Aleksandra Kollontaj tra marxismo “irregolare” e femminismo militante

Che il marxismo abbia contribuito alla storia del socialismo e alla storia del femminismo, non c’è dubbio, come d’altra parte ha contribuito, sotto aspetti non irrilevanti, alla storia sociale e culturale del genere umano, ma il problema è di riconoscere, contrariamente a quanto sembra spesso accadere  nel relativo dibattito, che, nello specifico, la storia del socialismo e quella del femminismo sono storie diverse, spesso antitetiche, in quanto la prima è il portato di una teoria della rivoluzione pensata e proposta nel nome e per conto di un’umanità e di una razionalità “liberate” e “disalienate” in cui uomini e donne si trovino perfettamente accomunati sia pure sulla base di una naturale relazione dialettica peraltro intercorrente tra tutti gli esseri umani, mentre la seconda viene sviluppandosi non solo e non tanto come espressione di un antagonismo economico e socio-culturale del genere femminile, quanto soprattutto come espressione di un antagonismo femminile di natura psicologica e sessuale nei confronti del genere maschile o, comunque, alternativo a modelli socio-culturali di tipo, per così dire, “tradizionali”1. Ciò non toglie che, almeno nella prima metà del ‘900, alcune grandi personalità femminili come Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, Inessa Armand, Sylvia Pankhurst, e appunto Aleksandra Kollontaj, si sforzassero lealmente, sia pure con esiti diversi da caso a caso, di rendere funzionale il loro femminismo, formalmente diverso da forme di femminismo liberale, ad un’idea di comunismo non afflitto da forme latenti di rivendicazionismo e conflittualità di genere.

Che siano riuscite nel loro intento, e tutte nella stessa misura, è da discutere, ma che una forte matrice marxista, piuttosto che genericamente rivendicativa e libertaria, fosse alla base dei loro programmi radicalmente emancipativi, è inoppugnabile. Qui ci si vuole occupare del caso di Aleksandra Kollontaj da un punto di vista non marxista ma cristiano e tuttavia non pregiudizialmente chiuso all’apporto teorico-pratico della concezione storico-materialistica elaborata da Marx.

Per capire l’importanza culturale e politica di un’intellettuale marxista come Aleksandra Kollontaj, basta pensare all’immane riflessione critica da lei dedicata, negli anni antecedenti e successivi della rivoluzione d’ottobre, alla causa della duplice emancipazione economica e sessuale delle donne nel quadro di un più ampio impegno teorico sui temi del lavoro, della famiglia e dello Stato, nonché al fatto che le sue riforme, al tempo del nascituro Stato sovietico, avrebbero modificato strutture millenarie di subordinazione femminile2. Un elemento imprescindibile di comprensione della specificità del suo femminismo resta legato all’affermazione per cui «quanto più viene generalizzandosi il lavoro salariato o retribuito della donna, tanto più la famiglia è destinata a sparire»3. Come dire che la famiglia, non un certo tipo di famiglia ma la famiglia monogamica come tale e quindi considerata al di là di qualsiasi caratterizzazione economico-sociale, per la donna non era vista come opportunità di realizzazione umana e sociale ma solo come  luogo, stato e strumento di profonda e mortificante alienazione morale e sociale. E’, a mio avviso, uno dei punti più critici della filosofia femminista di Kollontaj. In una relazione che ella avrebbe letto al congresso panrusso degli operai e dei contadini, svoltosi tra il 16 e il 21 novembre del 1918 e intitolata “La famiglia e lo Stato comunista”, poneva la domanda di fondo: «La famiglia sarà mantenuta nello stato comunista? sarà esattamente lo stessa di oggi? Questa è una domanda che tormenta le donne della classe operaia e riguarda anche i loro simili», e la risposta è quella sopra riportata, con la precisazione non solo di carattere sociologico ma di evidente natura ideologica per cui ormai il tradizionale lavoro domestico della donna non sarebbe più «necessario allo Stato dal punto di vista dell’economia nazionale. Questo lavoro non crea nuovi valori, non contribuisce alla prosperità del Paese», per la semplice ragione che lo Stato comunista si sarebbe fatto carico di tutti i servizi sociali, ivi compresi quelli appartenuti per millenni al nucleo familiare monogamico come il provvedere al mangiare, alla pulizia e all’igiene, ai lavori di lavanderia e sartoria, all’istruzione e alla formazione culturale, ad ogni genere di assistenza, a cominciare dall’assistenza da prestare e all’educazione da impartire ai bambini, ai propri figli. Non dunque più una famiglia circoscritta, privata, chiusa alla vita sociale, ma una unica, grande, universale famiglia di Stato: questa era, infatti, l’essenza del comunismo. La conclusione non era affatto sconsolata ma agognata: «lo Stato comunista non può farci nulla, la causa sono le nuove condizioni di vita. La famiglia cessa di essere necessaria allo Stato, come in passato; al contrario, distrae inutilmente i lavoratori da lavori più produttivi e altrimenti seri. … non più schiavitù coniugale .. ma unione libera degli amanti e dei compagni», nella quale «vedremo allo stesso tempo scomparire quest’altra vergognosa piaga, quest’altro terribile male che disonora l’umanità e che colpisce il lavoratore affamato: la prostituzione. … Le donne della classe operaia non si angosciano nel vedere l’attuale famiglia condannata a scomparire». Le madri-operaie, peraltro, dovranno imparare a non fare più dofferenza tra i propri figli e quelli degli altri, e dovrà «ricordarsi che esistono solo i nostri figli, quelli della città comunista, comuni a tutti i lavoratori!»! L’ultima frase di quella relazione era manifestazione di un infantilismo regressivo, tipico della mentalità di molti rivoluzionari marxisti “irregolari” di quel periodo: «le bandiere rosse della rivoluzione sociale esposte, dopo la Russia, da altri Paesi del mondo, ci annunciano già l’mminente avvento del paradiso terrestre, al quale l’umanità aspira da secoli».

  Poiché gran parte del presente scritto sarà incentrato sugli aspetti più ambigui e problematici del suo femminismo politico e, in qualche misura, sul problema del rapporto tra femminismo e marxismo nel suo pensiero, ritengo opportuno iniziare questo scritto con la citazione di una delle interpretazioni più favorevoli che mi siano capitate fino ad ora di leggere sulla personalità e sull’opera di Aleksandra Kollontaj: «Da buona socialista, era convinta della necessità di creare le condizioni materiali per la libertà della singola donna e nei pochi mesi da ministra agì in tale direzione. Lottò contro la prostituzione – dilagante nella Russia del suo tempo – e per il sostegno alle donne incinte e alle giovani madri, per gli asili nido gratuiti, per l’esclusione delle madri dal turno di notte in fabbrica, per la parità di salario fra maschi e femmine, per il congedo retribuito di maternità, per la legalizzazione del divorzio e dell’aborto. Credeva nel diritto di ciascuna persona a vivere fino in fondo le proprie emozioni e i propri slanci passionali, imbrigliati da strutture familiari oppressive, spesso disumane nei confronti delle donne.

Arrivò a proporre forme di vita comunitaria nelle quali stemperare i ruoli familiari, in modo che la cura dei figli non fosse più un obbligo e un peso per le madri, ma una funzione condivisa dai maschi e dal gruppo più allargato. Concezioni molto avanzate, anche per un paese che si credeva sulla via di rifondare la condizione umana, oltre che di cambiare le strutture sociali e politiche ereditate dal passato zarista. Alla fine furono i suoi stessi compagni a fermare Aleksandra Kollontaj. Donna intensa, anticonformista, poliglotta (parlava undici lingue), grande oratrice, amatissima in seno al popolo e infaticabile nell’azione, Aleksandra ebbe il torto di ritenere che la questione femminile andasse affrontata subito, con soluzioni immediate, senza aspettare il pieno dispiegamento della rivoluzione socialista, quando tutti i tasselli – secondo Lenin e gli altri leader bolscevichi – sarebbero andati spontaneamente al loro posto.

Fu Lenin in persona a bloccare i suoi slanci, sempre più infastidito dalla teoria del “libero amore”, nella quale scorgeva, “un declino borghese e un rischio per la salute, una seria minaccia per la rivoluzione”. In fondo Lenin, che pure aveva avuto come amante Inessa Armand, amica e compagna di lotte della Kollontaj, non si era mai staccato dalla mentalità maschile del suo tempo, con l’uomo che cerca una tranquilla vita di coppia, senza sussulti e senza rischi, salvo “arricchirla” con relazioni extraconiugali più o meno clandestine. Né l’establishment bolscevico si discostò da questo cliché piccolo borghese, tanto che la Kollontaj veniva spesso derisa e compatita per le sue posizioni e i suoi comportamenti da “donna libera“, specie quando si innamorò di Pavel Dybenko, dirigente rivoluzionario di origine contadina, più giovane di lei di 17 anni»4.

Ora, il personaggio in questione è effettivamente una eminente intellettuale bolscevica che avrebbe avuto un posto di grande rilievo nella storia della Russia sovietica e per certi aspetti, sia pure in modo postumo, nella storia di tutto il mondo civile europeo e occidentale. Di origine aristocratica, avrebbe ben presto ripudiato il suo ambiente sociale abbracciando la causa della rivoluzione e diventando, subito dopo la rivoluzione d’ottobre, al fianco di Lenin, «commissaria del popolo» (cioè ministra, la prima donna al mondo a diventare membro governativo) per l’assistenza sociale, decretando nel breve periodo del suo incarico la distribuzione ai contadini delle terre appartenenti ai monasteri, l’istituzione degli asili nido statali e l’assistenza di maternità, benché Lenin si mostrasse molto insofferente verso le sue idee libertarie in ambito sessuale5. Proprio questa sarebbe sempre stata una caratteristica caratteriale e culturale di Kollontai, fautrice del libero amore, protagonista di numerose e spregiudicate vicende erotico-sentimentali e molto critica nei confronti del matrimonio tradizionale che in una società come quella russa, fortemente repressiva e fondata sulla ineguaglianza dei sessi, non poteva a suo giudizio che aggravare lo sfruttamento in senso lato della donna, mentre d’altra parte la liberazione innanzitutto sessuale della donna non poteva che porsi quale necessaria premessa della realizzazione di una libera e non autoritaria società socialista6 .

Ella, così, sarebbe stata sempre, in pari tempo, comunista e femminista, comunista in quanto femminista, forse soprattutto, e femminista in quanto comunista, venendo chiamata poi, sotto il governo di Stalin, a ricoprire un importante ruolo diplomatico in alcuni paesi europei e anche, successivamente, in Messico: ruolo che, negli ultimi anni della sua carriera, le sarebbe stato riconosciuto con l’esplicita qualifica di ambasciatrice dell’Unione Sovietica. Carrère d’Encausse la descrive come una donna libera, intelligente e colta, immensamente carismatica e vitale, molto coraggiosa ma sempre profondamente umana. Forse avrebbe potuto aggiungere o precisare libera anche perché di liberi costumi, intelligente e coraggiosa ma anche scaltra e opportunista (“carrierista” sarebbe stata chiamata da chi, in un primo tempo, l’aveva conosciuta intimamente come l’operaio-frazionista Šljapnikov), umana certamente ma anche responsabile di aver contribuito a realizzare uno dei più dispotici e sanguinari sistemi politici del ‘900. Si sarebbe molto impegnata ma molto ambiguamente per l’emancipazione femminile, per liberare la donna soprattutto dall’assoggettamento alle voglie sessuali maschili, senza tuttavia disdegnare di vivere molte storie sessualmente intense per soddisfare principalmente le sue personali voglie sessuali. Un’affermazione del genere non sarà politicamente corretta, ma rispecchia comunque fedelmente la sua biografia erotico-sentimentale, cui chiunque può facilmente accedere, anche se ovviamente Kollontaj critica severamente la prostituzione, non solo per i rischi igienico-sanitari che essa comporta sia a livello individuale che a livello sociale ma anche come luogo di mercificazione del corpo e del piacere sessuale femminili, e quindi come una realtà sociale che il socialismo non può tollerare7.

Il fatto che molti suoi compagni di partito, anche sul principale organo politico d’informazione di quest’ultimo ovvero la Pravda, ne denunciassero i continui attacchi alla morale sessuale tradizionale e alla vocazione naturale della donna alla maternità, pur motivati dall’intenzione di finalizzarli a favorire una piena realizzazione professionale e creativa delle donne, non era necessariamente o esclusivamente una manifestazione di maschilismo e di autoritarismo patriarcale, ma la spia di una degradazione morale che si riteneva inaccettabile non già per motivi discriminatori di natura psicologica e ideologica ma per oggettivi motivi etico-politici che avrebbero potuto introdurre nella ancora fragile società comunista russa lo stesso clima licenzioso e perverso, individualista ed edonista, della decadente società borghese occidentale. Non c’è dubbio che il principale aspetto palpabilmente emergente del suo femminismo fosse il gusto edonistico, la predilezione per un godimento immediato. Lo si può solo irragionevolmente negare visto che dai suoi scritti più esplicitamente dedicati alla sessualità femminile trasuda spesso un sensualismo totalmente disinibito e incontrollato8 .  

All’inflessibile ortodossia che le si poteva quasi sempre riconoscere sul piano ideologico e politico, si contrapponeva una particolare indulgenza in materia sentimentale e sessuale, tanto da far sorgere talvolta il sospetto che il suo femminismo, lungi dall’amalgamarsi e dall’essere organico al suo credo comunista, fosse piuttosto lo scopo principale, non l’unico ma quello prevalente, della sua pur ardente fede comunista. Certo, i marxisti in generale non consideravano l’amore come qualcosa di eterno e immutabile ma come un sentimento potente e tuttavia sempre nuovo e diverso perché anch’esso soggetto a trasformazioni storico-culturali radicali, e sapevano che la tendenza ad eternizzare l’amore, attribuendovi significati statici ed univoci, era il modo caratteristico della cultura e dell’ideologia classiste occidentali di strutturare la società a beneficio delle classi dominanti, donde i criteri per nulla imparziali e universali con cui si veniva a stabilire cosa fosse moralmente legittimo o sconveniente dal punto di vista sentimentale e sessuale e, più in generale, dal punto di vista etico e sociale.

Non avrebbe mai smesso di rivendicare i diritti insopprimibili di un amore sessuale «multiforme e multicorde» e comprensivo di inesausta creatività erotica ed immaginifica, sempre muovendo dal presupposto che le relazioni tra i sessi sono parte integrante delle “regole della vita” e quindi anche della nuova morale e della nuova cultura comunista, che insieme esprimono «lo spirito del tempo», anche se nei momenti più acuti dello scontro tra rivoluzione e reazione le energie di tutti i rivoluzionari non potessero che essere incanalate verso l’obiettivo principale: la vittoria contro le forze della reazione. Ma, scriveva in un suo articolo del 1923  l’intellettuale russa, «ora che in Russia il movimento rivoluzionario ha vinto e si è consolidato, ora che l’uomo non è più interamente assorbito dall’atmosfera del combattimento rivoluzionario, il tenero Eros alato, relegato provvisoriamente fra gli accessori, ricomincia a far valere i suoi diritti», e si domandava retoricamente e polemicamente se questo ritorno d’interesse, anzi se questo inedito interesse verso la questione sessuale, dovesse considerarsi come «un sintomo di decadimento dell’opera rivoluzionaria»9 . Nient’affatto, era la risposta, in quanto «l’ideologia della classe operaia deve tener conto dell’importanza dell’emozione d’amore in quanto fattore che può essere utilizzato (al pari di qualsiasi altro fenomeno psico-sociologico) per il bene della collettività», in quanto cioè «principio di coesione sociale»10.

Secondo Kollontaj, l’amore al di fuori del matrimonio, lungi dal doversi ritenere riprovevole, era particolarmente fecondo e arricchente nei confronti dell’umanità socialista e sovietica, e potentemente antagonistico nei confronti del capitalismo, del cinico individualismo, del tornaconto personale e della brama di possesso ad esso connessi. Ella, tuttavia, si sbagliava, perché non era l’amore come eros ma l’amore come carità che avrebbe potuto realmente rafforzare i vincoli di fraterna solidarietà del popolo russo. La sua era una pietosa illusione, cui la storia, con Stalin e nel suo silenzio più assoluto di rivoluzionaria marxista ormai diventata prestigiosa diplomatica internazionale, non avrebbe dato neppure il tempo di materializzarsi nonostante un diffusissimo bisogno popolare di amore nelle sue forme più varie e significative, e incaricandosi di demolirla con un carico impressionante, proprio in Unione Sovietica, di insaziabile sete di potere, di persecuzioni sanguinarie e di feroci atti repressivi. Altro che eros come integrazione del senso proletario di umana compassione verso bisognosi e sofferenti, come incremento qualitativo dell’emancipazione comunista! D’altra parte, ella si sarebbe ben presto rassegnata ad accettare il duro realismo politico sovietico, parlando fatalisticamente della «ruota della storia», espressione deterministica del marxismo russo di quegli anni, con la quale si intendeva dire che anche le pagine meno esaltanti e moralmente contraddittorie della prassi politica sovietica venivano richieste dall’oggettivo processo storico di sviluppo e di compimento della civiltà comunista.

Ma la verità è che nella cultura politica bolscevica, il femminismo viscerale teorizzato da Kollontaj, e quindi il libero amore, la totale disinibizione sessuale femminile, la pubblica celebrazione del senso erotico dell’esistenza, sarebbero stati sempre percepiti come pericolose idee oppiacee e negatrici della moralità comunista, da tenere ben imbrigliate e da rendere poco accessibili agli appetiti sessuali e ai desideri pulsionali eventualmente radicati, sia pure in forme dormienti, nelle masse. D’altra parte, è vero in generale, come l’esperienza storica dimostra largamente, che il sesso, al di là di qualunque sistema politico e ideologico di riferimento, produce effetti amalgamanti, aggreganti, unificanti, non superiori a quelli divisivi, dissociativi, depressivi, distruttivi, e che esso non genera necessariamente amore, costituendone solo un mezzo, ma può generare anche sentimenti altrettanto forti di discordia e odio.

L’epoca stalinista avrebbe rappresentato, di fatto, un’epoca antitetica alle aspettative e alla prospettiva di emancipazione sessuale delle donne, tanto cara a Kollontaj: certo, negli anni venti, si era molto parlato, nonostante i mugugni del gruppo dirigente bolscevico, di coppia aperta, di liberalizzazione sessuale e più specificamente femminile, di legittima omosessualità. Ma, come si è detto, tutto ciò si sarebbe rivelato solo un’utopia tragicamente destinata a sfociare in un vertiginoso aumento degli aborti e in una radicalizzazione anzi della mentalità maschilista russa. Sarebbe allora accaduto, intorno alla metà degli anni venti, che l’Unione Sovietica potesse diventare il Paese europeo più avanzato in materia di liberalizzazione sessuale. Se però Stalin decideva poco dopo di rifiutare quel modello di civiltà basato su una libertà sessuale più che altro indicativa di un costume sessuale incontrollato, di disordine morale, di perversione dello spirito civico nazionale, non era per un sussulto di tradizionalismo patriarcale e di autoritarismo antifemminile, non era per rinnegare gli ideali libertari della rivoluzione d’ottobre, ma semplicemente perché aveva dovuto prendere realisticamente atto del carattere fallimentare di quel modello, delle sue distruttive implicazioni sociali. Stalin avvertiva la necessità economica, sociale, educativa di un ripristino in grande stile dei vecchi e compatti nuclei familiari e della restituzione alla donna di un ruolo assolutamente necessario allo sviluppo ordinato della società comunista: quel matriarcato slavo di antica concezione che così prezioso si era dimostrato anche in precedenti epoche di crisi. Non doveva essere solo lo Stato a preoccuparsi dell’educazione dei bambini e dei ragazzi (con l’istituzione di asili appunti statali), ma anche la donna avrebbe dovuto farsi carico dell’educazione dei figli, la donna che, per essere utile alla patria russa, doveva certo essere coinvolta nel lavoro e nella costruzione del socialismo ma, al tempo stesso e soprattutto, si sarebbe dovuta dedicare alla cura della prole11.

Restava tuttavia interessante e indicativa di un notevole acume critico l’analisi storico-fenomenologica dell’amore, proposta dalla teorica marxista e femminista sulla falsariga di quella già formulata da Engels nel 1884 sulla famiglia, sul diritto di proprietà e sullo Stato12. Nei tempi antichi, ella spiegava nella lettera sopra indicata, l’amore era incluso tra le attività ludiche degli esseri umani, non rappresentava una virtù sociale, al pari, per esempio, dell’amicizia, dell’offerta della propria vita per il bene di un amico o dei propri concittadini, che già nel feudalesimo comincia a declinare come valore e finisce per scomparire con l’avvento della società borghese, in cui essendo questa «fondata sull’individualismo, su una concorrenza ed una competizione esasperate, l’amicizia, come fattore morale, non trova posto»13. Tuttavia, il sentimento amoroso, nel Medioevo, non era socialmente emarginato ma, anzi, fu proprio allora che cominciò ad avere diritto di cittadinanza nella vita sociale. Spiega ed esemplifica Kollontaj: «Non era tanto l’organizzazione dell’esercito che decideva allora delle sorti di una battaglia, quanto le qualità individuali dei contendenti. Innamorato di una “dama del cuore” inaccessibile, il cavaliere compiva più facilmente “miracoli d’ardimento”, si lanciava volentieri nei duelli, offriva in olocausto la propria vita alla sua bella. Il cavaliere innamorato era animato dal desiderio di “distinguersi”, in modo da attirare su di sé i favori della donna amata»14, ma precisa anche che «l’amore», e non certo il semplice  amore coniugale, «l’amore era preso in considerazione, come fattore sociale, unicamente quando si trattava di un cavaliere innamorato della “donna di un altro”, il che lo obbligava ad andare a battersi o a compiere nobili gesta. Più la donna era inaccessibile, più il cavaliere doveva impegnarsi per ottenerne i favori, e più era spinto di conseguenza a sviluppare in sé le qualità e le virtù apprezzate dalla sua casta (ardimento, resistenza fisica, perseveranza, coraggio, eccetera)»15.

Ma, beninteso, doveva pur sempre trattarsi di un sentimento d’amore non già carnale, sessuale, bensì platonico, spirituale, in quanto la morale feudale ammetteva il culto interiore del sentimento amoroso ma non la sua traduzione in un concreto e reiterato rapporto sessuale: «di qui la coesistenza di un ideale di ascetismo (continenza sessuale) con l’elevazione dell’amore al rango di virtù morale. Nello zelo impiegato per purificare l’amore da ogni aspetto carnale, da ogni “peccato”, per trasformarlo in sentimento astratto, completamente avulso dalla sua base biologica, i cavalieri giungevano alle più mostruose aberrazioni: sceglievano come “dama del cuore” una donna che non avevano mai visto; fra le amate c’era perfino la “Vergine Maria, madre di Dio”… non si poteva certo andare più lontano»16. Ma, naturalmente, l’esito di tale processo di idealizzazione socio-culturale, al di là dei nobili sentimenti d’amore coltivati per dame e damigelle delle grandi famiglie aristocratiche, non poteva essere se non lo sprigionarsi di violente e rozze forme di accoppiamento sessuale o di vero e proprio stupro nei confronti di donne che non fossero oggetto dei casti e nobili sentimenti cavallereschi, per cui il cavaliere, pur ardentemente ma castamente innamorato della moglie di un suo rivale di pari rango, poteva tranquillamente soddisfare le sue più basse pulsioni sessuali con le figlie dei contadini o le giovani donne borghesi. Lo stesso soddisfacimento sessuale potevano ottenere le gentili spose dei cavalieri con paggi e menestrelli.

Le cose sarebbero cambiate con l’avvento della società borghese, nel senso che del sentimento d’amore sarebbe stata recuperata, oltre ogni sua possibile idealizzazione, la base biologica nella sua interezza, come unità inscindibile di anima e corpo, anche se questa ritrovata unità di sessualità e trasporto psichico-sentimentale sarebbe stato posto istituzionalmente alla base del matrimonio, al fine di teorizzare che l’amore nella sua interezza dovesse legittimamente consumarsi all’interno del matrimonio e non più al di fuori di esso. Ormai l’autorità della Chiesa aveva preso il sopravvento sulle tradizioni del casato o del clan e il matrimonio diventava, in ogni senso, indissolubile, per cui le strutture portanti della famiglia come della stessa società borghese non consistevano più nel possesso condiviso delle ricchezze di una stirpe, di un casato o di un clan, ma nell’accumulazione di capitale. Mentre «il mondo feudale divideva l’amore in mero atto sessuale da un lato (nel matrimonio o con delle concubine) e in amore “nobile”, platonico dall’altro (l’amore del cavaliere per la sua “dama del cuore”, … l’ideale morale della borghesia includeva nel concetto di amore tanto la naturale attrazione tra i sessi quanto l’attaccamento tra i cuori. L’ideale feudale separava l’amore dal matrimonio: la borghesia li riuniva, rendendo amore e matrimonio concetti sinonimi»17. Il che, naturalmente, non avrebbe impedito che la borghesia spesso contraddicesse praticamente il nuovo quadro etico-normativo e che l’ipocrisia fosse ancora una volta l’elemento maggiormente distintivo di questa ulteriore fase storica di sviluppo del costume europeo.

In effetti, l’amore avrebbe cominciato ad uscire sistematicamente «dai limiti che gli imponeva lo stretto letto dei rapporti coniugali legittimi, per espandersi talvolta sotto forma di libere unioni, talaltra sotto forma di adulterio, condannato dalla morale borghese ma diffuso nella pratica». Ora, osservava Kollontaj, «l’ideale borghese dell’amore non risponde ai bisogni dello strato più numeroso della popolazione: la classe operaia. Non corrisponde nemmeno al modo di vita dell’ “intellighentsija” lavoratrice. Da qui nasce, nei paesi a capitalismo altamente sviluppato, l’interesse per i problemi del sesso e dell’amore, la ricerca della chiave che permetterebbe di risolvere questo vecchio e crudele enigma: come costruire i rapporti tra i sessi affinché, pur elevando il grado di felicità, non entrino in contraddizione con gli interessi della collettività?». E arrivava al punto in questi termini: «È una questione che si pone nuovamente, al giorno d’oggi, alla gioventù lavoratrice della Russia sovietica. … l’amore non è affatto un “affare individuale”, come si potrebbe credere a prima vista. L’amore è un prezioso fattore psico-sociale sul quale l’umanità ha istintivamente posto l’accento, nell’interesse della collettività, lungo tutto l’arco della sua storia. Spetta all’umanità lavoratrice, munita del metodo scientifico del marxismo e grazie anche all’esperienza del passato, risolvere la questione: qual è il posto che l’umanità nuova deve riservare all’amore all’interno dei rapporti sociali? Quale deve essere, di conseguenza, l’ideale d’amore corrispondente agli interessi della classe in lotta per la propria affermazione?»18.

Poiché la società comunista è fondata sul principio di solidarietà e di cooperazione, è la risposta, ovvero la coscienza della comunanza non solo degli interessi materiali ma anche dei vincoli morali intercorrenti tra gli appartenenti al collettivo, essa esige un notevole “potenziale d’amore”, e quindi sentimenti di simpatia, compassione, rispetto, insomma una capacità cosí elevata di amare in senso lato, senza cui la cooperazione sociale sarebbe impossibile o molto mediocre19. Che l’amore costituisca una potente forza di coesione e organizzazione sociale, ne è stata sempre consapevole la borghesia ed è per questo che la sua ideologia, per consolidare la famiglia, prima e più vitale cellula della società, riconosce nell’«amore coniugale» una importante virtù morale. Il proletariato non può in ciò discostarsi dall’ottica borghese ma, argomenta qui Kollontaj in un modo che comincia ad apparire non poco tortuoso, non solo e non tanto per rafforzare i vincoli privati della vita coniugale e familiare, quanto quelli collettivi dell’intera società, dove evidentemente una integra e coesa famiglia proletaria non viene giudicata dall’intellettuale russa come una garanzia sufficientemente forte di coesione sociale. Pertanto, anche sotto il profilo specificamente sentimentale e amoroso, la società comunista dev’essere necessariamente una società più evoluta, il che significa che da fenomeno biologico-affettivo limitato alla famiglia, l’amore deve ora potersi trasformare in essenziale fattore psico-sociale, sulla base di una distinzione quasi pregiudiziale tra una sessualità distorta, malata, malsana, che sarebbe quella mercificata e alienata indotta dal capitalismo, ed una sessualità naturale, spontanea, gioiosa, priva di sotterfugi e perversioni, che è quella che dovrebbe essere riconosciuta e praticata liberamente e pubblicamente, anche se nelle dovute e comprensibili forme di personale riservatezza, nella società comunista. Si tratta di riabilitare l’amore sessuale come una delle componenti costitutive della spiritualità umana, senza tenerlo isolato, emarginato, da tutte le altre manifestazioni spirituali della vita pubblica, come possono essere l’amicizia, l’amore platonico o spirituale, l’amore impersonale per la collettività, l’attrazione carnale congiuntamente ad emozioni morali (ovvero l’Eros alato), la pura attrazione fisica tra i sessi (ovvero l’Eros senz’ali). In altri termini, il sentimento d’amore non può spiritualizzarsi fino al punto di perdere completamente contatto con la sua base biologica; il sesso non può continuare a rimanere discriminato e ghettizzato rispetto alla complessiva e complessa vita spirituale che viene esercitandosi all’interno del nuovo ordine comunista, non può continuare ad essere ritenuto qualcosa di meno nobile se, oltre l’ambito strettamente privato, venga legittimandosi anche pubblicamente.

Ma era evidente la distanza, in vero non particolarmente sottile, che, a questo punto, separava questa posizione non solo da quella di marxisti ortodossi come Lenin e compagni di partito ma anche da quella dello stesso Marx, che, con la sua critica alla famiglia, all’educazione, all’amore borghesi, oltre che alla borghese proprietà privata, non intendeva certo distruggere né la proprietà, né la famiglia, né l’educazione in quanto tali, ma semmai estenderli a tutti, preservandoli dagli usi strumentali borghesi, così come non intendeva disconoscere la piena legittimità della morigeratezza morale di determinate forme intime e riservate d’amore quali quelle interne ai nuclei familiari, ma denunciare il fatto che quella morigeratezza non fosse possibile per coloro che non fossero messi nella condizione di vivere in una famiglia sufficientemente solida e stabile dal punto di vista economico e sociale.

Marx intendeva dire che la proprietà, la famiglia, l’educazione, la morale, la stessa sessualità, dovessero valere universalmente e di esse dovessero usufruire dignitosamente tutti indistintamente, al di là di ogni possibile discriminazione classista, e non che esse dovessero essere collettivizzate nel senso di cancellare ogni confine tra privato e pubblico, tra moralità di un rapporto privato d’amore e immoralità di comportamenti trasgressivi e licenziosi di massa. E’ poi vero che Marx teorizzasse il superamento rivoluzionario della “famiglia borghese” e della tipologia relazionale, affettiva e sessuale, di tipo coniugale su cui essa era basata, prevedendo l’avvento di una «forma superiore di famiglia» della cui natura e articolazione tuttavia nulla di specifico avrebbe detto, come qualcuno ha obiettato20, ma è altrettanto vero che egli non potesse dire, o meglio profetizzare, in che cosa essa sarebbe esattamente consistita, dal momento che «essa è parte del nuovo ordine che verrà disegnato con il rovesciamento del dominio borghese da parte del proletariato e, per tale ragione, non è predefinibile. Nella visione marxiana è evidente che al superamento della vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi antagonismi di classe seguirà una nuova società. In questa nuova società il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti: il nuovo ordine non potrà, quindi, che rimuovere le divisioni proprie della società borghese, prefigurando l’emancipazione di tutti, senza distinzioni, inclusa quella di genere»21. Si può altresì convenire che in Marx non si trovi un’analisi della particolare forma di sfruttamento cui era sottoposta la donna, moglie e madre, in relazione al lavoro domestico e gratuito da ella prestato dentro e fuori del nucleo familiare borghese, ma quel che è certo è che per lui sarebbe stato inimmaginabile un nuovo ordine sociale, familiare, sessuale, in cui la donna potesse un giorno realizzare la sua umanità e la sua stessa sessualità in modi e forme non adeguatamente governati da un’etica più che decorosa di vita associata.

Tanto per esser chiari, il comunismo, per Marx, non era una valvola sociale di sfogo delle inclinazioni perverse e libidinose, oltre che giocose, dell’animo umano, per il semplice fatto che esso non poteva essere ridotto a becero anarchismo, ovvero ad una forma istituzionale di individualismo ancora più distruttivo di quello borghese, ma doveva invece porsi a salvaguardia del diritto universale di tutti ad una proprietà, ad un lavoro, ad una famiglia, ad una vita affettiva, sentimentale e amorosa, ugualmente dignitose e lontane da qualunque forma di scandalosa degenerazione. Non si deve dimenticare che il pensatore di Treviri avrebbe condannato la libertà sessuale sostenuta da Fourier e Saint-Simon, considerandola, nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, come un ritorno allo «stato bestiale di prostituzione universale». E una storica femminista olandese, sia pure allo scopo di evidenziarne i presunti limiti, ha affermato che egli: «ha rinnegato la sessualità e il problema della femminilità/mascolinità in quanto questioni legittime non appena il marxismo ebbe guadagnato terreno. I metodi del socialismo utopico – cambio dei rapporti di produzione e le relazioni tra i sessi come un problema inerente allo studio della sessualità, della famiglia e della distinzione tra pubblico e privato – sono stati ridotti dal marxismo alla lotta di classe; il fine del socialismo utopistico – le nuove relazioni sociali tra le persone – è stato limitato a un nuovo ordine economico e ad una ridistribuzione dei beni materiali»22.

Da un originario punto di vista marxiano, pertanto, il marxismo di Kollontaj doveva risultare pur sempre inficiato dalle sue marcate e preponderanti preoccupazioni femministe. Il marxismo delle origini implicava certamente la liberazione della donna ma nel quadro di un’emancipazione etica e spirituale generale del genere umano che prevedesse il rispetto di un ordine universale di valori morali e spirituali. Esso era indubbiamente ateo ma non negatore dell’universalità di sentimenti morali di dignità, pudore, irreprensibilità comportamentali, mentre le convinzioni libertarie e decisamente edoniste ancor più che femministe di Kollontai, pur richiamandosi al marxismo, venivano caratterizzandosi in senso almeno parzialmente eterodosso. La vita di quest’ultima, i suoi frequenti rapporti amorosi, le sue disinvolte esperienze erotico-sessuali, testimoniano in effetti della sua ferma e coerente determinazione nel voler dare pratica attuazione alla parità dei sessi attraverso una spegiudicata apertura personale ad una sessualità oltremodo disinibita e avventurosa, che non poteva esprimere propriamente il massimo della libertà e della moralità  pubbliche marxiste. Per un marxista coerente, altro è assumersi personalmente la responsabilità morale ed eventualmente giuridica di una relazione sessuale privata, altro è pretendere, come nel caso di Kollontaj, una legittimazione statuale del libero amore, da molti marxisti ritenuto appunto fattore di disgregazione sociale23. Qui non si tratta di disconoscere che senza liberazione sessuale femminile non si dia socialismo e che senza socialismo non si possa dare vera liberazione sessuale femminile. Forse il discorso potrebbe essere anche più sfumato, più articolato ma, ad ogni modo, non è questo il problema. Il problema consiste piuttosto nel chiedersi quale socialismo e quale liberazione sessuale femminile nel nome di Marx. Tuttavia, è da notare che, tra la rivoluzionaria e Lenin si sarebbe registrata una grande convergenza su importanti questioni civili come il diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, benché sul piano politico generale tra essi sussistessero invece divergenze non di poco conto, anche al di là degli eccessi femministi che Lenin le contestava, e ad esempio sulla Nuova Politica Economica (NEP) voluta nel 1921 dal capo carismatico della rivoluzione d’ottobre per ragioni oggettive di arginamento politico delle accese e destabilizzanti rivendicazioni economiche delle masse contadine e piccolo-borghesi, ma comunque in disaccordo con Kollontaj, accesa operaista, che criticava quella riforma economica per lo spazio in essa concessa alla reintroduzione della proprietà e dell’iniziativa privata, nonché alle rivendicazioni dei piccoli contadini e di alcuni settori del commercio, a detrimento degli operai, con i quali si era identificata in massima parte la struttura militare della rivoluzione.

A quest’ultimo riguardo, non si può non ricordare che, in effetti, a partire dal 1917, il connubio tra operai ed esercito (in particolare la marina militare) sarebbe stato sempre strettissimo. Però, già tra il 1918 e il 1926 (Lenin muore nel ’24) sarebbero state emanate normative molto permissive e antiburocratiche, con grande soddisfazione di Kollontaj: si pensi alla facilità di ricorrere, per legge, all’aborto, la facoltà di chiedere e ottenere il divorzio con una semplice comunicazione scritta, il notevole ridimensionamento legislativo dello stesso matrimonio civile. Che poi, inevitabilmente, come in parte si è già detto, le conseguenze di tali provvedimenti fossero negative, come il vertiginoso aumento di abbandoni di donne e bambini da parte degli uomini, come il ricorso abitudinario all’aborto da parte di donne anche particolarmente giovani, la crescita esponenziale, anche per effetto della guerra civile, dei minori abbandonati (si calcola tra i 5 o 6 milioni), nonché il proliferare di bande di giovani delinquenti delle quali avrebbe fatto successivamente parte anche il sanguinario Vladimir Putin; che poi accadesse tutto questo, è un’altra questione, ma è significativo che, nonostante i suoi atti di dissidenza sulla opportunità di non firmare il trattato di Brest-Litovsk, sulla Nep, sulla critica operaista alla maggior parte dei dirigenti bolscevichi, ivi compreso implicitamente Lenin, Kollontaj riuscisse a rimanere sostanzialmente organica alle direttive del Partito comunista e, in questo modo, riuscisse altresì a tenere viva la causa del suo femminismo. Peraltro, dotata di notevole senso tattico nella lotta politica e senza rifuggire da metodi opportunistici che sembrava invece aborrire nel ripudiare l’opportunistico revisionismo politico di Berstein, non avrebbe esitato, alla morte di Lenin, a rivolgersi a Stalin24. Principalmente a Stalin si deve la situazione deprimente così descritta: «Le donne in Russia, come del resto in molti altri Paesi, hanno dovuto sempre faticosamente ritagliarsi degli spazi perché il loro ruolo politico e sociale fosse riconosciuto, così da poter uscire dal silenzio della Storia. Per riuscirci si sono spesso dovute confrontare con l’ostilità della loro controparte maschile, assai spesso guardinga e prevenuta nei loro confronti.

Quella di oggi è una Russia ancora piena di contraddizioni, anche per quanto riguarda il mondo femminile: i ruoli della donna sono ancora marginali in molti settori, a partire dalla politica (dove si è registrato un leggero aumento della rappresentanza delle donne, ma sarebbe necessaria una rappresentanza femminista alleata sull’agenda relativa ai cambiamenti sociali), le prospettive di carriera sono limitate, i salari percepiti dalle donne non sono ancora paragonabili a quelli degli uomini, il peso della cura dei figli ricade ancora soprattutto sulle donne (che risultano penalizzate dal doppio carico di famiglia e lavoro), l’aborto è consentito in alcuni casi ma si cerca di limitarne il ricorso, la violenza domestica – molto diffusa in Russia – è stata depenalizzata nel 2017», per evitare che i vecchi compagni di partito, già critici nei confronti del suo esasperato femminismo, potessero isolarla o allontanarla definitivamente dalla vita politica comunista e sovietica. Ella avrebbe dovuto a Stalin tutta la sua successiva, tranquilla e onorevole carriera politico-diplomatica, concepita tuttavia dal dittatore, di cui ella non avrebbe mai contestato persino i peggiori misfatti e provvedimenti letteralmente antitetici alle sue idee, in termini di “promozione-allontanamento” da Mosca e quindi dal centro propulsivo della vita politica sovietica: ella tace, infatti, quando Stalin, nel 1933, ricostituisce la famiglia come nucleo indispensabile e determinante dello Stato comunista sovietico, quando nel ’36 abolisce l’aborto e rende molto più difficile il ricorso al divorzio, mentre i ragazzi abbandonati o comunque privi di sostegno familiare vengono indistintamente inquadrati nell’esercito o costretti a svolgere attività socialmente utili. Rispetto a quel che aveva disposto la NEP di Lenin, Stalin avrebbe infine attuato, unica consolazione per lei insieme al mantenimento della parità giuridica tra uomo e donna, una collettivizzazione forzata delle campagne, con un inaudito spargimento di sangue di diversi milioni di uomini, in particolare contadini.

Ma, se già con Lenin aveva avuto molte difficoltà come teorica di un’emancipazione femminile basata non solo sul riconoscimento etico e giuridico dell’uguaglianza giuridica dei sessi e sulla promozione sociale della dignità delle donne in quanto lavoratrici e soggetti meritevolmente capaci di cooperare al benessere collettivo e al progresso civile e culturale della civiltà comunista e sovietica, ma anche sulla sdoganizzazione storico-culturale di una sessualità specificamente femminile da riconoscere apertamente in tutta la sua più intima, ambigua e complessa sessualità, con Stalin si sarebbero ulteriormente ridotte per lei le possibilità di sollevare questa seconda questione della specifica identità anche sessuale delle donne, ovvero la questione della liberazione sessuale delle donne e del riconoscimento statuale della loro piena facoltà di esercitare liberamente la propria attività sessuale, nei modi e con i partners che avessero ritenuti più consoni al soddisfacimento delle proprie necessità erotico-sentimentali25. Da questo punto di vista, Kollontaj non sarebbe riuscita a rendere il suo spirito rivoluzionario funzionale al tentativo di dare concreta attuazione alla causa femminista nei termini in cui ella l’avrebbe pensata.

E’ ancora necessario puntualizzare, soprattutto a beneficio di quanti ancora credono che la parola marxismo evochi tutte le peggiori forme di giustificazionismo etico-politico sia pure nel nome del socialismo e non del capitalismo. Non è cosí, perché il marxismo, in realtà, per quanto evidentemente ricettivo dell’istanza femminile di liberazione e uguaglianza, era costitutivamente incompatibile con la sua personale concezione dell’identità sessuale femminile, con la sua percezione della natura dei bisogni esistenziali delle donne e delle donne liberate dal bisogno economico e da ogni genere di sfruttamento, con la sua interpretazione del vissuto femminile più vero e profondo.

L’emancipazione sessuale libertaria, libertina, ipertrasgressiva, ostentatamente provocatoria e anticonformista, proposta dalla rivoluzionaria russa, non poteva coincidere con l’emancipazione sessuale pur sempre altamente etica della filosofia politica marxiana. Marx, sia pure al di là di ogni possibile uso ideologico e mistificatorio, non aveva avuto difficoltà a concepire la libertà proletaria in stretta connessione ad un processo collettivo di costruzione responsabile della società comunista, il cui principio sarebbe stato quello per cui il libero sviluppo di ciascuno costituisse la condizione del libero sviluppo di tutti26. Anche per Marx, una libertà priva di senso di responsabilità sarebbe stata inevitabilmente soggetta a diverse forme di degenerazione, di decostruzione dell’identità morale di un’umanità aclassista, di disgregazione del tessuto unitario della edificanda società comunista.

Il comunismo marxiano non poteva essere inteso come la stura di voglie represse, di condotte individuali licenziose e perverse, di stili di vita molli e dissoluti, né poteva essere chiamato a legalizzare il libero amore e a legittimare la diffusione sociale, sotto una nuova etichetta ideologica, di un tenerume sentimentalistico e sensualistico borghese capace di soffocare ipocritamente qualsiasi anelito di sincerità affettiva e spirituale27. Le oltranzistiche istanze femministiche di Kollontaj nascondevano sostanzialmente le sue personali e incontrollate esigenze di vita sessuale totalmente priva di regole e di senso della misura, esigenze che l’etica marxista, non ignara della differenza intercorrente tra libertà sessuale e degradazione morale, non avrebbe mai potuto far proprie. Peraltro, è proprio questo che le avrebbe rinfacciato il bolscevico Igor Lin: la compagna Kollontaj, avrebbe scritto polemicamente, «non ha voluto riconoscere una verità molto semplice: i giovani operai e contadini non pensano a nessun Eros. Nella loro vita Eros occupa uno spazio insignificante», per il semplice fatto che l’eros proletario è fatto di rispetto, di stima per l’uomo e la donna amati, di fedeltà ad un amore non scaturito da una semplice ricerca di piacere, dalla voglia di sperimentare particolari forme di godimento sessuale, ma dalla volontà di condividere stabilmente gli ideali, i progetti, le pene e le speranze di un’intera vita.

L’amore come svago, come divertimento, come gusto della trasgressione, come alternativa ad un’attività di quotidiano e duro lavoro, non rientra in una visione marxiana della vita e del mondo, secondo la quale invece anche la più intima e segreta realtà affettiva di uomini e donne, pur talvolta caotica e convulsa, deve poter risultare funzionale alla umanizzazione quanto più pacifica e proficua possibile dei rapporti interpersonali, ivi compresi naturalmente quelli tra uomini e donne. Per la teoria marx-engelsiana, occorre essere altresì consapevoli che il sesso e l’amore fisico possono essere usati come strumenti di controllo sociale e politico, tradizionalmente più sul versante maschile che su quello femminile, ma eventualmente anche sul versante femminile. Ciò significa che, ove venga adottandosi una determinata ideologia sessuale, nel nome di una qualunque ideologia politica, socialmente la si potrebbe utilizzare per giustificare, mantenere o introdurre determinate e inedite disuguaglianze di genere e di classe, per non dire che il prevalere di un determinato modello di relazionalità sessuale potrebbe essere usato strumentalmente per esercitare una funzione oppressiva all’interno della famiglia e della società in generale.

Poiché l’amore non è solo un sentimento o un’emozione ma anche il risultato di fattori materiali come la posizione sociale, la condizione economica, lo status culturale e professionale delle persone, è opportuno, forse necessario, che esso, come concetto e come valore, sia maneggiato con molta prudenza e lungimiranza, che è ciò di cui Marx ed Engels, come anche molti loro eredi, tra cui non tuttavia Aleksandra Kollontaj e le generazioni femministe che anche a lei si sarebbero richiamate, sarebbero stati consapevoli. La competizione, lo sfruttamento, l’appropriazione indebita tra esseri umani, l’antagonismo tra uomini e donne, non esistono solo nell’ambito capitalistico ma in qualunque sistema produttivo, in quanto fenomeni storico-specifici e tuttavia anche in quanto fenomeni psico-antropologici naturali evolutivi ma immutabili, anche se nel contesto economico-politico capitalista tali fenomeni risultano particolarmente accentuati e in un ipotetico contesto socialista, almeno sul piano giuridico, economico e sociale, potrebbero sussistere in misura più ridotta e in forme meno drammatiche. Ma, quanto più le problematiche riguardano e tendono a coinvolgere, dentro la cosiddetta famiglia nucleare borghese o anche fuori di essa, gli affetti, i livelli più sensibili della sfera emotiva, le aree più intime e profonde della sessualità personale, tanto maggiori sono le possibilità di un’amplificazione, di un’ esplosione di sentimenti di odio, di rivalità, di antagonismo, nei rapporti interpersonali, e più segnatamente nei rapporti amorosi e sessuali tra uomini e donne.

Per quel che si è venuto dicendo in quest’articolo, è abbastanza avventato affermare che il socialismo sovietico, anche grazie al contributo di Kollontaj, avrebbe decretato la fine della famiglia e dell’amore coniugale: «L’amore libero e la liberazione delle donne erano per i bolscevichi uno degli elementi centrali di una rivoluzione socialista. Hanno scritto ampiamente e discusso su questo argomento, e hanno messo in atto la legislazione più avanzata al mondo sui diritti delle donne, legalizzando il divorzio, l’aborto e la depenalizzazione dell’omosessualità. Lo Stato ha anche affrontato il mancato pagamento del lavoro domestico creando mense e asili pubblici»28. Divorzio, aborto, depenalizzazione dell’omosessualità, com’è noto, avrebbero avuto vita breve, perché sotto la dittatura staliniana, sarebbero stati aboliti o resi molto più difficili come diritti di cui si potesse usufruire e, quanto ai rapporti sentimentali e amorosi, con l’avvento postrivoluzionario delle coppie di “amanti” al posto delle tradizionali coppie di coniugi, le difficoltà e il grado di conflittualità ad essi inerenti non vennero di certo riducendosi o attenuandosi.

Basta osservare quel che accade nell’attuale fase della vita sociale russa, a meno che non si ritenga falsamente che essa non sia ancora il portato, in larga parte, della storia sovietica, per capire quanta esagerazione contenga un’ulteriore affermazione: «La fine della famiglia come unità sociale ed economica costituirà la base dell’amore libero, dove le persone potranno entrare e uscire dalle relazioni a loro piacimento e senza timore di conseguenze economiche»29. Essa «costituirà la base dell’uguaglianza tra uomini e donne, e rimuoverà l’imperativo strutturale dei ruoli di genere. Aprirà la società all’amore come cameratismo espansivo piuttosto che come possesso privato. Come sostiene Kollontai, già all’interno del capitalismo, l’amore non è limitato al matrimonio; dagli amici alle relazioni extraconiugali ai triangoli amorosi, l’amore è prorompente. Come sostiene Kollontaj, sotto il socialismo, l’espansione dell’amore al di là del partner romantico è parte integrante del socialismo, e avrebbe potuto e consolidare la nascente Unione Sovietica»30. Quand’anche quest’ultima affermazione fosse completamente vera in relazione al pensiero dell’intellettuale russa, la verità storica è un’altra, e cioè che l’Unione Sovietica avrebbe cercato le condizioni del suo consolidamento interno proprio attraverso una revisione e una rimozione tempestive delle idee libertarie e umanamente e socialmente disgreganti sostenute, tra altri, da una marxista a vocazione radicalmente femminista come per l’appunto Aleksandra Kollontaj, per la quale la realtà dell’amore sentimentale ed erotico-sessuale era certamente complessa, contraddittoria, ambigua, misteriosa, ma di cui non scorgeva le possibili e naturali perversioni, né gli usi degradanti, illeciti, antisociali.

Che poi Kollontaj debba essere giustamente ricordata e valorizzata ancora oggi come protagonista di un dibattito politico rivoluzionario al cui centro sarebbero stati posti con forza tematiche molto rilevanti e non privi attualmente di nodi ancora irrisolti, come la donna, la maternità, la famiglia, la parità di diritti tra i sessi, la specifica identità sessuale femminile, è senz’altro vero e, in ogni caso, è anche al suo pensiero che bisognerà ritornare criticamente ogni volta che si cercherà di approfondire per il presente e il futuro, anche in eventuale dissenso dalla sua analisi, il significato, il valore e la natura dello specifico ruolo produttivo della presenza femminile nella società globalizzata31.

Kollontaj non sarebbe mai riuscita a fare del suo femminismo radicale o assoluto la dottrina ufficiale del partito32, il quale ne avrebbe spesso tollerato le impennate polemiche solo in virtù della riconosciuta sincerità della sua fede politica e rivoluzionaria. Ma, anche a prescindere dai rapporti non sempre idilliaci con il partito bolscevico, resta, nelle sue accorate esortazioni emancipative rivolte al mondo femminile, qualcosa di non condivisibile e di non interiorizzabile universalmente: per esempio, l’invito a «rompere le catene della religione e della famiglia che, piccola nota, gli stessi bolscevichi sono restii a riformare»; o a «liberarsi dal peso di una maternità che le rende schiave della casa, infelici e dipendenti»33. Nell’esprimere tale riserva, fatta propria tuttavia significativamente dal maggior numero di forze dello stesso arco rivoluzionario e bolscevico, non si intende prendere semplicemente le distanze, sul piano etico-politico, dal femminismo militante, radicale, viscerale e talvolta persino esasperato di Kollontaj, ma sostenere che tra esso e il marxismo intercorre fondamentalmente un rapporto di incompatibilità, in quanto se il marxismo legittima la lotta emancipativa delle donne nel quadro della lotta più generale per l’emancipazione strutturale e sovrastrutturale della società umana, questo non comporta l’avallo necessario e quasi automatico di tutte le idee, le proposte, le rivendicazioni di un determinato mondo femminile, nel quale peraltro non tutte le donne siano disposte a riconoscersi. Anche nel mondo socialista e comunista, naturalmente, sarà possibile, forse anche auspicabile, dissentire sia da uomini che da donne. E, per dirla tutta, non è corretto definire, quasi per nobilitarlo nella stessa tradizione narxista, un femminismo che rompa di fatto con il marxismo come «un femminismo marxista della rottura»34 per il semplice fatto che un femminismo siffatto sarà semplicemente un femminismo non marxista, altro dal marxismo o estraneo al marxismo.  

Il caso di Kollontaj è diverso solo perché qui marxismo e femminismo, almeno sul piano formale, risultano giustapposti ma non contrapposti, ovvero ancora ritenuti reciprocamente funzionali alla causa rivoluzionaria e reciprocamente funzionali nel senso che il femminismo viene interpretato come un’articolazione implicita e necessaria del corpus teorico del marxismo, mentre quest’ultimo viene considerato come imprescindibile strumento e orizzonte di lotta del primo. La teorica marxista russa, in sostanza, non crede che marxismo e femminismo possano essere conflittuali e che il femminismo sia qualcosa di diverso dal femminismo. Ed è proprio questa difettosa interpretazione che le consente di salvare la sua reputazione di intellettuale e combattente marxista persino nel quadro del comunismo staliniano, fondato su una pedagogia oltremodo autoritaria e repressiva tanto sul versante politico generale, quanto su quello specificamente sessuale. Diversamente da lei, né Stalin né i suoi seguaci avrebbero mai pensato che la liberazione sessuale, nelle forme radicali in cui lei la concepiva, fosse «una premessa necessaria alla realizzazione di una libera società socialista»35. Ma anche nel periodo postrivoluzionario, esattamente nel 1923, in cui poteva contare sulla tolleranza e benevolenza di Lenin, ella non aveva un grande seguito e, anzi, non era mancato chi, donna e bolscevica anche lei, come Paulina Vinogradskaja, l’aveva duramente attaccata in un articolo, rimproverandole «di sovvertire le priorità, di trascurare la lotta di classe e di incoraggiare in modo irresponsabile l’anarchia sessuale, là dove il disordine nella vita privata genera l’agitazione controrivoluzionaria. Bisogna invece occuparsi anzitutto del presente, difendere le mogli e i figli, promuovere le donne anziché attaccare gli uomini. Su questo problema Marx ed Engels hanno già detto: inutile fare del “georgesandismo”. Lenin, dal canto suo, lega tutto all’economia e sceglie il matrimonio monogamico, egualitario e serio, devoto alla causa […]. I suoi colloqui con Klara Zetkin, avvenuti nel 1920 ma resi pubblici nel 1925, dopo la sua morte, riflettono bene il suo rifiuto del disordine amoroso e sessuale, nel quale Lenin scorge un segno di decadenza e un rischio per la salute dei giovani, quindi una minaccia per la Rivoluzione»36.

Francesco di Maria

NOTE

1.Così, per esemplificare, è molto opinabile che la recente piattaforma politica proposta, e anzi rilanciata, dal movimento marxista-femminista, e incentrata su una generica e vaga lotta a non meglio precisati fenomeni di suprematismo, omofobia, misoginia e razzismo, e per contro favorevole al riconoscimento e al radicamento istituzionale di pratiche abortive, divorziste, oppiacee, pansessuali o indifferenti alle dinamiche demografiche interne agli Stati occidentali, possa o debba essere valutata necessariamente come manifestazione ideologica di un socialismo marxista piuttosto che come effetto di una deriva ideologica populistica a trazione edonistico-libertaria: si allude a documenti confusi e velleitari come quello firmato da Nicoletta Pirotta, Relazioni pericolose. L’incontro tumultuoso fra marxismo e femminismo, in “Transform-Italia”, del 21 giugno 2023. Sul piano strettamente teorico, anche il tentativo di S. Federici, Genere e capitale. Per una rilettura marxista di Marx, Roma, Derive Approdi, 2020, di ripensare Marx in chiave femminista, si rivela infruttuoso e fallimentare, vale a dire né più né meno che un attacco frontale alla stessa critica marxiana della società capitalistica, ad una critica, beninteso, che non prevedeva che forme particolari e settoriali di soggettività del complessivo fronte rivoluzionario potessero egemonizzare lo stesso processo rivoluzionario di lotta. Per Silvia Federici anche Marx era un maschilista e, come tale, inutilizzabile ai fini di una emancipazione femminile integrale. Questa è la verità non detta che rappresenta il vero discrimine di fondo tra marxismo e femminismo. Più che parlare di «infelice matrimonio tra marxismo e femminismo», secondo la definizione coniata dalla brillante economista americana Heidi Hartmann nel 1981 in un volume collettaneo curato da Lydia Sergent, Donne e rivoluzione: una discussione sul matrimonio infelice tra marxismo e femminismo, South End Press, Boston (Massachusetts), pp. 1-42, forse bisognerebbe parlare, più realisticamente, di matrimonio impossibile.

2. Cfr. M. Ricci, Aleksandra Kollontaj. Stato comunista e liberazione femminile, in  “Diacronie. Studi di storia contemporanea”,  2018, fasc. 2, n. 34, pp. 1-11, in particolare i paragrafi 9-18 su “stato, famiglia e lavoro domestico” e su “realtà e utopia”.

3. A. Kollontaj, La famiglia e lo Stato comunista, relazione tenuta al Primo Congresso degli operai e dei contadini, novembre 2018.

4. L. Guadagnucci, E Lenin fermò la ministra del libero amore, in “Quotidiano Nazionale” dell’1 agosto 2021.

5. Si può vedere la ricostruzione biografica di Hélène Carrère d’Encausse, Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione, Torino, Einaudi, 2023; della stessa A. Kollontaj si può vedere utilmente: Amore e rivoluzione. Idee di una comunista sessualmente emancipata, Roma, Red Star Press, 2018, nonché la sua Autobiografia, Milano, Feltrinelli, 1975.

6. Si veda A. Kollontaj, Vivere la rivoluzione, Milano, Garzanti, 1979, che contiene il manifesto femminista che la rivoluzione bolscevica non avrebbe saputo recepire se non in modo marginale.

7. Su prostituzione, matrimonio classico monogamico-borghese, libero amore, si è accuratamente soffermata Irene Raschi, Ideologia e questione sessuale nella Russia sovietica degli anni 1918-1928. Il caso di Aleksandra Kollontaj, Tesi di laurea presso Magistero di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Bologna per l’anno accademico 2018-2019, pp. 80-103.

8. C’è chi ha sostenuto che Kollontaj avrebbe cercato di ricomporre e di saldare l’eros e il logos, ma, a mio giudizio, l’eros, nella sua opera, resta sempre abbastanza subordinato al logos, soprattutto se si considera che, in lei, la stessa passione politica si manifesta come fonte di eccitazione erotica: cfr. A. Ferrante, Aleksandra Kollontaj. Passione e rivoluzione di una bolscevica imperfetta, Roma, L’Asino d’oro Edizioni, 2021

9. E’ quello che scriveva in una sua lunga lettera del 1923, pubblicata sulla rivista moscovita “”Molodaja Gvardija”, da cui qui si cita nella traduzione italiana, e indirizzata alla gioventù bolscevica russa: lo stesso testo viene riproposto in A. Kollontaj, Largo all’eros alato! L’amore da compagni (Passi scelti), Napoli, La Scuola di Pitagora, 2012.

10. Ivi.

11. Tutto questo è documentato esaurientemente nel libro di Gian Piero Piretto, Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010, in particolare p. 117.

12. F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma, Editori Riuniti, 2019.

13. Kollontaj, Largo all’eros alato!, cit.

14. Ivi

15. Ivi.

16. Ivi

17. Ivi.

18. Ivi. 

19. Nei primi anni di radicamento del verbo rivoluzionario in Russia, sembrava che le idee libertarie di Kollonaj stessero attecchendo sul piano sociale, ma si sarebbe trattato solo di un fuoco di paglia: si veda, al riguardo, Sofija Poljakova, Come l’Unione Sovietica da Paese dell’amore libero divenne moralista e puritana, in Rivista on line di storia “Russia Beyond”, 20 gennaio 2023.

20. S. Federici, Notes on gender in Marx’s Capital, “Continental Thought & Theory. A Journal of Intellectual Freedom”, I, 4, 2017, pp. 19-37.

21. T. Toffanin, Marx e la questione di genere, in “Open Edition Books”, Rosenberg&Sellier, 8 novembre 2018, pp. 67-75. Si veda anche: (A cura di M. Gatto), AA.VV., Marx e la critica del presente, Torino, Rosenberg&Sellier, 2020.

22. Saskia Poldervaart, Theories About Sex and Sexuality in Utopian Socialism, in “Journal of Homosexuality”, New York, 1995, vol. n. 29, fasc. 2/3, p. 41.

23. D’altra parte, per rendersi conto dell’indole sentimentale di Marx, apprezzabile o meno che possa apparire, e che non viene scalfita da qualche occasionale fuga amorosa del rivoluzionario tedesco, basta dare un’occhiata a K. Marx, Ti amo Jenny. Lettere d’amore e di amicizia, Milano, Shake, 2011.

24. Il che, per certi aspetti, è davvero sorprendente, se si tiene conto del fatto che proprio Stalin si sarebbe frapposto, quale ostacolo insormontabile, non solo al processo di emancipazione delle donne comuniste russe e sovietiche, ma anche alla elementare possibilità per molte di esse di poter godere della libertà: si veda, esemplificativamente, Oksana Kis, Sopravvivere nel Gulag. La resistenza quotidiana delle prigioniere ucraine, Roma, Viella, 2023, in cui si racconta di centinaia di migliaia di donne ucraine condannate ai Gulag.

25. Cfr. Wendy Z. Goldman, Democrazia e terrore. Le dinamiche della repressione nell’era di Stalin, Roma, Donzelli, 2008.

26. Karl Marx- Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Torino, Einaudi, 1972.

27. Purtroppo, una forma di languido e decadente sentimentalismo è quella che emana anche la storia romanzata, e scritta anch’essa nel 1923, di Vassilissa: Kollontaj, Vassilissa. Romanzo. L’Amore, La Coppia, La Politica. Storia di una donna dopo la rivoluzione, Roma, Savelli, 1978.

28. T. Cozzarelli, Amore e socialismo, nel sito on line “La voce delle lotte.it”, 28 febbraio 2018.

29. Ivi.

30. Ivi.

31. Al riguardo, può essere utile confrontare, tra gli altri, P. La Villa, Aleksandra Kollontaj. Marxismo e femminismo nella rivoluzione russa, Catania, Villaggio Maori, 2018.

32. Come emerge chiaramente dalla citata biografia di Hélène Carrère d’Encausse, Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione.

33. A. Ferrante, Aleksandra Kollontaj, sollevare le donne verso il cielo, in “Micromega” del 7 giugno 2021. Non c’è dubbio che fosse giusto ritenere, con Kollontaj, che «niente è più rivoluzionario di un amore che presuppone l’uguaglianza dei sessi. Niente è più rivoluzionario di un’intesa intima e profonda di corpi, che si combina con l’interesse per la collettività», ivi, a condizione  di riconoscere che l’uguaglianza dei sessi è tale solo nei limiti in cui si riconosca la differenza psico-biologica dei sessi e nei limiti della naturale e reciproca propedeuticità tra funzione femminile e funzione maschile.

34. Di «femminismo marxista della rottura» è tutto un filone femminista contemporaneo a parlare, intendendo con tale espressione un femminismo che, partendo da Marx, vada oltre Marx, come si viene affermando anche in un articolo di Anna Curcio, Il femminismo marxista della rottura, nel sito on line “Hotpotatoes”, 1 ottobre 2020, in cui si legge tra l’altro: «Per le femministe della rottura …, andare oltre Marx è il punto dirimente. Non un vezzo teorico ma una scelta politica per un femminismo all’altezza delle sfide del tempo», che è appunto ciò che qui si sta sostenendo. Andare oltre Marx può significare, piaccia o non piaccia, solo due cose: criticare Marx per respingerlo su posizioni presumibilmente conservatrici oppure criticare Marx per superarlo su posizioni presumibilmente progressiste. In entrambi i casi, appare improprio o scorretto parlare di “femminismo marxista”. Si veda ancora: (a cura di A. Curcio), AA.VV., Introduzione ai femminismi. Genere, razza, classe, riproduzione: dal marxismo al queer, Roma, Edizioni DeriveApprodi, 2023, S. Federici, Genere e capitale. Per una rilettura femminista di Marx, Roma, DeriveApprodi, 2020, dove il rapporto con Marx si palesa, pretenziosamente e strumentalmente, in tutta la sua infeconda conflittualità; e inoltre, di questa stessa studiosa, si veda Quello che Marx non ha visto, in “Il Manifesto” del 30 gennaio 2020, articolo cui replicava polemicamente C. Filosa, Femminismo pro-anti-Marx, 29 luglio 2021, che, nel giudicarne non condivisibile la lettura su Marx, affermava perentoriamente che da Marx «il femminismo separatista è sempre rimasto molto lontano se non apertamente ostile».

35. M. E. Dalla Gassa, Aleksandra Kollontaj (San Pietroburgo 1872-Mosca 1952), in “enciclopediadelledonne.it”, 2016. Non che la maternità fosse un tema politicamente trascurato da Kollontaj, ma che il tema dominante del suo pur solido e articolato pensiero politico, così sensibile in particolare alla condizione femminile in generale, fosse il sesso come tale, è ciò che si evince anche da un brano significativo di F. Navailh, Il modello sovietico, in G. Duby-M. Perrot, Storia delle donne. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 274-279: «La Kollontaj considera l’aborto un male temporaneo, in attesa che prevalga la coscienza delle lavoratrici. Condanna il rifiuto della maternità come una forma di egoismo piccolo-borghese. I figli tuttavia non sono collettivizzati; spetta ai genitori la scelta dell’educazione, al nido o in casa. Nondimeno, l’amore in generale – e il sesso – prevale sull’istinto materno in quanto valore spirituale. … Lo Stato dei lavoratori ha bisogno di una forma nuova di rapporti tra i sessi. L’affetto ristretto ed esclusivo della madre per suo figlio deve ampliarsi per abbracciare tutti i figli della grande famiglia proletaria. Al posto del matrimonio indissolubile, fondato sulla schiavitù della donna, si vedrà nascere la libera unione, forte dell’amore e del rispetto reciproco di due membri dello Stato del lavoro, uguali nei loro diritti e nei loro doveri. Al posto della famiglia individuale ed egoista, sorgerà la grande famiglia universale operaia, in cui tutti i lavoratori, uomini e donne, saranno prima di tutto fratelli e compagni. .. La Kollontaj invita la donna a difendere, imporre e interiorizzare l’idea del proprio valore. Certo, l’argomentazione della Kollontaj rientra nel marxismo classico con il suo primato dell’economia, ma la dirigente bolscevica si spinge oltre ed esige anche dei rapporti di qualità, premurosi e ludici. Ai suoi occhi l’etica è importante quanto la politica. È tra le prime – e prima ancora di Wilhelm Reich – a legare sessualità e lotta di classe».

36.  F. Navailh, Il modello sovietico, cit., ivi; la su riportata critica si riferisce esattamente a P. Vinogradskaja, Voprosy morali, pola, byta, i tovarišč Kollontaj (I problemi della morale, del sesso, della vita di ogni giorno e la compagna Kollontaj), in “Krasnaja Nov”, 1923, VI, pp. 110-115, dove si denuncia apertamente come il problema dell’amore non avesse nella vita di tutti i giorni nemmeno la decima parte del ruolo che la Kollontaj attribuiva ad esso e che il fatto di mettere così in rilievo determinate tematiche costituisse di conseguenza un grave errore politico che non poteva non ripercuotersi pesantemente sulla stessa causa socialista. Mordace era anche la critica del pedagogo Aron Zalkind, il quale affermava che «attualmente il collettivismo viene messo in disparte, mentre l’amore ingrassa. Ho molta paura che col culto dell’Eros alato», evidente allusione all’immagine letteraria usata da Kollontaj e al relativo articolo di cui sopra, «avremo cattivi risultati nella costruzione degli aerei», citato in C. Fracassi, Il ciclone Natascia. Rapporto sulla rivoluzione femminile in URSS, Bari, De Donato, 1975, p. 76 (di Fracassi è, altresì, il libro su Aleksandra Kollontaj e la rivoluzione sessuale: il dibattito sul rapporto uomo-donna nell’URSS degli anni venti, Roma, Editori riuniti, 1977). Osserva in proposito I. Raschi, Ideologia e questione sessuale nella Russia sovietica …, cit.: «Per Zalkind, vi è una contrapposizione radicale tra sfera morale privata e sfera pubblica. Si tratta quasi di una questione di energia: quanto più se ne dedica all’amore, tanta più se ne sottrae alla rivoluzione. Per Zalkind, l’amore sessuale spinge all’egoismo, contrapponendosi al sociale, e identifica l’attenzione che ad esso viene dedicata come un retaggio della cultura borghese» (pp. 102-103).

 

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