba fare più parte del movimento. Purtroppo costoro non riflettono abbastanza e quindi non capiscono che il loro movimento, come qualunque altro movimento politico che come tale abbia finalità pubbliche, non è esclusiva proprietà di chi lo fonda ma è o diventa patrimonio comune di tutti coloro che lo votano. Non capiscono che il 5Stelle non può barricarsi dietro le idee dogmatiche e distorte di eventuali fondatori della “prima ora” ma deve continuamente valutare la bontà delle proprie proposte e prese di posizione alla luce delle indicazioni, dei suggerimenti, delle analisi, dei consigli di tutti coloro che, avendolo votato, siano in grado di offrire un contributo intellettuale, etico e politico onesto e qualificato, anche perché se la natura del movimento dovesse rimanere immutabile per l’eternità, esso già oggi non potrebbe certo contare su 8-9 milioni di voti ma su un bacino elettorale enormemente più ridotto. Lo si dovrebbe tenere bene a mente, per evitare di prevaricare ancora una volta in modo miserabile rispetto agli interessi generali della nostra nazione.

In presenza di un movimento politico che potrebbe rovesciare effettivamente “l’ordine di cose esistente”, il concetto di fondo non può non essere quello per cui nessuno può permettersi di appropriarsi del movimento, dei suoi obiettivi, delle sue finalità, delle speranze stesse di cui è portatore, perché altrimenti si avrebbe a che fare con un gruppo di cospiratori intolleranti e faziosi volti a sfruttare la protesta e il malessere popolari per semplici e inqualificabili fini di potere personale: ciò che, peraltro, non renderebbe il 5Stelle completamente alternativo ad associazioni e a logiche di stampo mafioso o camorristico.

Ma, in realtà, almeno fino ad oggi, è innegabile che il movimento si regga su uno spirito padronale, accentratore e autoritario da non confondere con una guida sicura ed autorevole di cui auspicabilmente quest’ultimo dovrebbe pur disporre. Né può essere accettato lo strafottente ed infantile invito di tanti militanti “grillini” a non votare per il 5Stelle ove non si condivida in toto, fideisticamente, la linea di Grillo, per il semplice fatto che, come prevede l’art. 49 della nostra Costituzione (agitata sempre dal movimento come il suo libro sacro salvo poi a recriminare su alcuni suoi particolari articoli come per esempio il 67 relativo alla libertà di coscienza del parlamentare o, appunto, il 49), «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Cosa significa questo? Significa che bisogna concorrere con metodo democratico e non autoritario, quale che sia il partito di appartenenza, “a determinare la politica nazionale”. Per la nostra Costituzione non c’è partito o movimento politico che non sia tenuto al suo interno a riflettere la struttura democratica dello Stato repubblicano italiano. Per questo motivo, anche la linea politica del 5Stelle non può essere dettata o decisa solo da Grillo e Casaleggio ma deve essere decisa per l’appunto con metodo democratico, che non comporta certo decisioni assemblearistiche o populistiche ma tali da risultare condivise almeno da un congruo numero di aderenti sulla base di argomentazioni e proposte chiare e coerenti anche se pur sempre in linea con gli obiettivi politici generali e lo spirito democratico del movimento; spirito democratico per il quale, in base alle parole programmatiche di Grillo medesimo, “uno vale uno”.

Uno vale uno, a cominciare ovviamente da quell’uno che è Grillo stesso, dove è evidente che egli, pur potendosi e dovendosi prodigare per convincere molti, non possa tuttavia pretendere di tappare la bocca a nessuno, perché tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. E francamente non si capisce con quali argomentazioni giuridiche oggi Grillo minacci di non far partecipare il 5Stelle alle prossime competizioni elettorali qualora venisse approvata in parlamento la proposta del PD, relativa all’obbligo per ogni partito o movimento politico di acquisire una ben definita personalità giuridica pena l’impossibilità di accedere al finanziamento pubblico e di partecipare alle elezioni, pur essendo chiarissimo che l’iniziativa del partito democratico rivela il suo timore di veder ulteriormente dimezzati i suoi voti e in pratica di sparire dalla scena politica a tutto vantaggio del 5Stelle.

Non si comprende proprio perché il 5Stelle non possa e non debba avere una normale personalità giuridica, con annessi statuto e regolamento interno, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Cosa teme Grillo? Forse di non poter più esercitare nel suo gruppo politico un potere incontrastato e di non poter introitare nascostamente fondi o somme di denaro che oggi affluiscono nelle casse del suo blog da provenienza oscura o addirittura illecita? E’ una domanda irriguardosa? No, è solo una domanda legittima e pertinente alla quale l’attore genovese, volente o nolente, non può sottrarsi. Né è sufficiente che egli continui a professarsi uomo democratico e rispettoso delle leggi correnti, nemico giurato del lobbysmo, della massoneria, del clientelismo, del malaffare, ma al tempo stesso capace di non lasciarsi incantare da quelli che gli ricordano sempre polemicamente le regole di un corretto credo democratico, o che proferiscono parole ed espressioni vuote come “bene comune” o “è l’Europa che lo chiede”, o che continuano a parlare in modo tanto ricattatorio quanto tedioso di “spread” e di “mercati”.

Non è sufficiente, anche se è sperabile che Grillo sia e dimostri di essere persona politicamente capace e moralmente integra al di là degli errori che inevitabilmente anche a lui può capitare di commettere e di taluni tratti decisamente ambigui e autoritari del suo modo odierno di agire e di governare il suo movimento. I militanti “grillini” più onesti dovrebbero ritenere non solo legittima ma persino indispensabile un’attenta vigilanza critica contro qualsivoglia tipo di ipotetica o reale degenerazione o perversione del movimento 5Stelle, e in ogni caso non è possibile astenersi dal lottare, anche in qualità di semplici cittadini, contro il periodico riaffiorare in esso di talune sue probabili tendenze originarie, ovvero presenti già nella sua “natura”, di marca manifestamente fascista.

Sia come cittadini, infatti, sia anche come cattolici, non vogliamo che in Italia nascano e attecchiscano di nuovo partiti o movimenti la cui natura prevalente sia di matrice fascista o autoritaria (non importa se di “destra” o di “sinistra”). E’ principalmente per questo obiettivo dovere di vigilanza civile che alcuni di noi rivendicano ancora a pieno la legittimità di appartenere al 5Stelle e si oppongono fermamente ai proclami sconsiderati di chi evidentemente percepisce il bene comune del nostro popolo come un semplice optional. Qui nessuno può più concedersi il lusso di pensare e decidere anche contro gli altri o come se gli altri non esistessero, di rivendicare il governo della nazione a colpi di insulti e di espressioni plebee, di esercitare potere semplicemente facendo un uso cinico e strumentale del malessere popolare e di umanissime aspettative di ripresa economica e sociale. Qui nessuno può pensare di avere il diritto ad occupare le istituzioni e i gangli fondamentali del potere repubblicano solo perché si sia trovato, forse anche suo malgrado, a calamitare e a cavalcare un malcontento popolare molto più ampio di quello che in un primo momento si poteva supporre. Come cittadini e come cattolici faremo sempre di tutto perché questo non accada e faremo del nostro meglio perché i responsabili politici del nostro Paese, ivi compresi Grillo e quelli che a lui si richiamano, si sentano energicamente indotti a rendere continuamente conto delle proprie posizioni.

Il filosofo greco di nazionalità francese Cornelius Castoriadis diceva che la democrazia è rendere perennemente conto, a tutti i livelli e in ogni ambito della vita associata e della stessa vita politico-istituzionale, di ciò che si pensa e di ciò che si fa. A Grillo, chi, anche come cattolico, ha creduto sinceramente nelle possibilità “rivoluzionarie” del suo movimento, non può oggi non rivolgere un accorato appello a voler rendere realistico, cioè praticabile, realmente spendibile, il suo apparente idealismo politico. Se Grillo accoglie questo appello, mostrandosi consapevole del fatto che una vera rivoluzione non si fa dall’oggi al domani ma ha i suoi “modi” e i suoi “tempi” oggettivi, renderà forte e stabile il 5Stelle, radicandolo profondamente nel cuore di tutti quelli che lo hanno votato e forse anche di molti di quelli che ancora non l’hanno votato; altrimenti, se si perderà questa occasione di oggettivo “cambiamento”, che tale è a prescindere dalle possibili perverse intenzioni del PD, tutto resterà come prima con l’aggravante che il 5Stelle verrà conoscendo una sempre più accentuata involuzione autoritaria, conseguente alla inconsistenza della sua azione politica, e verrà subendo un inevitabile e graduale restringimento della sua base elettorale.

Ma se anche il movimento di Grillo dovesse conquistare il potere per via plebiscitaria o dittatoriale, i cattolici non per educazione ma per convinzione sarebbero sempre lí a testimoniare la loro fedeltà ai progetti di Dio e la loro pacifica ma risoluta avversione ai malefici piani di Satana. Per questo, quali che potranno essere gli sviluppi politici del suddetto movimento, ci è sembrata e ci sembra significativa l’esortazione contenuta nel titolo: Grillo, achtung, achtung!