Il cristianesimo tra critica gramsciana e nichilismo contemporaneo

Per Antonio Gramsci, il cristianesimo, prima che diventasse l’ideologia del potere imperiale romano e struttura di potere nel Medioevo, era stato un grande movimento “di sollevazione delle masse popolari”, capace di sopportare lunghi periodi di clandestinità e persecuzione e di innescare al tempo stesso un vero e proprio processo rivoluzionario molecolare di popolo che sarebbe sfociato in una reale “riforma intellettuale e morale” dalla quale avrebbe avuto origine  «la creazione di un nuovo e originale sistema di rapporti morali, giuridici, filosofici e artistici», (A. Gramsci, Il Partito Comunista, in L’Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 154 sgg., pp. 253-254). Alla luce di questo importantissimo riconoscimento storico, la critica antagonistica gramsciana nei confronti della religione cristiana e della Chiesa, dovuta all’«antitesi insanabile» tra trascendenza cristiana e immanenza marxiana, non si sarebbe mai trasformata in intolleranza ideologica o in anticlericalismo, anche in considerazione del fatto che la classe operaia, costituita sia da individui non credenti che da individui credenti, non avrebbe dovuto commettere l’errore di dividersi e di infrangere la sua unità politica nella decisiva lotta contro la borghesia capitalistica (G. Semeraro, I subalterni e la religione in Gramsci. Una lettura dall’America Latina, in “International Gramsci Journal”, 2, 2016, p. 255 e sgg.).

In realtà, argomentava il giovane Gramsci in termini che anche il Gramsci maturo non avrebbe ritrattato, i socialisti marxisti, pur convinti, in quanto atei, che «la religione sia una forma transitoria della cultura umana che sarà superata», non si dichiarano antireligiosi, nel senso che lo stato operaio e comunista, una volta edificato, non avrebbe perseguitato la religione, limitandosi a chiedere «ai proletari cristiani la lealtà che ogni stato domanda ai suoi cittadini» [Gramsci, Socialisti e cristiani, in Sotto la Mole (1914-1920), Torino, Einaudi, 1972, p. 495]. Gramsci, nei Quaderni, avrebbe riconosciuto esplicitamente la «funzione della religione nello sviluppo storico e intellettuale dell’umanità»  (Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1977, Clero e intellettuali, Q 1, § 154: QC, 137), spiegando che il suo ruolo non fosse da considerare come un semplice riflesso del mondo materiale ma fosse quello di una forza reale, attiva, perché costitutiva di un processo unitario della realtà e, come tale, destinata a ripercuotersi dialetticamente sulla struttura sino ad assumere  «la stessa energia delle “forze materiali”» nel foggiare il senso comune (Ivi, Q 11, § 62: QC, 1487; e cfr. Q 11, § 12: QC, 1380).

D’altra parte, notava Gramsci, il cristianesimo cattolico, nonostante la funzione-guida, non di rado manipolatrice, assolta dalla Chiesa sul piano dottrinario, non è così monolitico come spesso si è portati a credere, essendosi piuttosto manifestato storicamente in diverse forme interpretative: infatti, «c’è un cattolicesimo dei contadini, un cattolicesimo dei piccoli borghesi e operai della città, un cattolicesimo delle donne e un cattolicesimo anche variato degli intellettuali»(Ivi, Q 11, § 13: QC, 1397), così come ci sono dispute ideologiche e posizioni di classe che, nel nome della stessa fede religiosa, si esprimono in correnti e veri e propri «partiti», quali sono i «cattolici integrali, gesuiti e modernisti» (Q 20, § 4: QC, 2088). Al di là di questa pur reale frammentazione interna di posizioni, non c’è dubbio per il pensatore sardo che il “cristianesimo popolare” esprima un potenziale rivoluzionario che, in particolari situazioni storiche, può fare della fede religiosa una «formidabile forza di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata» capace di trasformare «la volontà reale in un atto di fede», di esprimere la rivolta delle classi subalterne» e, al di là delle forme di «pacifismo evangelico» e di «rivoluzione passiva», di assumere carattere di «guerra di posizione, che diventa guerra di movimento in determinati momenti e in altri in guerra sotterranea» (G. Semeraro, I subalterni e la religione in Gramsci, cit., p. 258). 

Per questa ragione, la filosofia della prassi non può trascurare l’apporto che il cattolicesimo popolare, pur carico di credenze popolari discutibili che dovranno essere superate in una successiva fase del processo storico di sviluppo, può offrire oggettivamente alla causa rivoluzionaria e comunista, fermo restando che, nel frattempo, la parte più consapevole del movimento operaio dovrà elaborare una religione alternativa a quella cattolica, ovvero una religione il cui centro sia costituito non più da verità rivelate, da una dipendenza da princìpi esterni alla coscienza umana e legati ad istanze sacrali autoritarie, bensì da una capacità umana e moderna di vivere in modo autonomo nella concreta realtà storica, che è l’unica realtà in cui possa integralmente compiersi il destino esistenziale del genere umano. Gramsci, dunque, distingue, sulla falsariga dell’interpretazione hegeliana, tra la Chiesa come comunità dei fedeli, in gran parte radicata nella storia di masse popolari virtualmente insofferenti di sottostare a determinati e vessatori rapporti economici e sociali di sudditanza, sia pur sempre nel quadro di un’aspettativa sovrannaturale e definitiva di liberazione, e la Chiesa come organizzazione clericale, tendente ad eternizzare la sua struttura feudale e gerarchica sulla terra e i suoi buoni rapporti con il potere temporale e le istanze politiche di sovranità delle diverse strutture statuali del mondo moderno e contemporaneo, piuttosto che a propagare e a testimoniare con atti coerenti e ineccepibili i valori universali del vangelo di Cristo (Hegel era molto critico verso la Chiesa freddamente teologica e lontana dalla sensibilità popolare, in quanto, come è stato opportunamente notato, egli, nei suoi “Scritti teologici giovanili”, Hegel, Scritti teologici giovanili, Napoli, Guida, 1972, p. 197, scriveva che «al fine di sviluppare una moralità del popolo, e non una moralità semplicemente privata, è necessario che il popolo venga istruito attraverso una religione che sappia coinvolgerlo non intellettualmente, bensì sensibilmente e che sia capace di parlare al suo cuore. Non è infatti compito della religione popolare quello di formare le singole coscienze una ad una, essa deve porsi un compito più alto, ossia formare la moralità di un popolo: «formare la moralità di singoli uomini è affare di una religione privata, dei genitori, dei propri sforzi e circostanze, formare lo spirito del popolo è in parte cosa della religione popolare, in parte dei rapporti politici», M. Farina, L’estetica del giovane Hegel, in Annali del Dipartimento di Filosofia, Nuova Serie, XVII, 2011, pp. 69-70).

Ora, pur apparendo tale divaricazione piuttosto forzata e un pò riduttiva rispetto all’effettiva e complessa realtà storica, non si può disconoscere che essa attraversi costantemente la storia stessa della Chiesa, la quale ultima, si badi, è tale non solo in quanto Chiesa istituzionale e gerarchica ma anche, e contemporaneamente, come Chiesa comunitaria e carismatica, come unitario popolo di Dio. Per cui, alla fine, lo sdoppiamento è più apparente che reale, o meglio è reale ma nel senso di una sua intrinseca funzione dialettica all’interno della stessa economia divina della salvezza, dovendo ogni possibile deviazione dottrinale o pastorale delle gerarchie ecclesiastiche essere corretta o neutralizzata da ispirate e caritatevoli resistenze spirituali di popolo o di base, e avendo d’altra parte le gerarchie ecclesiastiche il compito di guidare sapientemente e responsabilmente il popolo di Dio, arginandone deviazioni ed errori, in conformità alla originale, non fraintesa e non manipolata, Parola divina.

Il problema specifico che individuava Gramsci nella storia della Chiesa cattolica, tuttavia, era che l’istituzione gerarchico-ecclesiastica si schierasse prevalentemente con i potenti allontanandosi sempre più dalle istanze di liberazione economica e sociale delle masse degli “umili”, alle quali invece era stato particolarmente sensibile il cristianesimo primitivo, il francescanesimo, e altre circoscritte esperienze religiose e cristiane di segno fortemente comunitario. Quello della mondanizzazione della Chiesa-apparato era un problema certamente reale, anche se non rilevabile nei  termini tendenzialmente unilaterali evidenziati da Gramsci, e peraltro preannunciato monitiriamente e profeticamente già da Gesù, ma le forme in cui esso potesse manifestarsi non sarebbero state semplicemente quelle temporalistiche, incentrate su una collusione del potere spirituale con il potere politico-temporale, con i corposi poteri economico-finanziari e con la stessa cultura dominante del mondo, pur nell’adesione apparentemente fedele ai santi princìpi evangelici, bensí anche quelle più interne allo sviluppo e al mutare delle modalità teologiche ecclesiali ed ecclesiastiche di approccio alle Sacre Scritture, alla Tradizione e allo stesso plurisecolare magistero pontificio.  

La Chiesa curiale del terzo millennio sta facendo di peggio soprattutto sotto questo secondo aspetto, proprio nel momento in cui, senza averne probabilmente coscienza, sembra voler convertire, proprio in apparente ossequio alle vecchie critiche gramsciane, i suoi tradizionali paradigmi di spiritualità teologica e pastorale, di carattere prevalentemente contemplativo,  dottrinario, devozionale, in nuovi e più dinamici paradigmi di predicazione, moralità, spiritualità, ovvero molto più a contatto con concrete e dirette esperienze di vita comunitaria e sociale. La spiritualità sembra perdere così il carattere rarefatto che il termine era solito evocare, per assumere la concretezza poliedrica della vita umana. La spiritualità della Chiesa sembra cambiare natura: da una natura quasi anaffettiva, e prevalentemente cattedratica e magisteriale, che l’aveva non sempre ma a lungo caratterizzata nelle epoche precedenti, adesso sembra tendere all’acquisizione di una natura più carica di interesse e affettività per le pratiche concrete del mondo, più umanamente partecipe dei drammi di larghe masse di individui poveri e sfruttati, perseguitati e costretti a lasciare i propri luoghi d’origine, oppure semplicemente discriminati ed emarginati sul piano civile, giuridico, culturale, come bambini, giovani, donne, lavoratori, anziani, immigrati.

Viene assistendosi ad una decrescita di verticalizzazione del sentimento religioso e, in apparenza, ad un aumento o ad un potenziamento di orizzontalizzazione della sensibilità religiosa in relazione al prossimo bisognoso, vessato o emarginato, oppresso o perseguitato, il che, tutto sommato, potrebbe costituire ancora motivo di conforto se si potesse essere certi della genuina natura spirituale di tale fenomeno. In fondo, in esso si potrebbe scorgere il germoglio, per quanto esile, di una transizione epocale dalla Chiesa del culto politico ad una Chiesa di fede rinascente tra “i semplici” capaci di amare silenziosamente il Cristo negli altri. Ma, a smorzare questa speranza, è tuttavia la consapevolezza che, proprio mentre questa Chiesa sembra volgere finalmente il suo sguardo verso le miserie reali di moltitudini di esseri umili e sofferenti, in realtà essa non si accorga, nel tentativo di rendersene fedele interprete e portavoce, di umanizzare troppo soggettivisticamente il suo linguaggio evangelico e apostolico, di costringerlo cioè in ambiti discorsivi sempre più distanti da un solido ancoraggio alla Parola di Dio e sempre più ricettivi di preoccupazioni mondane di ordine ideologico e immanentistico. Anziché annunciare l’annuncio salvifico di Gesù nella sua integralità, essa in tal modo lo viene utilizzando estrapolandone aspetti o motivi parziali che, da soli, non possono risultare correttamente finalizzati alla salvezza eterna (In questo senso, la Chiesa tende ad autonomizzarsi dalla figura del Cristo, a disperderne l’eredità spirituale, rendendo pienamente legittima la preoccupazione del filosofo cattolico L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, Milano, Le Lettere, 2023, un saggio breve ma denso, in cui afferma: « Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare…è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica. Ma la fine della cristianità, intesa come egemonia religiosa cattolica, potrebbe creare le condizioni di un nuovo modo di sentire la fede: quello dei primi testimoni silenziosi della fede in Cristo, come ipotizza Chantal Delsol, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Siena, Cantagalli, 2022 anche se questa studiosa, paradossalmente, non si mostra per nulla preoccupata del probabile ritorno di un’epoca pagana, a differenza delle riflessioni contenute nel più solido libro di Santiago Montera Montenegro, La crisi dell’Occidente. Origini, attualità e futuro, Siena, Cantagalli, 2022).   

Dalla padella nella brace: prima, per servire Dio o piuttosto il culto di Dio, si rischiava troppo frequentemente di trascurare l’uomo con intese o connubi di potere molto sospetti, mentre ora, per servire l’uomo sia pure nel nome e per conto della misericordia divina, si finisce per equivocare tendenzialmente la Parola di Dio, la sua verità, la sua giustizia, il suo stesso amore e, in definitiva, il suo messaggio di salvezza. Stando cosí le cose, se il partito comunista di Gramsci esistesse ancora, forse si sarebbe potuto realmente avverare il suo disegno strategico: quello di educare i cattolici ad aver fede esclusivamente nei valori e nei fini etici di questo mondo, rinunciando per sempre alle chimeriche credenze metafisiche della loro religione per coinvolgerli a marciare speditamente, nell’esercito dei non credenti rivoluzionari, verso l’unica patria possibile, quella comunista. Ma il partito comunista di Gramsci, o meglio teorizzato da Gramsci, non esiste più, anzi forse non è mai esistito, sebbene continui a godere di ottima salute il marxismo e in particolare il marxismo gramsciano, e non si può quindi stabilire che cosa realmente sarebbe accaduto se fosse ancora in vita. Al contrario, la Chiesa esiste ancora, anche senza cristianesimo realmente pensato e vissuto, e questo pone inquietanti interrogativi sul suo prossimo futuro, benché, com’è sempre avvenuto, un “piccolo resto” resterà sempre a sostenerla e a darle voce.

Al momento, la tradizionale identità profetico-carismatica della Chiesa sembra evolvere verso forme identitarie sempre meno radicate nel sacro e sempre più condizionate dal profano e, d’altra parte, anche per questo può darsi che certo odierno populismo, certo indiscriminato ugualitarismo e pacifismo, certo moralistico misericordismo, certo disinvolto irenismo religioso, e per contro certa intolleranza verso forme tradizionali di religiosità, che sono caratteristiche tipiche del vigente pontificato, siano incoraggiati proprio dall’inesistenza storica attuale di movimenti politici e culturali capaci di rappresentare esigenze e rivendicazioni di ceti sociali sempre più indifesi e di lottare per una reale emancipazione storica dell’umanità. Ma se, nel ritenere di poter supplire proficuamente all’assenza di specifiche forze storiche a ciò naturalmente deputate, si pensa di poter allargare a piacimento le maglie della rivelazione divina, in realtà è ipotizzabile che la Chiesa si sia messa a remare, ancor più che in passato, non a favore dell’umanità reietta e disperata degli umili bensí decisamente contro di essa, nonostante tanta quotidiana retorica umanitaria.

E’ paradossale che, nella odierna teologia cattolica e negli stessi documenti ecclesiali, proprio quell’Hegel che verso di essi aveva espresso giudizi molto severi, appaia come un fondamentale termine di confronto e, anzi, come una vera e propria fonte di ispirazione. Infatti, in definitiva, cos’altro aveva rappresentato l’idealismo hegeliano se non «la forma più matura della negazione della trascendenza»? E qual è il linguaggio abituale del magistero pontificio se non un linguaggio hegeliano? (S. Fontana, Lo spirito di Hegel domina in Vaticano, in “La Nuova Bussola Quotidiana” del 29 giugno 2023). Affermazione provocatoria ma molto meno azzardata di quel che potrebbe sembrare. La teologia pontificia è, a ben vedere, una teologia non solo calata nell’attualità ma ridotta ad attualità, in quanto muove dal presupposto che lo Spirito divino venga manifestandosi senza opacità di sorta nella storia, nella congerie di fatti e di eventi storico-umani, e quindi nell’attualità, anche se in essa si tratta poi hegelianamente di distinguere tra forme apparenti e forme essenti della razionalità dello Spirito stesso, per cui non risulterebbe particolarmente semplice l’individuazione del significato universale delle sue molteplici forme epifaniche nella storia dell’uomo.

Tuttavia, al di là di questa possibile difficoltà interpretativa, è hegeliano il principio per cui, contrariamente a quanto per secoli ha predicato il cristianesimo, e cioè che criterio direttivo e dirimente di ogni discernimento circa la veridicità o falsità di quanto venga affermandosi o negandosi nella vita come nella storia umana sia l’insegnamento immutabile e imperituro stesso di Cristo, “via, verità e vita”, il sapere debba sempre fedelmente aderire, sia pure criticamente, alle fattuali novità fenomenologico-storiche, quasi che novità sia sinonimo di verità. Che è appunto quel che sta verificandosi nella teologia cattolico-pontificia di questo tempo, nella quale non la storia in itinere viene analizzata e giudicata nell’ottica di Cristo, ma, al contrario, è quest’ultima che viene spesso strumentalmente piegata all’esigenza non tanto religiosa quanto etico-razionalistica di trovare nelle stesse brusche sollecitazioni del mondo storico risposte o soluzioni immanenti e immediate.

Pertanto, nell’articolo sopra citato, non si poteva non osservare che, «come Hegel vedeva in ogni momento del processo la presenza incarnata del senso ultimo di tutto il processo stesso (lo Spirito), così il prossimo Sinodo pretende di conoscere la voce dello Spirito Santo oggi, attualmente, nell’esperienza che si vive. Lo Spirito diventa Storia e la migliore preghiera del mattino diventa leggere il giornale. Si può forse negare che oggi il magistero si muova in questo quadro? Papa Francesco ha di recente incontrato gli artisti. Tutti gli artisti? Anche quelli che creano opere blasfeme o plasmano menzogne? Certamente sì, perché anche essi fanno parte dell’attualità storica, del processo in atto, e dialetticamente contribuiscono a far nascere nuove prospettive, provocano nuove reazioni, smuovono le acque e danno da pensare. Le iniziative del Vaticano si rivolgono ormai sempre “a tutti”, non si scarta nulla.

Anche il grande happening del cardinale Gambetti sulla fratellanza universale era aperto a tutti. Perché è la storia che deve far emergere, dal suo interno, il proprio senso, e al momento storico appartengono tutti. La Chiesa deve uscire e raccogliere tutto ciò che c’è per strada, solo per il fatto che è per strada, se vuole essere attuale. Il nuovo spirito hegeliano cattolico non dice più di no a niente, perché dentro il suo sviluppo dialettico tutto gioca un ruolo insostituibile. Quando la Chiesa convoca le famiglie ormai le convoca tutte, anche quelle che non lo sono. Anche le eresie trovano posto nella Chiesa, perché permettono di sviluppare il dibattito sulla fede. Le tensioni, si dice, vanno attraversate e le polarità dialetticamente mantenute. Chi non accetta questo è perché vuole giudicare la storia anziché lasciare ad essa il giudizio. La Chiesa hegeliana dovrebbe accogliere anche chi ha messo in Croce Gesù, perché il “Venerdì Santo speculativo” è metafora della tensione intima alla storia» (Ivi).

Tono polemico a parte, peraltro comprensibile, questa denuncia non fa una piega. Dove si intenda predicare e testimoniare il vangelo di Cristo recidendo ogni rapporto con aspettative spirituali ed escatologiche di natura trascendente e sovrannaturale, non si fa altro che ammutolire il Cristo, azzerarne il grido fiduciosamente inesausto d’amore per il Padre, cioè per Colui che ama e salva coloro che credono senza riserve in un ordine di verità e di valori non riducibile ad ordini etico-conoscitivi semplicemente immanenti ed esclusivamente elaborati dall’intelletto umano. In questo senso, anche le recenti critiche di chiusura in se stessa, di autoreferenzialità, di “nevrosi ecclesiogena”, rivolte alla Chiesa da parte di autorevoli teologi cattolici restano piuttosto generiche e ambigue. Si pensi, per esempio, alle affermazioni di Pierangelo Sequeri, che se la prende con una Chiesa in cui si produce ancora «molta morale, poca comunità, zero cultura» e argomenta in questi termini: «Il vangelo di Gesù apre all’intimità passionale di Dio l’intera creazione e accende la giustizia dell’umana destinazione in tutti coloro che ne desiderano il felice compimento anche per l’altro, senza eccezione di persona. La fede che Gesù cerca fra gli umani, e alla quale espone il destino di Dio, non è riservata ai preti e ai profeti, ai battezzati e ai salvati. La Chiesa è ancora balbettante su questo, e fatica a trovare le parole per dirlo. Non sa ancora bene come “dirlo”, ma nel profondo della sua coscienza sa di “saperlo”. Quando troverà piena scioltezza di parola e normale coerenza di pratiche per la cultura di questa rivelazione, non avrà più bisogno di parlare e di affannarsi così tanto per se stessa. … sono già moltissimi i nostri fratelli e sorelle che vivono con passione – e patiscono con dignità – la persuasione di un Vangelo che ha definitivamente abbattuto per sempre il “muro di divisione”, che separa i destini dell’umano: armando i confini della religione e dell’anti-religione» (P. Sequeri, Cercatori e trovatori. Uscire dalla nevrosi ecclesiogena: raccontiamo la Chiesa com’è, in “Avvenire” del 5 febbraio 2024).

Sono affermazioni formalmente giuste, non certamente inedite e che dovrebbero costituire acquisizioni integranti di una corretta formazione cattolica, ma affermazioni che vengono usate ad esplicazione della critica di fondo per cui la Chiesa cattolica del terzo millennio è ancora troppo moralistica, troppo poco fraterna e comunitaria, troppo arretrata sul piano culturale. Sì, ma in che senso, a quali livelli, in quali ambiti della complessiva famiglia o assemblea ecclesiale, verrebbe rendendosi protagonista di simili misfatti? Per quali motivi la Chiesa esiterebbe ad aprirsi al mondo, agli altri, ai bisognosi, dal momento che la virtù teologale della carità è la virtù principale della fede cristiana? A che cosa, esattamente, essa dovrebbe maggiormente aprirsi e a che cosa invece resterebbe incomprensibilmente arroccata? Anche la cultura cattolica, ritenuta non solo arcaica, edificante, evasiva, consolatoria o puramente devozionale, ma completamente incapace di interagire con i principali movimenti contemporanei di pensiero, ad eccezione beninteso delle istituzioni accademiche cattoliche riconosciute e rispettate in tutto il mondo, che però restano ermeticamente chiuse, sono io a dirlo e a denunciarlo, a preziosi contributi di studio provenienti dalle aree intellettuali cattoliche non accademiche di cui pure è disseminato il mondo cattolico, dovrebbe mostrarsi più accogliente, più ricettiva verso il vasto e articolato universo culturale internazionale di non credenti e non cattolici.

Si tratta di osservazioni, considerazioni, riflessioni, molto frequenti nella storia del cristianesimo, ma in questo caso c’è un’aggravante: quella di non essere sufficientemente chiare, esplicite, esemplificative, persuasive. Con chi ce l’ha esattamente Sequeri? Con i preti, con i vescovi, con i teologi, con i suoi colleghi accademici, con i comuni fedeli, con i cardinali o con il papa? Il problema è questo: che la sua analisi non entra mai nel merito, nello specifico dei problemi denunciati, non fa emergere nomi o particolari comparti o funzioni ministeriali, né allude mai a settori culturali interni all’organizzazione ecclesiastica, in modo da rendere meno indecifrabile il senso razionale del suo ragionamento. Tuttavia, un indizio emerge con chiarezza: la crociata di Sequeri contro il modo attuale di essere della Chiesa resta perfettamente in linea con il magistero di papa Francesco, che cita una sola volta nel suo articolo solo per apprezzarne implicitamente l’opera fin qui svolta. E allora ogni enigma è svelato! Senonché avallare le idee dottrinarie, teologiche e pastorali di Francesco, le sue disinvolte prese di posizione su immigrazione, sessualità e “unioni civili”, su ambientalismo e questione climatica, le sue incaute ma improvvide anche se carezzevoli esternazioni sulla questione femminile, i suoi equivoci interventi sul problema della pace, lo stesso reiterato e cieco autoritarismo che egli esercita nei confronti di tanti cattolici dissidenti a dispetto di qualsivoglia principio di collegialità e di comunione fraterna, significherà forse aprirsi al mondo ma solo per perdersi nel mondo.

Anche il filosofo Roberto Righetto, che si richiama al suddetto articolo di Sequeri, pur evidenziando giustamente «il grave analfabetismo religioso della nostra epoca», che a suo modo di vedere non può essere spiegato solo con la secolarizzazione o, come viene chiamata in gergo sociologico, la post-post-secolarizzazione, e pur rilevando come ormai la cultura cattolica venga percepita generalmente come «una cultura socialmente insignificante», non riesce a coinvolgere nella sua critica proprio alcuni dei principali responsabili della crisi dell’identità cattolica nel mondo: papa Francesco e uno dei suoi fedeli cavalieri serventi come il cardinale Matteo Maria Zuppi, che anzi anche lui cita con devozione (R. Righetto, Perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?, “Avvenire” del 9 marzo 2024). Tuttavia, nel corso dell’articolo, Righetto tocca un nervo scoperto del cattolicesimo contemporaneo. Riferendosi ad un articolo del giornalista Antonio Polito, egli scrive infatti: «Il cristianesimo ha parole decisive sulla morte e sulla risurrezione, sul senso della vita e sulla vita eterna: perché non le dice più – si chiedeva il giornalista, da laico – in un mondo che sembra non aspettare altro? Ecco, della Chiesa diremmo che c’è questo innanzitutto da salvare, oltre che l’impegno educativo e caritativo, che sono caratteri dominanti ma non possono essere esclusivi» (Ivi).

Ecco, viene appunto da chiedersi, quando mai il papa e Zuppi parlano di risurrezione dei morti, di vita eterna, di immortalità dei corpi e delle anime, di giudizio finale, di salvezza e dannazione eterne? Perché, nell’odierna cultura cattolica, non c’è quasi mai traccia né di questo tema della risurrezione, di questo che è il tema assolutamente centrale della fede cristiana, né dei temi ad esso strettamente connessi? Dice comunque bene Righetto allorché osserva che lo sforzo della cultura cattolica dovrebbe essere quello di riportare alla luce questi temi decisivi della religiosità cristiano-cattolica e di richiamarli in modi pertinenti nel confronto con le correnti laiciste della cultura contemporanea: «Che la sfida per i credenti oggi sia anche e soprattutto culturale diviene sempre più evidente dinanzi ai nuovi fondamentalismi religiosi, alle forme volgari, violente e disumane del nichilismo contemporaneo che colpisce le donne e i giovani, alle provocazioni della cancel culture, all’invasione della tecnoscienza nella vita quotidiana, allo stravolgimento del concetto di natura, ai rischi connessi all’intelligenza artificiale» (Ivi), che però sono tutti temi su cui solo occasionalmente, lateralmente o parzialmente, il filone cattolico di pensiero che fa capo a Bergoglio appare in grado di intervenire con argomenti sensati ed esaustivi e, d’altra parte, mancando personalità culturali in grado di imprimere un significativo impulso di radicale e originale rinnovamento critico alla forma mentis prevalente nelle forme più evolute e accreditate dell’intellettualità cattolica, ci si chiede quanto realistico possa essere l’augurio per «la Chiesa italiana tutta … di farsi promotrice di un’iniziativa di largo respiro per superare l’attuale grave stato di stagnazione della cultura cattolica. Con l’avvertenza di evitare personalismi e voci uniche soliste, ma piuttosto cercando un lavoro di rete, di comunione e di alleanze. Senza invidie, gelosie o piccinerie» (Ivi).

Magari ci fosse qualche voce solista capace di smuovere le acque troppo spesso malsane e stantìe di un cattolicesimo infedele, acquiescente e conformista, velleitario e codardo, e soprattutto intento ad adattare fraudolentemente, in modo sempre più capillare, i regali pensieri biblici di Dio a pensieri umani di dozzinale valore spirituale. Che il papa regnante abbia espresso, in relazione all’odierno «sistema di potere economico e produttivo», il convincimento che il cristianesimo debba proporre una cultura volta «a combattere l’omologazione imperante che dà vita a nuove colonizzazioni ideologiche e al contempo a unire la conoscenza con l’avventura della libertà» (Ivi), non comporta ancora un passo decisivo verso una cultura cattolica finalizzata a trasformare radicalmente il cuore dell’uomo e la realtà del mondo in funzione di una vita integrale che resta sempre, irriducibilmente, di là da venire e da conquistare (Righetto fa riferimento al discorso tenuto dal papa presso l’Università di Budapest il 30 aprile 2023).

Fortunatamente, non è mancato chi, pur immettendosi nel solco del dibattito promosso dagli interventi di Sequeri e Righetto, ritenuti meritevoli di approfondimento, in realtà sia venuto alzando molto il livello qualitativo dell’analisi. Ci si riferisce ad un insigne studioso di letteratura italiana e filologo come Carlo Ossola, il quale muove dalla constatazione che la società globalizzata è priva di paradigmi universali di pensiero e di vita, che proprio il cattolicesimo avrebbe il compito di fornire costantemente nel frenetico e tumultuoso divenire storico dell’umanità, ma che il cattolicesimo dominante appare sempre più esitante nel rilanciare con la dovuta chiarezza e con sufficiente energia morale (C. Ossola, Cattolici e cultura, serve ricominciare dalla Bibbia, in “Avvenire” del 17 marzo 2024. In questo caso, né Bergoglio, né il suo entourage intellettuale e teologico, vengono minimamente nominati). Perché? Perché, quando la Bibbia non è più il centro del sapere cattolico ma comincia a trovarvisi marginalizzata, l’annuncio evangelico del cattolicesimo tende a regredire verso posizioni intellettualistiche, culturalistiche, e a perdere lo slancio spirituale e il valore profetico che lo caratterizzano e senza i quali non è più annuncio di salvezza.

Che fine ha fatto nella formazione e nel pensiero cattolici quella Bibbia che «ha nutrito per secoli le Lettere, le Arti, la Musica; oggi le chiese, che pure custodiscono capolavori, sono diventate mute per chi vi entra; gli affreschi erano la Biblia pauperum e ora sono il trastullo dei turisti. La Bibbia non solo non è letta, ma è sempre meno insegnata; provate ad informarvi dai pochi docenti ormai rimasti di greco neo-testamentario nella Facoltà pontificie di Roma: il quadro è scoraggiante (e forse irreversibile). Da ciò le traduzioni approssimative nelle lingue volgari, gli errori su passi pure fondamentali. Nessun “buon annuncio” perché non è l’Evangelo (il “buon annuncio” appunto) a scavare la nostra parola» (Ivi). Come potrebbe influire sulla mentalità, sui costumi, sui modelli etici e sulle pratiche economiche, della popolazione mondiale, un cattolicesimo le cui chiese risultino ormai prive di acqua benedetta, di grandi organi da cui vengano emesse le note e le musiche solenni di un tempo, di messe affollate e composte, di affascinanti libri e racconti apologetici? Scrive sconsolato Ossola: «Abbiamo pure rinunciato all’Apocalisse, alla sete di rivelazione del tempo ultimo: là dove i beati – poiché “così passa la figura di questo mondo” (Praeterit figura huius mundi, 1 Corinzi) – si ritroveranno nella plenitudine della luce e della gloria: “Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando” (Purgatorio, XXX, 13-15). Siamo rimasti aderenti alla descrizione dell’oggi, al vegliare sull’oggi, nelle corsie convulse del disagio sociale, anziché precedere l’avvenire curando i semi d’eterno che l’oggi contiene, ma che vanno commisurati con l’universale: c’è molto da studiare di Bibbia e di classici per convocare, con Dante e Michelangelo, il tempo che ci è promesso, “Teste David cum Sibylla”» (Ivi).

Già, “Teste David cum Sibylla”, cioè, come annunciato da David e dalla Sibilla, il tempo o il giorno dell’ira (dies irae, composizione poetica attribuita a Tommaso da Celano), quel giorno in cui «il mondo sarà ridotto in cenere», quel «giorno della resa dei conti» (Ivi). Questo dovrebbe indurre almeno i vicari di Cristo in terra a non sentirsi dei monarchi assoluti liberi di fare quel che vogliono, anche perché storicamente persino i papi più indegni non hanno mai preteso di esercitare una personale e assoluta sovranità sulla Chiesa loro affidata, ben consapevoli del fatto che il compito primario del papa non è quello di cambiare l’insegnamento evangelico e dottrinario-magisteriale della Chiesa stessa, ma, al contrario, quello di conservarlo e custodirlo gelosamente.

Peraltro, Ossola, autore di una significativa prefazione al testo di una celebre conferenza del 1943 di W. Jaeger (Umanesimo e teologia, Milano, Vita e Pensiero, 2023),  non sembra essere molto benevolo verso quell’altra smancerìa cattolica di indiscriminato irenismo filosofico e religioso motivato dalla tesi per cui l’amore misericordioso di Dio varrebbe per tutti nello stesso modo. Lo stesso umanesimo, che costituisce il cuore della cultura occidentale, non nasce, come dimostra il testo di Jaeger, né agnostico, né scettico, ma pensosamente attraversato dall’ansiosa apertura al senso della trascendenza di matrice cristiana. Quella tesi è vera nei limiti in cui si ipotizzi che ognuno si dia da fare con la stessa sincerità e lo stesso impegno per convertire la propria vita alla verità e al bene, ma non certo in modo incondizionato, quasi che Dio, biblicamente ed evangelicamente parlando, non faccia alcuna differenza tra chi lo cerca in modo sincero e appassionato e chi non si preoccupa minimamente di cercarlo. Un assunto del genere è falso, non è assolutamente fondato su una corretta e onesta esegesi biblico-evangelica.

La verità è che il Dio biblico della giustizia e dell’amore è sempre in attesa che tutti i suoi figli lo riconoscano, restino in lui o a lui facciano ritorno, si pentano di continuo delle proprie colpe per convertirsi non una volta ma sempre ad una vita di pensieri virtuosi e di buone opere, e la sua misericordia sarà concessa principalmente, se non esclusivamente, a coloro che lo temono, che avvertano quanto meno il senso affascinante ed inquietante ad un tempo del mistero nell’orizzonte del proprio vissuto personale (Come recita il salmo 103, 8-18, la misericordia di Dio «è potente», è particolarmente efficace dal punto di vista salvifico, «su quelli che lo temono»: «come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono»; «l’amore del Signore è da sempre, per sempre su quelli che lo temono, e la sua giustizia per i figli dei figli, per quelli che custodiscono la sua alleanza e ricordano i suoi precetti per osservarli»).

Quindi, il cattolico non è tenuto affatto ad indistinti, inconsapevoli e irresponsabili abbracci ecumenici che, proprio perché tali, potrebbero rivelarsi letali, e soprattutto non è legittimato ad escludere dal suo più elaborato sapere il sapere stesso di Dio, ovvero quel sapere divino che resta fondamentalmente, anche se non unicamente, consegnato alle Scritture e alla Rivelazione: quante volte l’uomo, nella sua storia, è stato tentato di relegare il suo sapere, le forme possibili della conoscenza e della verità, del progresso e del benessere, al di qua delle colonne d’Ercole? E quante volte ha dovuto oltrepassarle per rendersi conto che conoscenza e verità, progresso e benessere, avessero margini infinitamente più ampi di quelli dogmaticamente determinati dagli uomini? Perché, allora, si dovrebbe ritenere legittimo e rispettabile il punto di vista di quanti, cattolici e credenti compresi, non ritengano di dover sostenere le proprie idee, le proprie convinzioni, i propri atti di fede, con una permanente e intelligente interrogazione critica e una mai sopìta e umilissima attività di coscienza? Questo significa temere il Signore: porsi continuamente il problema della qualità della propria fede in Dio, per quanto riguarda i credenti e gli stessi cattolici, e porsi almeno il problema oggettivamente non eludibile di Dio, del Dio biblico e del Dio evangelico, per quanto riguarda atei o non credenti. Il cosiddetto politeismo dei valori, che caratterizza la civiltà contemporanea, è certo un dato di fatto, ma, come ogni dato di fatto, non è detto che sia immodificabile e non suscettibile di imprevedibili e sorprendenti processi evolutivi.

Il cristianesimo non può rinunciare, per motivi storici, culturali e spirituali da cui ormai nessun’altra possibile forma di civiltà umana potrà prescindere, ad assolvere con autorevolezza e competenza la sua universalizzante funzione veritativa e caritativa, critico-educativa e profetico-contestativa, in un mondo in cui ognuno è portato a sentirsi spesso pago di piccole o grandi verità senza fondamento e senza conseguenze determinanti per il destino personale e collettivo.

   Francesco di Maria

 

 

 

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