Per una filosofia della carità

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Il fondamento logico ed etico-teologico del concetto cristiano di carità è dato dall’incarnazione e dall’umanizzazione di Dio, dal fatto che la divinità si svuota dei caratteri di assolutezza, onnipotenza, eternità e trascendenza, pure ad essa riconosciuti dal giudaismo e dal cristianesimo ortodosso, configurandosi per ciò stesso come principio di mitezza, di affabilità, di carità. Dio, quindi, più che sovrannaturale e intransigente manifestazione di giudizio e di giustizia in rapporto al mondo e all’uomo, esprime la sua vicinanza, la sua prossimità, la sua amicizia, in sostanza la sua carità verso l’umanità finita, debole e sofferente. La stessa rivelazione, pertanto, consiste essenzialmente nella rivelazione di Dio come pura e semplice carità. Questa era l’interpretazione filosofica che del cristianesimo, circa venticinque anni or sono, dava Gianni Vattimo, teorico del pensiero debole (G. Vattimo, Credere di credere. E’ possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Milano, Garzanti, 1998. Una provocazione per la riflessione teologica è stata definita l’intera elaborazione filosofica di Vattimo, tra gli altri, da C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo, Roma, LAS, 1999, che interagisce criticamente con l’analisi corrosiva del filosofo piemontese, anche se non sostenuta da una adeguata conoscenza del pensiero filosofico e teologico cristiano-cattolico), senza tuttavia rendersi conto di proporre un approccio interpretativo molto limitativo e deficitario, perché fondamentalmente emotivo e sentimentale, al complessivo e articolato significato della Parola di Dio e del messaggio evangelico. Continua a leggere

Giovanni Gentile oggi: filosofia, politica, religione

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    1. L’apologia idealistica del pensiero operata da Giovanni Gentile non appare destinata ad avere un destino storico-filosofico di gloria per la semplice ragione che ciò che il teorico dell’attualismo è venuto esaltando non è il pensiero inteso nella vasta gamma delle sue potenzialità critiche ma una semplice, univoca e dogmatica forma di pensiero, verosimilmente incapace di rendere conto della proteiforme complessità della realtà e del sapere1. Ed è molto difficile che il pensiero gentiliano, non necessariamente a causa dell’ostinata adesione di Gentile al «partito dei vinti della storia», possa ancora influire sulla cultura italiana del XXI secolo e dei secoli a venire nella stessa misura in cui, godendo di una posizione politica di assoluto e preconcetto privilegio, potette influire sulla cultura nazionale dei primi decenni del secolo scorso2.Tuttavia, esso merita di essere ripensato criticamente perché se, sotto l’aspetto logico-linguistico-metodologico, appare irrimediabilmente anacronistico e inutilizzabile, e sul piano politico e ideologico il suo orientamento non può più essere equivocato3 dal punto di vista pedagogico, etico-civile e filosofico-religioso, appare ancora ricco di suggerimenti, spunti, provocazioni utili a rideterminare il grado di validità o di insufficienza teorico-pratica e spirituali di alcuni fondamentali paradigmi della vita civile e culturale di questo tempo. Continua a leggere

L’idea di nazione e di governo patriottico in Antonio Gramsci

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Sin dal 1928, quando viene condannato dal tribunale fascista a circa vent’anni di carcere, Gramsci è un comunista antidogmatico e democratico, convinto che il verbo comunista dovesse respirare con le anime di tutte le sue componenti storiche, di tutte le forze teorico-pratiche che vi si riconoscessero. Il comunismo, per lui, aveva nel liberalismo un presupposto imprescindibile, nel senso che il suo potenziale rivoluzionario, sul piano sociale ed economico, si sarebbe potuto pienamente esplicare solo ove gli ordinamenti giuridico-politici ed istituzionali liberali avessero già costituito un dato di fatto. Era tuttavia intransigente sulla fedeltà da prestare ai princìpi e ai fini programmatici del partito, ai valori etico-politici che ne erano a fondamento, e sulla integrità e coerenza morale con cui occorreva interpretare il proprio ruolo di militante rivoluzionario. La grande intelligenza teorico-politica, l’ingegnosa duttilità tattico-strategica,  si coniugavano in lui perfettamente con l’appassionata e coraggiosa vocazione missionaria ad onorare e a dare compimento, a qualunque costo, alla propria fede politica e alla propria causa di liberazione umana. Continua a leggere

La Shoah: male assoluto o male funesto ma relativo?

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Il male assoluto, secondo Hannah Arendt, consiste nell’uccisione, nella deliberata o pianificata eliminazione fisica non solo di politici, criminali o soggetti comunque colpevoli di aver violato gravemente qualche fondamentale legge dello Stato o qualche importante principio morale, di aver commesso gravi reati contro le persone o una determinata collettività, ma anche di gruppi di «innocenti in ogni senso», di tutti coloro che, in Germania, dopo il 1938, «per una ragione qualsiasi estranea alle loro azioni, erano caduti in disgrazia»: gli ebrei in primis, gli zingari, gli omosessuali, ogni genere di minoranza atipica. Il male assoluto è un male non riconducibile ad alcun principio di razionalità morale e giuridica, di razionalità tout court, perché è semplicemente irrazionale, mostruosamente irrazionale, non tanto condannare a morte qualcuno ma soprattutto condannare qualcuno a morire tra indicibili e orribili torture e strazi volti a privarlo della sua dignità, della sua stessa natura umana. Continua a leggere

Populismo come antitesi o come fattore costitutivo della democrazia?

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Liberissimi di pensare che una democrazia governativa di tipo tecnico e apolitico, governi populisti promossi da spinte popolari di natura tendenzialmente plebiscitaria, costituiscano deformazioni della democrazia che la spingerebbero a travalicare i limiti della carta costituzionale e ad imboccare la strada di regimi dittatoriali. Ma non altrettanto liberi di pretendere che, qualunque forma politico-governativa venga assumendo la democrazia, sulla base di libere e pacifiche determinazioni delle masse popolari e dei loro rappresentanti e nei limiti del rispetto formale delle leggi e delle regole costitutive dell’ordinamento democratico, possa non essere compatibile con il metodo e il sistema democratici di vita politica.  Ancora più arbitrario e contraddittorio con lo stesso assunto di una originaria purezza democratica è l’idea che una vera democrazia, oltre che su libere elezioni, dovrebbe poter contare anche sulla facoltà istituzionale degli elettori di esercitare un controllo continuo, ossessivo, asfissiante sull’attività del governo in carica e, nel caso, di esigere un ritorno alle urne, perché ad un governo, tranne che non venga operando scelte politiche e amministrative inequivocabilmente e reiteratamente dannose e antitetiche ai legittimi interessi del popolo, occorre dare il tempo di porre in essere, in misura sufficientemente ampia, il proprio programma, prima che i cittadini abbiano la possibilità di valutarne, non per capriccio ma con precisa cognizione di causa, pregi e limiti, e di ritenerne eventualmente necessaria la sostituzione con una diversa compagine politico-governativa. Continua a leggere

Il dolore tra senso e non senso

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Non condivido il pensiero di chi ritiene che, per poter parlare di dolore, occorra innanzitutto non trovarsi coinvolti contemporaneamente in una situazione personale di vita particolarmente dolorosa, non solo perché la presenza del dolore non impedisce necessariamente all’intelletto di farne un’analisi lucida e rigorosa proprio o anche mentre si sta soffrendo, ma anche perché per una parte dell’umanità il dolore è compagno talmente stabile di vita da obbligarla non solo eventualmente a recriminare contro esso in quanto fenomeno non contingente ma strutturale, ma a riflettere quanto più criticamente possibile sulla o sulle sue cause, sulla o sulle sue ragioni d’essere nella vita degli esseri umani e, in modo specifico, in quella di uomini e donne particolarmente sensibili tanto sul piano intellettivo quanto su quello morale e/o religioso. Perciò, non condivido neppure l’affermazione per cui l’amore sarebbe necessariamente «il contrario del dolore», quasi che non si possa soffrire, in un senso nobile, per amore (Il bersaglio polemico di questa parte iniziale del presente scritto è, in particolare, Giuseppe Ferraro, Il dolore, nel sito “Filosofiafuorilemura.it”, 5 febbraio 2014). Continua a leggere

Il sale e la luce

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I cristiani, in quanto seguaci avveduti e responsabili dell’insegnamento di Cristo, sia pure all’interno delle proprie esperienze personali di vita e delle loro capacità più o meno rilevanti o carismatiche di carattere intellettivo, volitivo e spirituale, sono virtualmente sale e luce, sale da utilizzare per dare sapore, significato, senso e gusto alle cose, agli eventi, al mondo, alla vita propria e altrui, e luce per portare in superficie o porre in evidenza tutto ciò di cui, comportamenti, pensieri, sentimenti, modelli o pratiche di vita, nel mondo non si riconosce l’importanza, il valore, l’effettiva consistenza, e che pertanto tende a restare avvolto nell’oscurità. Bisogna portare sale della migliore qualità negli avvenimenti del mondo e nelle vicende di vita, senza eccessiva timidezza e senza presunzione ma con moderazione e senso della misura, perché nell’esistenza singola e collettiva non c’è nulla che, in se stesso considerato, abbia, al pari del cibo, la sapidità necessaria ad essere mangiato, apprezzato e gustato. E bisogna accendere la luce, che il cristiano porta in se stesso, non per accecare i propri simili ma solo per quel tanto che basti a rischiararne la via o il cammino: bisogna tenerla accesa senza timore di sprecarla ma sapendo che essa è necessaria ad illuminare ciò che altrimenti, pur essendo molto utile e indispensabile alla vita morale, comunitaria e spirituale degli esseri umani, resterebbe nascosto e inservibile. La verità e il bene, nella vita delle creature e nella storia dell’umanità, hanno bisogno del sale e della luce contenuti nel messaggio evangelico.  

Il sale del cristiano è necessario perché le cose non restino sempre uguali nella loro sostanziale insignificanza o nella loro tendenziale insensatezza, perché i rapporti tra le persone, tra i popoli e gli Stati, evolvano verso il bene e la giustizia; il sale del cristiano è necessario a restituire dignità a tutto ciò e a tutti coloro che il mondo trascura, emargina, scarta o disprezza, a conferire visibilità a pensieri, valori, opere, generalmente trascurati, disprezzati e condannati all’invisibilità. Ma, naturalmente, è altrettanto vero che sale e luce trovano la loro principale caratteristica nella loro invisibilità: il sale insaporisce la pietanza ma in essa scompare e se ne apprezza la presenza solo mangiando, consumando quest’ultima. E così anche la fede, la testimonianza della propria fede, sono significative non solo e non tanto se e quando risultino riconoscibili agli occhi di un mondo pagano o miscredente, ma se e quando in tutta umiltà e, sia pure nel pubblico disconoscimento, agiscono come lievito nella pasta informe dello spirito personale e collettivo del mondo fino a farne emergere lentamente il sapore e il senso più vero e profondo.  Continua a leggere

Ognuno è quel che è. Postilla etico-esistenziale

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Ognuno è quello che è, indipendentemente da quello che la società, spesso in modo casuale e irresponsabile, decide che debba essere. Può avere la qualifica di luminare o di incompetente, di persona virtuosa o di persona inaffidabile, di individuo lucido e lungimirante o di individuo confuso e gretto, e via dicendo. Ma ognuno è quello che è per quel che realmente pensa, dice e produce, nella sua ordinaria quotidianità di vita, in rapporto ad una gerarchia di valori e di competenze non sempre necessariamente coincidenti con criteri già acquisiti e consolidati di giudizio e di merito. Può raggiungere i gradi più alti della scala sociale, professionale, istituzionale, politica o militare, può diventare vescovo o papa, e probabilmente, con i loro atti e le loro opere alcuni confermeranno di meritare i titoli e i meriti loro riconosciuti, mentre altri ne resteranno ben al di sotto o dimostreranno di esserne notevolmente al di sopra. Il valore formale o nominale di ogni persona non sempre coincide con il suo valore reale —può infatti non coincidere talora per eccesso, talora per difetto — e, a dispetto di una pubblica opinione mossa quasi sempre da fattori psicologici ed emozionali, i fatti depongono nella loro intrinseca pur se non di rado  sfuggente oggettività a favore o a sfavore delle capacità dei singoli individui, sui piani più diversi della loro vita intellettuale e pratica.   Continua a leggere

La Chiesa conta più di un papa e dei suoi cortigiani

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Il presbitero argentino Víctor Manuel Fernández, già incaricato dal papa di assolvere la funzione di Prefetto del Dicastero per la dottrina della fede e predestinato a ricevere presto la porpora cardinalizia, ha appena rilasciato un’intervista inquietante al famigerato Antonio Spadaro ancora direttore di “La Civiltà Cattolica” (Vita e dottrina nella fede, Un dialogo con mons. Víctor Manuel Fernàndez, in “La Civiltà Cattolica”, settembre 2023, pp. 498-516) Cosa dice in questa intervista? Dice che la Chiesa rifiuta il fideismo, anche se il prelato non spiega il significato tutt’altro che scontato di fideismo, difende il valore della ragione e la necessità del dialogo tra ragione e fede. Subito dopo, però, polemizza contro quei cardinali, ecclesiastici o semplici fedeli, che al centro della Chiesa vorrebbero mettere «una certa ragione», fino ad arrogarsi il diritto di stabilire cosa il papa possa o non possa dire, come se non fosse non solo diritto ma soprattutto dovere di ogni battezzato in Cristo esprimere eventualmente il proprio dissenso persino sulle affermazioni del papa, nel caso specifico di un papa che a un numero ormai elevato di cattolici appare sempre meno affidabile. Il cardinale precisa, quindi, che a muovere criticamente questi credenti, in realtà persone «che vorrebbero indottrinare il vangelo» trasformandolo «in pietre morte da scagliare contro gli altri» non sarebbe la ragione ma il potere, come se lui, delfino e connazionale del papa regnante, non cercasse a sua volta potere nell’indecente sistema di potere creato da Bergoglio. Continua a leggere

Blaise Pascal: tra cuore e ragione

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      Blaise Pascal

A chi non è capitato, in modo più o meno istintivo, più o meno colto o raffinato, di interrogarsi sulla propria presenza nel mondo e in questo mondo piuttosto che in altri possibili mondi, sulle ragioni del proprio esserci e del proprio vivere, sulla propria identità più intima, sugli scopi di un’esistenza breve, fuggevole, ineluttabilmente destinata alla morte? Pascal espresse in forma sapiente ed elegante questo interrogativo:

                                                             “Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cosa è il mondo, né chi sono io; io mi trovo in una ignoranza terribile di tutte le cose; io non so che cos’è il mio corpo, che cosa sono i miei sensi, che cosa la mia anima e questa parte stessa dell’io che pensa ciò che io dico, che riflette su tutto e su se stesso, e che non si conosce, non più di quanto non conosca tutto il resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi chiudono, e mi trovo attaccato ad un angolo di questa vasta estensione, senza che io sappia perché io sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché quel poco tempo che mi è dato di vivere mi è assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Io non vedo che infinità in tutte le parti che mi racchiudono, come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto quello che so è che devo presto morire, ma ciò che ignoro maggiormente è questa morte stessa che io non saprei evitare”1. Continua a leggere