Giovanni Gentile oggi: filosofia, politica, religione

 

    1. L’apologia idealistica del pensiero operata da Giovanni Gentile non appare destinata ad avere un destino storico-filosofico di gloria per la semplice ragione che ciò che il teorico dell’attualismo è venuto esaltando non è il pensiero inteso nella vasta gamma delle sue potenzialità critiche ma una semplice, univoca e dogmatica forma di pensiero, verosimilmente incapace di rendere conto della proteiforme complessità della realtà e del sapere1. Ed è molto difficile che il pensiero gentiliano, non necessariamente a causa dell’ostinata adesione di Gentile al «partito dei vinti della storia», possa ancora influire sulla cultura italiana del XXI secolo e dei secoli a venire nella stessa misura in cui, godendo di una posizione politica di assoluto e preconcetto privilegio, potette influire sulla cultura nazionale dei primi decenni del secolo scorso2.Tuttavia, esso merita di essere ripensato criticamente perché se, sotto l’aspetto logico-linguistico-metodologico, appare irrimediabilmente anacronistico e inutilizzabile, e sul piano politico e ideologico il suo orientamento non può più essere equivocato3 dal punto di vista pedagogico, etico-civile e filosofico-religioso, appare ancora ricco di suggerimenti, spunti, provocazioni utili a rideterminare il grado di validità o di insufficienza teorico-pratica e spirituali di alcuni fondamentali paradigmi della vita civile e culturale di questo tempo.

Giovanni Gentile fu fautore nell’Italia fascista, come ministro della pubblica istruzione, di una politica scolastica e culturale innovativa ed efficace anche se condizionata da una legislazione di regime che non potette non condizionarne e limitarne le possibilità produttive ed espansive. E, d’altra parte, il suo stesso pensiero, per quanto forse autonomo e più tollerante rispetto all’ideologia totalitaria del fascismo, non era privo di una certa rigidità aprioristica nel modo di porsi verso i problemi del sapere e dello stesso sapere filosofico. Proprio questa caratteristica costitutiva della sua forma mentis e della sua personalità culturale sarebbe stata alla base di un percorso speculativo, quello attualistico, non particolarmente vivace ed articolato ma piuttosto centrato su alcuni motivi monotematici (l’io, lo spirito, il pensiero in atto, l’autoctisi) asfitticamente chiusi ad un serio confronto con le specifiche istanze e le oggettive dinamiche della realtà storica e culturale.  

In questo senso, Gentile come filosofo, nonostante i molteplici e relativamente recenti tentativi di rivalutarne la teoresi e l’ispirazione etico-politica, sarebbe risultato largamente inferiore a Gentile sia come uomo, dall’indole mite e generosa, sia come promotore e organizzatore istituzionale di vita scolastica, scientifica e culturale4. Tale giudizio non comporta naturalmente un disconoscimento quanto, tuttavia, un relativo ridimensionamento delle sue qualità logico-analitiche e, più in generale, delle sue capacità intellettuali di penetrazione critico-interpretativa che, a giudizio di chi scrive, non avrebbero certo dato luogo a modelli particolarmente originali e memorabili di creatività filosofica e vita civile, benché fosse comprensibile che, dopo il crollo del muro di Berlino e dei tradizionali e contrapposti blocchi ideologici da esso simboleggiati, avesse luogo in Italia una massiccia ripresa di studi crociani e gentiliani, e soprattutto che, dopo la stagione “partitocratica” della storia repubblicana nazionale, si venisse manifestando un rinnovato e insistente interesse per la figura e l’opera di Giovanni Gentile.

D’altra parte, anche i “riconoscimenti” apparentemente sorprendenti del pensiero gentiliano, provenienti dall’area di ispirazione laica e marxista, possono essere letti nella giusta luce se si considera, sulla falsariga della tesi più volte ribadita da Ludovico Geymonat, la latente ma attiva sopravvivenza storica di robuste “radici” gentiliane nella prassi teorico-pratica di gran parte della sinistra italiana in quasi tutta la seconda metà del ‘900. L’ingiustificata soppressione fisica di Gentile avvenuta il 15 aprile del 1944, in circostanze ancora non del tutto chiarite5, non avrebbe segnato, in campo socialista e comunista, l’inizio di una costruttiva liquidazione democratica del gentilianesimo, lasciando che invece un certo autoritarismo statalista, proveniente non solo dal marxismo stalinista degli anni ‘30/’40 ma anche dall’egemonia culturale esercitata da Gentile, da vivo e da morto, su intere generazioni di intellettuali laici e marxisti, agisse a lungo nella storia della sinistra italiana e condizionasse inevitabilmente la stessa storia della democrazia repubblicana italiana. Non bisogna dimenticare che Gentile aveva parlato del fascismo non solo come di una dittatura necessaria nel periodo immediatamente successivo alla fine della prima guerra mondiale ma anche come di una virtuale «democrazia accentrata»6, in cui lo Stato fosse capace di rispettare e incentivare la libera iniziativa individuale e in cui i singoli individui fossero, tuttavia, liberamente ma incondizionatamente pronti ad obbedire alle leggi e alla suprema volontà dello Stato.  

Nel ventennio fascista tale obiettivo non sarebbe stato raggiunto né poteva essere raggiunto anche a causa di una congiuntura storico-politica e militare che avrebbe impedito ogni possibile, e sia pure ipotetica, evoluzione del fascismo, ma la stessa democrazia dell’Italia postfascista, pur col ripristino delle libertà civili e politiche, della libertà di stampa e di associazione, della normale vita parlamentare e delle garanzie costituzionali ed istituzionali, non sarebbe stata sufficientemente diffusa, articolata, partecipata. Sarebbe spesso rimasto un autoritarismo, non più accentrato come un tempo se si vuole, ma ugualmente pervasivo dal punto di vista sociale anche se più decentrato o disseminato e conseguente alla diffusa preoccupazione sociale, nei partiti e nei sindacati, nella Chiesa e nell’istituzione scolastica, nei gruppi economici e nell’ambito della ricerca universitaria, di difendere posizioni variamente articolate e distribuite di potere, di privilegio, di influenza politica e culturale, per cui lentamente ma inesorabilmente, a fronte di un iniziale e tumultuoso sviluppo economico-sociale postbellico, sarebbero venute creandosi inefficienze produttive ed abusi di qualunque genere, tanto a livello individuale che collettivo, in primo luogo proprio per un tale eccesso di autoritarismo disseminato nelle aule parlamentari e nella pubblica amministrazione, nei tribunali come nelle aziende e negli ordinari luoghi di lavoro, nella scuola e nelle università, nella famiglia e nello stesso libero mondo associativo, per un eccesso di autoritarismo che, inoculandosi e depositandosi gradualmente nelle coscienze e nelle ordinarie pratiche di vita, avrebbe finito per creare molteplici e vistose forme di assuefazione a logiche spartitorie e lottizzatrici, a stili di comportamento colpevolmente prudenti e remissivi, ad arbitrarie e disincentivanti gerarchie di merito, a veri e propri fenomeni patologici di costume. Poi, certo, nell’ultimo trentennio del secolo scorso, sarebbero iniziate ondate di permissivismo sempre meno legate ad istanze razionali ed universali di libertà e sempre più connesse ad esigenze forse troppo a lungo represse di ordine istintuale e voluttuario. Ma, come è noto, il permissivismo è spesso figlio di sistemi non semplicemente autorevoli ed equilibrati ma accentuatamente autoritari che finiscono per propagare e riversare la propria violenza costitutiva sulla vita di quegli stessi soggetti che l’abbiano subìta.

Questo per dire che, probabilmente, a quella che per Gentile doveva essere la meta ideale del fascismo, una democrazia accentrata, si sia giunti nell’era repubblicana. Non è un caso che Aldo Capitini sottolineasse l’esistenza di una sostanziale continuità tra strutture fasciste e strutture democratiche di potere7, continuità che, rendendo appunto “accentrata” la democrazia, per aspetti non secondari della vita nazionale, ne avrebbe determinato l’incompiutezza. La resistenza antifascista avrebbe contribuito quindi a liberare l’Italia dalla dittatura ma non da un centralismo statalista di intonazione fascista che, nel corso dei decenni, avrebbe finito per generare e alimentare uno spirito scomposto, indisciplinato, spesso irrazionale di ribellione o di rivolta e non certo funzionale al perseguimento di quel clima di unità o coesione nazionale assolutamente necessario per affrontare le sfide sempre più difficili e impegnative di quest’inizio di terzo millennio. Si può dire che, in qualche modo, Gentile sia stato ascoltato dai suoi molti eredi, fascisti e antifascisti. Ma, al di là della linea ereditaria che può essere istituita tra l’idea gentiliana di statualità e di autorità statuale e la ricezione che ne avrebbero avuto, più o meno consapevolmente, generazioni di intellettuali successive alla sua, cosa si può ancora apprezzare dell’attualismo filosofico proposto da Gentile?

Come già accennato in apertura non mi sembra preconcetto, pur nel qualificare Gentile come insigne filosofo, il non annoverarlo tuttavia tra i più importanti filosofi del novecento. Se ne devono certo ricordare le valenti capacità di studioso della tradizione umanistico-rinascimentale e della cultura risorgimentale ma non si può omettere di sottolineare lo specifico carattere “ideologico” e la curvatura tendenzialmente dogmatica e metafisica del suo orientamento interpretativo, così come è doveroso valorizzare spunti e suggerimenti talvolta preziosi del suo pensiero educativo e pedagogico ma anche rilevarne limiti o insufficienze sotto il profilo squisitamente metodologico e didattico, e coglierne poi la forte valenza etica dell’impegno teorico-politico pur senza ignorare o attenuare il peso delle distorsioni e delle mistificazioni che vi sono contenute.

Molto più arduo è invece, contrariamente a quanto alcuni oggi presumono, sostenere la portata europea della sua filosofia e tentare di indicare nel socialismo uno degli elementi costitutivi e qualificanti del suo stesso fascismo8. Per quanto riguarda infatti la prima questione, non sarà certo qualche vaga o generica analogia, qualche somiglianza del tutto occasionale e involontaria con grandi filosofi come Husserl o Heidegger a rendere «filosofo europeo» Giovanni Gentile. Già molti anni or sono c’era chi, con garbo ma con puntualità, osservava che Gentile, proprio «nel secolo di Kant», apparve disattento «verso il dibattito neokantiano e in generale verso tutte le “rinascite” kantiane d’inizio secolo» e «curiosamente e pedantemente interessato al dibattito fra i logici “hegelisti”, da Fischer a Trendelenburg», mostrandosi dunque scarsamente sensibile «al contemporaneo dibattito europeo»9. Quanto alla seconda questione, il filosofo di Castelvetrano non potette essere socialista o seriamente interessato alla tematica socialista, non solo perché disconobbe o intese riduttivamente il reale significato teorico-scientifico e lo specifico valore etico-politico del marxismo, ma anche perché fu mosso sovente da un istintivo e incontrollato sentimento di odio verso comuni militanti e simpatizzanti socialisti e comunisti da lui sprezzantemente definiti «sovversivi» e «demagoghi» privi di ideali, nonché fautori dell’«ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico»10

Gentile è antiliberale, antipopolare e antimassone, né si mostra tenero verso i cattolici, pur facendo professione di fede cattolica, ma, nonostante certa pretenziosa e giovanile esegesi volta oggi a recuperare l’immagine di un Gentile sensibile interprete dell’opera di Marx, è soprattutto antisocialista e anticomunista, dal momento che, nonostante i suoi limiti interpretativi, scorge nella tradizione socialista e comunista la minaccia più pericolosa per la sopravvivenza e la piena realizzazione dello Stato fascista. Anzi, è solo per ragioni di tattica politica che preferisce talvolta configurare il fascismo non come negazione ma come perfezionamento e superamento dell’ideale socialista. Solo per ragioni di tattica politica. Si dichiara infatti consapevole che tra l’universo fascista e quello comunista sussistano differenze sostanziali e irriducibili, sia sul piano filosofico che su quello economico e sociale, e finisce per operare una grottesca distinzione tra l’«inumana violenza» dell’ideologia comunista e la «santa violenza» del credo e dell’attivismo fascisti11.

Una terza questione, che meriterebbe di essere chiarita una volta per tutte, è quella relativa alla tesi in tempi recenti sempre più enfatizzata, secondo la quale l’uomo Gentile avrebbe dato prova di straordinaria nobiltà d’animo e integrità morale affrontando fino alla fine il suo destino con dignità e coerenza. Ma, in realtà, è una questione ancora oggi molto complessa su cui probabilmente il giudizio dovrà restare sospeso ancora a lungo, perché non c’è dubbio che egli, pur andando incontro alla morte violenta in modo non pavido ma cosciente, sereno e sempre prodigandosi con generosità e altruismo verso gli intellettuali non fascisti di estrazione laica, socialista o cattolica (si pensi, solo per fare alcuni dei nomi più illustri, a quelli di Antonio Banfi, Concetto Marchesi, Cesare Luporini, Rodolfo Mondolfo, Eugenio Garin, non tutti capaci poi di manifestare riconoscenza e di manifestarla nello stesso modo), come uomo e come filosofo, per quanto al fascismo non dovesse certo né la carriera, né la notorietà, entrambe già consolidate prima di essere chiamato ad assumersi specifiche responsabilità politico-governative, non avrebbe mai sentito il bisogno morale di rompere né con il regime, né con il Gentile teorico mistico del potere fascista12: neppure in presenza di eventi drammatici quali l’assassinio di don Giovanni Minzoni nell’agosto del 1923, e di Matteotti nel 1924, l’arresto e il calvario di Gramsci, e di innumerevoli azioni delittuose compiute dal fascismo contro luminose figure del fronte antifascista, che non sembra ne abbiano mai scosso sensibilmente la coscienza e intaccato minimamente la mistica e fanatica fede nella genialità del Duce.

Questo è il dato di fondo su cui può e deve essere misurato il valore complessivo dell’asserita generosità gentiliana persino nei confronti di alcuni avversari perseguitati dal regime fascista. Personalmente non ho mai pensato che Gentile abbia fatto propria l’ideologia fascista ma che la sua concezione filosofica ed etico-politica del mondo e della società italiana del primo ventennio del secolo XIX potesse ben attagliarsi creativamente al sistema fascista voluto da Mussolini, e ricordo di averlo sostenuto da giovane studente universitario a Firenze nel 1971, sulla base di una ricerca molto seria e documentata anche se ovviamente incompleta, nel corso di un seminario di studi di Storia del Risorgimento tenuto dal professor Ernesto Ragionieri, noto notabile dell’intellettualità comunista del tempo. Sostenni sostanzialmente allora, in parte, lo stesso giudizio che avrebbero sostenuto molto tempo dopo alcuni studiosi, tra i quali in particolare James R. M. Wakefield, il quale, nel porre al centro della sua analisi il problema del rapporto in Gentile tra il suo pensiero filosofico e la sua adesione politica al fascismo, ai fini di una rivalutazione e riattualizzazione del Gentile filosofo rispetto al Gentile politico ed esponente di punta del regime fascista, avrebbe ripreso e sviluppato il giudizio espresso da uno studioso italiano come Alessandro Amato qualche anno prima, secondo cui il filosofo Gentile non sarebbe stato «stato l’utile idiota o l’accolito acritico di Mussolini, come supposto da alcuni critici, ma un pensatore indipendente, consapevole e fortemente originale, che rappresentava una voce razionale e di coscienza dall’interno del Partito, esattamente come i suoi oppositori, come Benedetto Croce, facevano dall’esterno … Gentile non fu un mero ideologo acritico che dava ai propri argomenti la direzione voluta dai suoi committenti, ma un pensatore serio e autonomo cui soltanto capitò di sviluppare le proprie idee all’interno dell’apparato politico che gli era disponibile ai suoi tempi» (James R. M. Wakefield, L’attualismo e il suo autore. Prospettive per la ricerca futura su Gentile, in “Il Pensiero Italiano. Rivista di Studi Filosofici”, 2017, n. 2, vol. 1, p. 53 e p. 55, pp. 47-67).

Condivisi e condivido in parte tale giudizio, ovvero per la parte che si riferisce all’indipendenza gentiliana di giudizio rispetto alla grezza e informe ideologia fascista delle origini e alla speranza di poterla modellare secondo propri princìpi filosofici ed etico-politici, ma non per la parte relativa alla presunta, particolare originalità filosofica riconosciuta a Gentile, pur senza disconoscerne gli indubbi meriti di studioso e promotore di cultura, così come parzialmente avrei condiviso anche il giudizio di Emanuele Severino, per il quale «non era Gentile a essere fascista, ma il fascismo a tentar di essere gentiliano. Gentile è stato uno dei grandi gestori del “grande turbine”» (che travolge storicamente i valori, la tradizione, le stesse strutture statuali dello Stato): «il suo pensiero è profondamente antiassolutista e antitotalitario, Mussolini non lo capiva» (E. Severino, Intervista di Silvia Truzzi, “Ecco perché la giovane Italia va in malora”, in “Il Fatto Quotidiano” del 17 dicembre 2013). Anche in questo caso la seconda parte non mi sarebbe parsa condivisibile, e cioè l’affermazione di un Gentile non assolutista e non totalitario.

Ecco: nel frangente che ricordavo del mio esame seminariale, mi vidi assegnare da Ragionieri, autorevole membro della classe dirigente del PCI, il voto più basso, un 26, di quelli dati agli altri miei 19 colleghi interni di corso, che, avendo fatto in modo che potessero essere riconosciuti per il loro credo marxista e comunista, non avevano avuto bisogno di fare il minimo sforzo per procurarsi comodamente un 30 e lode politico! Erano tempi in cui vigeva la Giustizia proletaria, anche se oggi, negli esami e nei concorsi universitari che si svolgono nel contesto del “politicamente corretto”, molto spesso continua ad essere imperante quella stessa logica lassista, corrotta e antimeritocratica. La verità era che, né in quel caso, né successivamente avrei certo inteso essere clemente verso Gentile, ma allora bastava dire che Gentile non fosse fascista nel senso in cui lo erano Mussolini e compagni e che piuttosto considerasse il loro fascismo come un materiale grezzo o volgare da modellare, sul piano filosofico e culturale, secondo universali princìpi di spiritualità e civiltà etico-giuridica, per essere tacciati o sospettati di filofascismo.

Non intendevo e non intendo essere clemente verso Gentile ma, d’altra parte, per dimostrarlo non ho mai pensato di essere costretto a denigrarlo ben oltre i limiti del lecito, come avrebbero fatto tanti suoi avversari o finti estimatori, spesso peggiori di lui, e a disconoscere la legittimità di alcuni atti di accorata indignazione che si sarebbero levati all’indomani della sua tragica morte13. E così, anche sui giudizi lodevoli spesso espressi sull’ultimo Gentile, cioè sul Gentile presunto pacificatore del “Discorso agli italiani” da lui tenuto a Roma in Campidoglio il 24 giugno del 1943, ci sarebbe da ridire, perché in realtà proprio quel Discorso costituisce, ne fosse o meno consapevole il suo autore, il culmine di un delirio filosofico-politico che era iniziato più di vent’anni prima.

Gentile qui continua, infatti, a professarsi fascista, a ripetere che gli italiani, in quanto tali, sono «tutti virtualmente fascisti», a rivendicare per il fascismo il carattere di «grande rivoluzione», a bollare come «falsa libertà» e come «bastarda tirannica libertà … la libertà del regime parlamentare, mentre tende a minimizzare gli «errori del Fascismo» in quanto essi sarebbero «gli errori inevitabili di ogni vasto moto rivoluzionario», rivolgendo ad un tempo accuse durissime a coloro che reputa «traditori della patria» e ribadendo il dovere civile degli italiani di non sottrarsi alla guerra in corso contro le potenze straniere e in particolare contro l’Inghilterra, «l’esecrata tiranna di ieri, la tiranna certamente spietata di domani»14. Che, come si vede, sono un linguaggio e concetti ben poco concilianti e pacificatori, per cui, benché quel «bisogno di concordia degli animi», ancora ribadito da Gentile in un successivo articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” in data 28 dicembre 1943 e intitolato “Ricostruire”, fosse certo oggettivo e legittimo, non si vede proprio come fosse e come sia stato possibile, anche e specialmente in periodi molto recenti, tentare di accreditare l’immagine di un Gentile pacificatore degli italiani15. Di nobile appello alla pacificazione e di potente «richiamo all’unità fondamentale degli uomini, all’amore contro l’odio, alla pace contro la guerra», di «programma di riunificazione» e di coraggiosa lotta «contro la dispersione, la frammentazione, la discordia», aveva parlato anche Eugenio Garin nelle sue celebri “Cronache di filosofia italiana”16; ne aveva parlato in buona fede e per tributare più che altro un ricordo riconoscente a Gentile nei confronti del quale, al pari di tanti altri intellettuali italiani non sempre ugualmente capaci di gratitudine, aveva contratto un debito intellettuale e umano.

Tuttavia, Garin non scriveva il vero, perché, sempre in riferimento al Discorso gentiliano, non si trattava di distinguere tra una nobiltà di intenti gentiliani e le occasionali cadute «propagandistiche» in esso presenti, ma di cogliere la natura o la radice corposamente propagandistica di un’iniziativa volta di fatto ad alimentare l’illusoria e anzi la disperata speranza di un’improbabile risurrezione dell’ormai putrescente cadavere fascista17. D’altra parte, Gentile non avrebbe mai disdegnato di esercitare il potere che Mussolini gli aveva offerto nel conferirgli l’incarico di ministro della pubblica istruzione, e sarebbe stato sempre ben consapevole sia dei vantaggi sia anche dei rischi che la sua attività politica, al fianco del dittatore Mussolini, avrebbe comportato. E’ anzi verosimile che, con il passar del tempo, Gentile, sempre più figura di spicco del regime e non poco invisa ai suoi molti nemici politici, cominciasse a percepire un concreto pericolo per la sua stessa vita e che la percezione della morte, da sempre tra i temi più ricorrenti della sua riflessione filosofica insieme a quello religioso, finisse per trasformarsi in un’idea ossessiva specialmente negli ultimi anni della sua esistenza.

     2. Proprio la problematica religiosa e la meditatio mortis costituiscono insieme, soprattutto dal punto di vista cattolico, una importante cartina di tornasole della natura, del significato e del valore, dell’impegno teorico e spirituale gentiliano. Per Gentile, il cattolicesimo aveva una duplice valenza religiosa: una dogmatica e teologica e una critica e filosofica. Dogmatica e teologica per i fedeli e i credenti comuni, critica e filosofica per gli intellettuali e le persone di elevata cultura. Il filosofo, per Gentile, non poteva accontentarsi delle comuni verità di fede, né delle riflessioni teologiche cui esse potessero indurre, avendo l’esigenza di coglierne piuttosto i nuclei e i significati razionali originari e costitutivi. In tal senso, posto che l’essere è nel suo divenire e non nella sua astratta o immobile identità, argomentava Gentile, immortale sarà l’essere o la realtà nella sua perenne processualità e non l’essere sottratto alla possibilità stessa del suo interno e molteplice sviluppo o di una sua evoluzione. Immortale non è ciò che non conosce movimento, ciò che rimane al di qua o al di là del nascere e del morire, ciò che non conosce né trasformazione, né opposizione, né contraddizione, ciò che non può conoscere corruzione ma solo integrità, né errore ma solo verità, né malvagità ma solo amore, né guerra ma semplicemente pace, ma immortale è l’essere che consiste nel suo perenne movimento, nel suo sussistere come inesauribile tensione tra contrari o opposti, nella sua infinita oscillazione tra vita e morte e tra un morire che è condizione di nascita e di continue rinascite a loro volta cariche di ineluttabile mortalità. Questo intende dire Gentile quando afferma che «non si vive se non morendo continuamente»18.

Se l’essere di Dio è il Tutto, la sua immortalità consiste nel fatto che la vita immortale di questo Tutto si manifesta e si scandisce nell’infinita, eterna, bruciante dinamica di continui stati di nascita e di morte, per cui tutto ciò che si conosce sul piano del sapere viene sempre ri-conosciuto e quindi ogni volta realmente conosciuto e tutto ciò che spiritualmente si ama viene amato in modo sempre nuovo e quindi ogni volta realmente amato. In questo vorticoso e permanente succedersi di pensieri, di sentimenti e di vite, nulla va perduto, nulla va smarrito, ma tutto resta nel suo essere, tutto sopravvive, sempre ricco di significato e di valore, ai particolari, singolari e determinati momenti della sua universale e inesauribile ciclicità ontologica. Anche gli esseri umani, nella loro struttura creaturale, trovano l’immortalità nella loro più elevata capacità spirituale di fare del loro pensiero «la coscienza del Tutto» infinitamente mobile, o meglio «il Tutto nel suo atto assoluto (coscienza)»19. Alla fine il pensiero e ogni pensiero, intimamente organici allo spirito, sono tramite, mezzo attraverso cui lo spirito pensa se stesso ponendosi come oggetto, come alter, creandosi quindi ed eternamente sviluppandosi (autoctisi). E’ così che l’uomo, capace di cogliere il Tutto non come particolare o nelle sue particolarità fenomenologiche (intelletto) ma come universale o nella sua concreta universalità (ragione), partecipa dell’immortalità e dell’eternità di Dio nel quadro di una coesistenza spirituale di passato, presente e futuro, resa possibile dal pensiero in atto, ed è così che la sua vita di individuo e di specie acquista immortalità tanto nella temporalità materiale quanto nella intemporalità logica e spirituale, tanto nella molteplicità dell’esperienza storico-empirica quanto nell’atto unificante e unitario del pensiero in cui tale molteplicità si nega e si annulla per risorgere ogni volta sotto una luce diversa e più rarefatta, più pura, più creativa.

Alla luce di questa impostazione, il problema della morte e dell’immortalità, ancor prima e più che un problema religioso, appare a Gentile una «questione filosofica», precisa nel giugno del 1920, o religiosa «se non in quanto tutte le questioni morali e filosofiche hanno pure aspetto religioso»20. Egli non disconosce certo una regola di buon senso quando riconosce che l’uomo ovviamente «non è eterno» ma, precisa, «come dice Dante, si eterna. Ma l’uomo che pensando si eterna, non è quello che viene a collocarsi nella storia ed è perciò un oggetto del pensiero, ma l’uomo pensante in quanto tale. Nel concetto di questo uomo è il segreto della vita»21. Ora, si danno due modi di concepire l’immortalità: il primo la fa iniziare oltre la vita mortale e il mondo naturale; il secondo la fa coincidere «con la stessa vita mortale, se in questa si consideri non il male che passa, ma il bene che resta; non le miserie … ma le opere eccellenti della virtù dell’arte e della scienza»22. Nel primo caso, immortale viene considerato «tutto l’uomo, in quello che ha di divino e in quello che ha di bestiale; in quello che non deve e non può mai morire e in quello che non dovrebbe mai nascere e che nell’uomo degno del suo nome infatti non può nascere»; nel secondo caso, invece, «di noi deve sopravvivere solo quello che manifesta la nostra natura, di cui ogni atto non è mai individuale, come cosa nostra e non d’atri, ma universale, del Tutto, di Dio: è la virtù in cui s’esalta tutta l’umanità, è l’inno del poeta che riecheggia in tutte le anime come voce di tutti; è la verità che affratella tutte le menti in un solo pensiero, che non è di nessuno in particolare»23.

Per Gentile, la seconda opzione rende più coerentemente giustizia all’istanza di una spiritualità che venga caratterizzandosi per tutto ciò che venga inscrivendosi nella sfera della sua razionalità e della sua eticità universali e della sua stessa intenzionalità logico-pratica e non per ciò che vi si contrapponga frontalmente, non per il delitto o il peccato di cui cristianamente ci si può pentire ma che in quanto oggetto di pentimento non sia più, non sia tout court, donde ne consegua solo l’essere di ciò che possa essere pensato come dotato di significato e di valore, quindi di eideticità logica e morale. Gentile sembra ignorare la lezione evangelica e paolina per cui, in assenza dei comandamenti e della grazia di Dio, anche il male può confondersi con il bene e assumere carattere di razionalità teorico-pratica, e in ogni caso sembra dare per scontato che si diano oggettivi, univoci e sufficientemente sicuri criteri di discernimento, di demarcazione tra l’ambito razionale del vero e del giusto e l’ambito irrazionale del falso e dell’ingiusto.

In realtà, il rapporto tra il razionale e l’irrazionale è molto meno scontato e più problematico di quanto al filosofo siciliano non apparisse ed è molto più faticoso dipanarne le complesse trame che vi si stabiliscono, così come più ingarbugliato di quanto egli ritenesse è il rapporto tra coscienza morale-volontà e intelletto-ragione. Secondo Gentile, la logica non può presupporre un Logos, come quello evangelico e cristiano, rispetto al pensiero che invece, a suo parere, lo realizza spiritualmente realizzando se stesso in un perenne divenire concettuale e, al tempo stesso, morale ed esistenziale. Il pensiero non può essere trasceso da Dio potendo Egli sussistere solo nel pensiero e come pensiero di Dio, così come nel pensiero e come pensiero può sussistere il mondo più di quanto noi saremmo nel mondo. Ma, poiché, alla luce dell’unità della vita spirituale, la logica non poteva poi che convertirsi in etica, come il vero in bene, anche sul piano etico accadeva che il bene non potesse essere presupposto alla volontà, all’atto morale che lo faceva essere semplicemente attuandolo attraverso una complessa e faticosa lotta interiore. Solo in tal modo sarebbe risultata chiara la reale possibilità/capacità dell’uomo di scegliere e volere il bene, dal momento che, in caso contrario, l’uomo si sarebbe trovato ad essere scelto e voluto dal bene e solo un uomo privo di libertà di scelta e decisione. L’essere, come il vero, come il bene, non sono in quanto si rivelano nella loro struttura originaria e immutabile, ma sono proprio in quanto si svelano nella stessa dinamica e inesauribile attività del pensiero. Lo stesso essere di Dio non può sussistere se non nel pensiero e come pensiero di Dio, per cui Dio non può trascendere il pensiero.

Non più un soggetto, da una parte, e un oggetto, dall’altra, ma un oggetto che si dà, con un crescente indice di universalità, nell’atto stesso in cui viene concepito e posto, attuato, in forma dinamica e inesauribile, dal pensiero creatore in atto. Tutto questo comportava, in Gentile, lo svelarsi dell’essere non in quanto io, ma in quanto Io, non in quanto io empirico, ingenuo, dogmatico, ma in quanto Io universale, trascendentale, sempre in fieri, di cui ciascuno di noi è solo una delle infinite manifestazioni. In tal modo Gentile cercava anche di radicare il Tutto, il Reale, Dio stesso, nel cuore dell’uomo, senza residui metafisico-ontologici di natura trascendente, per cui lo spazio della religiosità non restava più al di qua o al di là dell’uomo, non più in un rapporto dell’uomo con un piano dell’essere antecedente e indipendente, ma finiva per coincidere con l’infinita processualità del pensiero in atto, là dove tuttavia il risultato effettivo di tale operazione, a dispetto dell’ingegnosa o della bizzarra teoresi gentiliana, era quello per cui il pensiero, nella pretesa di essere esso stesso divino, veniva decapitato di Dio, del suo stesso Logos, del suo fondamento e del suo scopo ultimi24.

Molto più conseguente sarebbe stata la rinuncia a qualsiasi velleità teoretica di natura spiritualistico-religiosa, che però era proprio ciò che serviva a Gentile, sul piano filosofico e critico-razionale, per contendere alla Chiesa il primato della spiritualità e della religiosità. Per lui, «la vera trascendenza» consisteva «nell’autotrascendersi nel vivo processo dell’autocoscienza»25, mentre il significato speculativo del cristianesimo si riduceva ad essere quello per cui «a fondamento della distinzione necessaria tra Dio e l’uomo si debba porre un’unità, la quale non può essere se non l’unità dello spirito; che sarà spirito umano in quanto spirito divino, e sarà spirito divino in quanto pure spirito umano»26. La filosofia è intrinsecamente religiosa e cattolica, mentre la religione necessita della filosofia affinchè i suoi stessi contenuti dogmatici, le sue verità teologiche, possano essere pensati e ripensati continuamente, intesi, vissuti e rivissuti, su sempre nuovi e più elevati livelli veritativi. Che era, tuttavia, un sofisma radicalmente insufficiente a riprodurre la natura complessa e invariabilmente enigmatica del rapporto tra l’umano e il divino. Peraltro, l’intellettualismo e il volontarismo attualistici di Gentile avrebbero forse costituito il sostrato della sua teorizzazione di unità tra teoria e prassi, e appariva tuttavia evidente che quella postulata unità rimanesse fortemente pensata muovendo pur sempre dal punto di vista della teoria, e anzi restando all’interno di esso, e non da quello della prassi la cui oggettiva alterità rispetto al pensare, al di là di qualsivoglia dinamica dialettica, è strutturale e irriducibile.

Che il giovane Gramsci abbia condiviso per un tratto della sua vita intellettuale il vitalismo volontaristico- antideterministico e l’evasivo misticismo logico gentiliani, come anche altre suggestioni filosofiche (Sorel, Bergson, Péguy, Labriola), è probabile oltre che comprensibile, ma l’idealismo gramsciano, nelle sue forme più mature e compiute, non si sarebbe mai nutrito di astratto teoricismo e di retorica spiritualità bensì di una carnalità umana che cerca le vie della sua liberazione materiale e spirituale attraverso una lotta incessante di pensiero critico e di impegno etico-politico contro le molteplici e permanenti alienazioni e mistificazioni di specifiche forme di esistenza storica. Lo stesso concetto vale per il pensiero cattolico per il quale la conoscenza del reale, delle cose ultime, dell’assoluto non resta avviluppata nelle spirali dialettiche e teoricistiche del pensiero puro o del pensiero in atto ma si apre e si affida principalmente alla grazia e all’illuminazione di un Dio, certo in qualche modo presente in tutte le manifestazioni dell’intelligenza e della sensibilità umane e tuttavia sempre radicalmente trascendente rispetto alle molteplici e variamente significative forme storico-fenomenologiche della spiritualità umana.

Se, per Gentile, l’assoluto divino inerisce la trama eternamente diveniente dello spirito-pensiero fino ad essere tutt’uno con quest’ultimo, per il pensatore cattolico educato all’insegnamento della Tradizione e del complessivo magistero ecclesiale, oltre che allo studio e alla retta interpretazione dei sacri testi, tra lo spirito e il pensiero storico-umani e lo spirito e il Logos di Dio resta uno scarto incolmabile, irriducibile, di carattere quantitativo e qualitativo, e la divinità si pone come un’alterità radicale non suscettibile di poter essere compiutamente assimilata e risolta nella pur incessante dialettica del pensiero. Solo in quanto il divino gratuitamente venga rivelandosi all’umano, può consentire a quest’ultimo di esercitarsi criticamente, a mezzo del pensiero, in una inesauribile e parziale ma corretta e significativa ricerca di senso. Ciò significa che la razionalità umana può recepire per approssimazione l’essere di Dio, senza mai potersi con esso identificare, che è poi l’accorgimento preposto ad impedire qualsivoglia forma di panteismo logico e anticreazionistico27. Quel che resta totalmente estraneo al pur rivendicato cattolicesimo gentiliano è il principio dottrinale e sacramentale cattolico per cui la comunione tra Dio e uomo non è comunione tra identici ma tra diversi e opposti.

Per tutto ciò, nonostante l’insistente professione gentiliana di fede cristiana se non proprio cattolica, come talvolta cercava cautelativamente di precisare, non poteva che avere ragione padre Agostino Gemelli nel bollare apertamente il pensiero di Gentile come “eretico” e “anticristiano”, pur riconoscendone l’apertura morale, giuridica, politica e culturale al cattolicesimo e alla sua prerogativa di essere la forma più alta di spiritualità umana, nonostante l’esplicito disaccordo manifestato dal teorico dell’attualismo sul Concordato del 1929 che, a suo giudizio, comprometteva la laicità dello Stato. La presa di posizione polemica gentiliana rispecchiava in effetti la pretesa di fare della filosofia l’inveramento del cristianesimo, quasi che la Parola di Dio avesse bisogno di una legittimazione filosofica perché se ne potesse riconoscere l’universalità e non potesse al contrario fungere essa da principio ispiratore del libero pensiero razionale. Gemelli si oppose validamente al duplice tentativo gentiliano di assorbire il cristianesimo nell’attualismo e la Chiesa nello Stato, in uno Stato peraltro fascista. Nel corso del VII° Congresso Nazionale di Filosofia, tenutosi a Milano nel 1929, nonostante le reiterate proteste di Gentile, Agostino Gemelli, pur riconoscendogli il merito storico di aver riformato la scuola e l’università, non avrebbe rinunciato a ribadire con voce ferma e perentoria il suo convincimento: «nulla vi è di più anticristiano; ed è bene dirlo perché nulla vi è di più dissolvitore dell’anima cristiana dell’idealismo, perché nessun sistema filosofico è tanto negatore del fondamento cristiano della vita quanto l’idealismo, anche se esso usa le nostre parole: cristiano, cattolico, fede religiosa», ecc.28.

In realtà, tra la teoresi religiosa gentiliana e la teoresi ricavabile dalla dottrina evangelica e cristiana, non solo cattolica, sussistono differenze inconciliabili, intanto perché la compenetrazione spirituale tra Dio e uomo non si configura cristianamente come identità umano-divina immediata e necessaria, come assoluta identità ontologica di volontà divina e volontà umana, ma solo come tensione partecipativa tra creazionale spiritualità-volontà divina e creaturale spiritualità-volontà umana, quindi come possibile reciproca compartecipazione tra due strutture spirituali qualitativamente diverse e non come costitutivo e indissolubile legame identitario tra esse; in secondo luogo giacché l’io evangelico cui è rivolto il messaggio salvifico di Cristo coincide con il concreto io empirico, con la persona singola intesa come unità di anima e corpo non indipendente ma autonoma rispetto all’assoluta sovranità di Dio, non già, come in Gentile, con un io empirico, transitorio, attraverso cui verrebbe manifestandosi ineluttabilmente, per una sorta di imperscrutabile necessità logico-spirituale, l’Io trascendentale e veramente universale, allo stesso modo di come anche la società naturale, empirica, storica, apparentemente svincolata da qualsivoglia realtà religiosa e da qualunque imperativo ordine divino, e nella cui processualità verrebbe esplicandosi gentilianamente la vita dell’essere divino, costituisce nel filosofo siciliano il momento sempre finito e transitorio del divenire della società trascendentale che è quella in cui, al pari dell’Io trascendentale, hanno luogo continui disfacimenti e continue rinascite, infinite morti e infinite nascite, nel quadro appunto di una logica trascendentale in cui le vite particolari dei soggetti umani e delle formazioni storico-culturali collettive trovano sistematicamente la loro fine ma solo per consentire il perpetuarsi del poliedrico essere universale dello Spirito, il realizzarsi senza soluzione di continuità dell’assoluto Logos del mondo e della storia.

Per Gentile l’assoluto, l’Eterno, l’Immortalità, non cominciano al di là della temporalità, della finitezza esistenziale dei singoli e delle comunità storiche, ma già in esse per attraversarle e superarle infinite volte nell’atto di significazione unitaria ed eterna del pensiero: l’immortalità, scrive Gentile, non è quella creduta e sperata di un problematico al di là, ma quella effettiva e reale (attuale), «che ognuno sperimenta in se medesimo», pensandola partecipativamente come condizione di vita che travalica ogni morire, «in quanto vivere è pensare, e il pensiero è eterno», per poi concludere con il consueto argomentare confuso e involuto: «L’immortalità certa del morente è questa immortalità nostra, universale dell’Io che si incorpora in ogni corpo e si disfa d’ogni corpo che non corrisponda più all’esigenze — ossia, all’essenza — della sua vita (l’unica vita che ci sia)»29.

L’uomo, lo stesso cristiano, che ambisce alla propria immortalità personale, in realtà la confonde con la perpetuità, ovvero con il mantenimento della sua identità personale sia pure trasfigurata in un mondo molto diverso rispetto al mondo terreno, il che per Gentile, come avrebbe ribadito ancora nel postumo Genesi e struttura della società30, era da considerare come manifestazione di egoismo e di immoralità. Ma, proprio nel sostenere ciò, egli avrebbe dimostrato la sua profonda ignoranza biblico-evangelica, dottrinaria, teologica ed ecclesiale, se non addirittura la sua tracotante pretesa speculativa di correggere o modificare la stessa volontà sovrannaturale di Dio. Non se ne rendeva conto il suo inquieto allievo Ugo Spirito che, mentre si illudeva di esaltare l’acume critico del maestro, finiva in realtà per riconoscerne, suo malgrado, l’orientamento per niente cattolico: «Cristiano e cattolico è morto, dunque, il Gentile, ma purché per cattolicesimo s’intenda la negazione della immortalità come perpetuità. Per chi intenda invece il cattolicesimo proprio nel senso della sopravvivenza in un altro mondo, le ultime pagine del Gentile rappresentano la critica più implacabile che di esso sia stata compiuta»31.

Ma, al di là della complicata e contorta astrattezza del ragionamento gentiliano, e a prescindere dalla sua sostanziale insignificanza esistenziale e religiosa, se il mondo e ogni possibile mondo dovessero avere fine da un momento all’altro, e non si vede perché ciò non potrebbe accadere, potrebbero ancora sussistere l’Io trascendentale, il Logos assoluto sempre parimenti trascendente e immanente, lo Spirito eternamente oscillante tra storia e metastoria, il Dio-Pensiero dell’infinita morte e dell’infinita vita, lo stesso Pensiero come atto puro, posti da Gentile al centro della scena filosofica, oppure si sarebbe costretti provocatoriamente a riconoscere che Dio, l’Assoluto, lo Spirito divino, possono fare anche a meno, ai fini del loro sussistere logico-ontologico, della vita empirica, della storia, del sapere filosofico, dell’autoctisi?   

Per questi motivi, Gentile non poteva essere né cattolico, né cristiano, perché non è né l’autocoscienza, né il pensiero come atto puro, che possono determinare l’oggettiva sussistenza di Dio e l’eternità delle verità e dei valori spirituali, e della vita stessa, in esso radicati. D’altra parte, è lui stesso che, dopo aver definito sia il cattolicesimo, sia la filosofia europea moderna, come «le più alte creazioni dello spirito ariano» (!), riconosce e dichiara apertamente che «della dottrina cattolica, come di tutte le dottrine, accetto e ho sempre accettato la parte positiva; ma combatto, come ho sempre combattuto, la parte negativa»32. Ancora nel 1943, un anno prima della morte, dava prova di non capire che cattolici si è integralmente, si è per intero, o non si è, pur essendo dovere e diritto del cattolico approfondire lecitamente, senza travisamenti di sorta, il significato delle verità della fede, lo spirito e il senso dei precetti biblico-evangelici: «Credete voi che il mio non sia il cattolicismo ortodosso? Sono del vostro stesso parere. Ma resta a voi di capire perché la mia concezione religiosa della vita non si possa non dire cattolica: sia pure d’un cattolicismo a modo mio»33. E’ pertanto incomprensibile, anche se pur sempre degna di rispetto, l’ostinazione del filosofo del fascismo nell’aver voluto fare professione di fede cattolica contro le puntuali e doverose contestazioni di padre Gemelli e della Chiesa universale che, nel 1934, avrebbe messo all’Indice dei Libri proibiti le opere di Gentile insieme a quelle di Benedetto Croce.

L’eternità, l’immortalità, la vita universale, nel senso più proprio di tali termini, non sono quelle che possono scaturire dagli involuti e artificiosi giochi dialettico-teoretici del pensiero che si serve del mondo, del tempo e della storia, per legittimare le sue costruzioni speculative, ma quelle che, pur entrando nella storia degli uomini come aspirazioni dell’anima, potrebbero essere realmente sperimentate e conosciute solo come gratuito dono divino: oltre il mondo, la vita, la storia. Peraltro, nell’ottica cristiana, contrariamente il crisma dell’immortalità e dell’eternità non viene riferito solo ai pensieri nobili, alle azioni virtuose, alle gesta degne di lode, ma anche ai pensieri più meschini e malvagi, alle azioni più perverse, alle gesta più deprecabili e deplorevoli cui non accada mai di essere o diventare oggetto di sincero pentimento: gli esseri umani potranno godere di vita immortale ed eterna nella gloria e nella beatitudine oppure anche nella vergogna e nell’infelicità. 

Fu certo incresciosa e sconsiderata la violenta soppressione fisica di Gentile, sia sul piano umano, sia sul piano intellettuale e storico-filosofico, e già diversi decenni or sono diversi addetti ai lavori e semplice gente istruita premevano sulle giovani generazioni perché i meriti di Gentile non fossero dimenticati34, tra cui probabilmente il merito di enorme significato umano e morale di aver criticato pubblicamente l’antisemitismo del regime fascista, anche dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, e  di essersi molto prodigato a favore di molti intellettuali ebrei come Paul Oskar Kristeller, per salvare il quale non aveva esitato a rivolgersi allo stesso Mussolini, e come Rodolfo Mondolfo, Giorgio Levi Della Vida, Arnaldo Momigliano, Richard Walzer, Isacco Sciaky, Gino Arias, Alberto Pincherle, Gina Gabriella Racca sposata con un ebreo. Da notare anche che Gentile, il 28 maggio del 1943, aveva voluto rendere omaggio pubblicamente, alla Normale di Pisa, suscitando emozione persino nel fronte antifascista, al suo indimenticato «maestro di scienza e di vita» Alessandro D’Ancona, anch’egli ebreo e morto nel 1914 [35]. Sebbene non sappia se quegli appelli a non dimenticare prescindessero da quella che Gramsci definiva come l’oggettiva «rozzezza incondita del pensiero gentiliano» e dalle sue altrettanto evidenti «astruserie», «macchinosità» e «oscurità» teoriche ed espositive36, e sebbene non sappia stabilire fino a che punto la generazione alla quale appartengo si sia criticamente e «sadicamente» accanita contro Gentile37, condivido quegli appelli e quella preoccupazione.

Ma il punto, forse, è anche un altro: filosofi come Giovanni Gentile non possono e non devono essere dimenticati anche per non perdere o per potenziare l’abitudine a difendersi da chi, con astuta e talvolta raffinata sapienza, pretende di educare gli uomini alla libertà attraverso insegnamenti scientemente finalizzati al mantenimento o all’avvento di dispotici e iniqui sistemi di potere38. E’ dunque innanzitutto in questo senso che, senza dimenticare Gentile, si potrà lavorare a costruire un’Italia più colta e civile, più libera e giusta.    

                                                              Francesco di Maria                                                                                     

NOTE

1 Si allude polemicamente a G. Gallino, Giovanni Gentile. L’apologia del pensiero, Firenze, Le Lettere, 2018.

2 Cfr. G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995.

3 Come invece accade, per esempio, in un libro come V. De Luca, Giovanni Gentile. Al di là di destra e sinistra, Chieti, Solfanelli, 2017.

4 Anche nell’improbabile caso in cui la sua produzione filosofica fosse stata, come qualcuno ha sostenuto, più proficua della sua umanità pur compromessasi fortemente col fascismo, non sarebbe stato certo motivo di conforto o di soddisfazione per Gentile, poiché, quando il pensiero corre molto più velocemente e immaginificamente dello sforzo e della fatica reali dell’essere uomini, è molto difficile che esso possa essere ricordato per solidità e originalità: ci si riferisce a Gino Capozzi, Giovanni Gentile. Il filosofo oltre l’uomo, Napoli, Satura Editrice, 2004, che si chiede retoricamente ma avventatamente se le filosofie di Gentile e Heidegger «possono essere considerate alla stregua di ideologie di sostegno al Palazzo … Si può definire Heidegger il filosofo del nazionalsocialismo? Si può definire Gentile il filosofo del fascismo? Penso che nessuno potrebbe dare una risposta affermativa …, nonostante i legami dei filosofi coi regimi al potere nei loro rispettivi paesi all’epoca della loro auge. Sia in Heidegger che in Gentile, il filosofo va oltre l’uomo, per l’universalità delle idee professate che hanno un’influenza che permea la cultura senza particolarità di indirizzo politico se non addirittura di parte», p. 47.

5 Anche se oggi sembrano essere state definitivamente accertate le responsabilità dei comunisti fiorentini nell’esecuzione materiale di quel delitto, a gettare luce su quella che, per lungo tempo, sarebbe apparsa la questione relativa all’incerta identità dei possibili mandanti di quell’atto efferato, è stato in particolare il libro di G. Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Milano, Adelphi, 2014, in cui si mostra come a volere la morte di Gentile potessero essere non solo i comunisti ma anche altri soggetti come gli angloamericani (non si dimentichi che, alla notizia della morte del filosofo, si limitò a comunicare freddamente: “Giustizia è fatta!”), alcuni ambienti massonici come quello facente capo a Licio Gelli, i nazisti operanti in Italia, gli stessi fascisti più oltranzisti, tutti soggetti assolutamente e comprensibilmente contrari, sia pure per motivi diversi e opposti, al tentativo gentiliano di pacificazione nazionale. Ma una recente e, per certi aspetti, più aggiornata ricostruzione di quella vicenda, è contenuta in P. Paoletti, Il delitto Gentile. Esecutori e mandanti, Firenze, Le Lettere, 2005.

6 G. Gentile, Opere, 2 voll. vol. II, Firenze, Le Lettere, 1991, p. 93 e p. 177.

7 Su questo aspetto della critica capitiniana, si possono trovare pertinenti osservazioni anche in F. di Maria, Tra religiosità laica e laicità cattolica. Attraverso il pensiero di Aldo Capitini, Rimini, Libri dell’Arco, 2022.

8 Una rilevanza europea del pensiero gentiliano è quel che ha tentato di sostenere, tra i primi, S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino, Boringhieri, 1989, mentre il libro che ha consentito ad alcuni critici di sostenere, sia pure forzatamente, la presenza di elementi di socialismo in Gentile è il suo noto libro, pubblicato per la prima volta nel 1899: La filosofia di Marx, Firenze, Sansoni, 1974. Tra coloro che hanno visto inesistenti nessi di continuità tra Gentile e Marx, figura anche D. Fusaro: Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2013, dove Fichte funge, nell’interpretazione di questo studioso, come presunta mediazione fichtiana, appunto, tra Marx e Gentile.

9 Ci si riferisce a B. De Giovanni, Etica e religione in Giovanni Gentile, in AA.VV., Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 214-215.

10 G. Gentile, Opere, cit., vol. II, p. 131.

11 G. Gentile, Opere, cit., vol. I, p. 29.

12 Gentile fu di fatto filosofo del fascismo ma non di principio, in quanto nel fascismo dato, di cui scorgeva difetti e anomalie non tollerabili, egli vedeva un’esperienza storico-politica virtualmente corrispondente alla sua idea di Stato e di nazione, quali che ne fossero anche in tal caso i limiti, e su cui egli pensava di poter esercitare un’azione modellatrice quanto più proficua sul piano etico-politico-istituzionale e socio-culturale. Di fatto, tuttavia, fu uomo e intellettuale che, lungi dal disdegnare il potere, ne sarebbe stato sempre molto attratto pur coltivandolo con notevole zelo istituzionale, soprassedendo altresì, non sempre ma in diverse occasioni, alle iniquità compiute dal regime: S. Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, poi rivisto e integrato, con il titolo leggermente mutato: Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, 2004, che ha molto insistito, con toni garbati, sull’indissolubile unità di pensiero e vita, di filosofia e politica, di fede filosofica e fede politica, riproponendo la tesi per cui sarebbe stata la fedeltà al partito fascista, in cui vedeva l’incarnazione del suo credo filosofico e dei moti risorgimentali di unità nazionale ad indurlo ad aderire anche alla Repubblica Sociale Italiana, benché ormai politicamente emarginato. Un giudizio più severo, ma non lontano da questa linea interpretativa, è quello di M. Franzinelli, Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini, Milano, Mondadori, 2021. Importante è anche lo studio di un insigne storico americano, A. James Gregor, Giovanni Gentile, il filosofo del fascismo, Lecce, Pensa Multimedia, 2014, secondo cui Gentile non fu passivamente organico al fascismo e, per così dire, servo compiacente del fascismo storico, ma sempre pensò che di quest’ultimo potesse fare una sua creatura, plasmandolo in conformità al suo modello etico-filosofico di Stato e di società. In sostanza, per Gregor, Gentile fu fascista prima del fascismo, indipendentemente e a prescindere dal fascismo, che, una volta nato e costituitosi come regime, egli avrebbe sperato di poter modellare secondo la sua specifica concezione organica dello Stato. Che, modestamente, era la tesi che, sia pure senza la massiccia documentazione storica solo oggi disponibile, avevo cercato inutilmente di far valere come studente universitario della fiorentina Facoltà di Lettere e Filosofia  nel corso di studi di Storia del Risorgimento tenuto, all’inizio degli anni ’70,dal professore marxista Ernesto Ragionieri.

13 Come, ad esempio, quello del grande filologo ebreo Paul Oscar Kristeller, che avrebbe dichiarato: il suo assassinio avrebbe privato «la Nazione di uno dei cittadini più fedeli, la cultura italiana ed europea di uno dei suoi più alti rappresentanti, la scuola del suo più grande Maestro, il mondo di un filosofo tra i più profondi», definendo quel delitto come un’azione che «gettò un’ombra sinistra su tutta la Resistenza. Si è capito in Italia che quello fu un parricidio? Che fu uccisa l’espressione più pura e disinteressata di una Nazione: l’amore per il sapere e per la civiltà? Che spararono all’intelligenza?», Intervista  in «Il Giornale», 3 marzo 1993. L’accusa di Kristeller, per quanto opinabile se generalizzata, colpiva certo nel segno se riferita in particolare ad intellettuali come Antonio Banfi, umanamente e professionalmente debitore e fino alla fine ossequioso verso Gentile, e tuttavia capace di oltraggiarne la memoria all’indomani del suo assassinio in termini semplicemente disgustosi: «era e rimase un incolto. […] Le sue ricerche non uscivano dall’ambito della “filosofia delle bancarelle”, trattata alla disinvolta […] secondo i propri fini polemici […] con arbitrio grossolano». Gentile era da considerare un «retore corpulento» che aveva celebrato il manganello e giustamente era caduto «vittima della moralità della storia» rimanendo, così, «l’uomo onorato e il filosofo a fianco del gerarca che si ingrassò col furto e col ricatto, il milite che infierì sugli inermi, il soldato che si vendette agli stranieri, la spia che tradì i suoi fratelli», A. Banfi, Storia di una vita: Giovanni Gentile, in «La Nostra Lotta», n. 9, del maggio 1944.

14 G. Gentile, Opere, cit., vol. II, pp. 191-193, p. 204 e p. 214.

15 Valga per tutti, il riferimento al libro di V. Feltri e dell’attuale ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, Una repubblica senza patria. Storia d’Italia dal 1943 ad oggi, Milano, Rizzoli, 2014. Peraltro, nell’articolo citato nel testo e in una successiva lettera pubblicata sullo stesso quotidiano milanese in data 16 gennaio 1944, Gentile non solo ribadiva nei confronti di oppositori del regime e di partigiani in modo particolare l’accusa di esseri sobillatori, disfattisti e traditori della patria ma precisava che verso costoro non fosse assolutamente possibile alcuna pacificazione e alcun compromesso.

16 E.Garin, Cronache di filosofia italiana 1900/1943. Quindici anni dopo 1945/1960, Bari, Laterza, 1966, 2 voll., vol. II, pp. 363-364.

17 Di semplici aspetti propagandistici del Discorso gentiliano del ’43, ha parlato con molta chiarezza S. Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, cit., p. 285. Peraltro, non sono convinto che «le pagine del 1943 sull’umanesimo del lavoro», riferite al postumo Genesi e struttura della società, rappresentino, come sostiene A. Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, 1986, p. 157, «un salto di qualità», dovuto probabilmente a «una migliore intelligenza dell’evoluzione storica della realtà sociale del lavoro».

18 G. Gentile, Inediti sulla morte e l’immortalità, Firenze, Le Lettere, 2020, p. 19.

19Ivi, p. 22.

20 Ivi, p. 45.

21 Ivi, p. 59.

22 Ivi.

23 Ivi.

24 Cfr. D. Spanio, Etica e religione in Gentile, in M. Ciliberto, Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, Roma, Istituto Treccani, 2016, pp. 552-559. Ma, per una visione critica di insieme, pur non sempre ineccepibile, dell’attualismo gentiliano, si rinvia alla ponderosa e articolata opera collettanea, curata da M. Ciliberto, Croce e Gentile. La cultura italiana e  l’Europa, Roma, Istituto Treccani, 2016.

25 G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, Roma, Fondazione Gentile, p. 180.

26 G. Gentile, Concetti fondamentali dell’attualismo, in Introduzione alla filosofia, Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1933, pp. 36-37.

27 C’è un problema di fondo in Gentile: quello che è stato segnalato anche nella recensione di G. Sessa, Ritrovare Dio secondo Giovanni Gentile, a G. Gentile, Ritrovare Dio. Scritti sulla religione, con introduzione di Hervé A. Cavallera, Roma, Edizioni Mediterranee, 2021, in “Cultura” del 12 aprile 2021. Sulla falsariga di alcune precise osservazioni contenute nell’introduzione di Cavallera, che non manca di notare pregiudizialmente come «il problema della religione» sia «fondamentale per intendere il pensiero di Giovanni Gentile» (ivi, p. 7), commenta Sessa: «La filosofia sorse, del resto, come si evince tanto in Platone quanto in Aristotele, dalla “meraviglia” di fronte al mondo. Una meraviglia ed uno stupore non solo dai tratti rassicuranti ma, altresì, terrifici. L’angoscia del divenire, come alla contemporaneità è stato ricordato da Emanuele Severino, sorge in noi dalla constatazione della continua oscillazione degli enti dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. Ora, «la risposta a tale problema, è stata fornita, in modalità immediata, dalla religione che ha attribuito, attraverso la rivelazione, il sorgere della vita ad un intervento divino con la creazione dal nulla. Tale risposta non ha mai soddisfatto i filosofi. Questi, chiosa Cavallera: “cercano la verità ultima di là delle credenze religiose, senza peraltro ignorarle” (p. 8). A tale atteggiamento ermeneutico si è attenuto, nel suo iter speculativo, il pensatore siciliano», per il quale, se nella religione il reale può essere conosciuto solo attraverso una conoscenza mistica intuitiva, solo nella filosofia esso può essere acquisito nella pienezza della sua significanza concettuale e critico-razionale. Il problema di Gentile è questo: l’esigenza di affermare la priorità della filosofia su qualunque altro ambito del sapere e sulla stessa religione sia in quanto atto di fede, sia in quanto riflessione teologica. I contenuti dogmatici della fede, pur assolvendo un’importante funzione educativa (circa la consapevolezza del limite umano e della necessità spirituale di un agire virtuoso), vanno intesi tuttavia razionalmente, criticamente, filosoficamente, perché è la filosofia la più alta forma del conoscere, ma tutto ciò travalica i limiti di una sana ordodossia cristiana e cattolica.

28 Atti del VII Congresso nazionale di filosofia, Roma 26-29 maggio 1929, Milano-Roma, Edizioni Bestetti e Tumminelli, 1929, p. 376.

29 G. Gentile, Ritrovare Dio secondo Giovanni Gentile, cit., p. 100. Nella sua Teoria generale dello spirito come atto puro del 1916 (pubblicato da Mariotti di Pisa), Firenze, Sansoni, 1959, p. 142, scriveva Gentile: «La sola immortalità … alla quale si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l’immortalità dello spirito, è l’immortalità dell’Io trascendentale; non quella in cui si è fantasticamente irretita la mitica interpretazione filosofica di questa immanente affermazione dello spirito, l’immortalità dell’individuo empirico».

30 Gentile, Genesi e struttura della società, cit., p. 170.

31  U. Spirito, Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1969, p. 117.

32 G. Gentile, Attualismo e cattolicismo (1930), in G. Gentile. Scritti sulla religione, cit., pp. 112-113.

33 G. Gentile, Ritrovare Dio. Scritti sulla religione, cit., Postille, p. 154; Gentile ribadisce a più riprese di essere cristiano e cattolico in La mia religione, Firenze, Sansoni, 1943, pp. 5-9.

34 Paolo Rossi, La storia della filosofia: il vecchio e il nuovo, in, a cura di Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 330-331, implicitamente comprensivo ed indulgente verso Gentile oltre che verso Croce.

35Notizie riferite anche nell’articolo di P. Mieli, Gentile criticò in pubblico l’antisemitismo del regime, in “Corriere della Sera” del 19 febbraio 2013. Che Gentile non  condividesse le leggi razziali del 1938, si evince  molto chiaramente da un carteggio con Benvenuto Donati durato per tutto il periodo tra il 1920 ed il 1943.

36 A. Gramsci, Quaderni del carcere, quad. 11, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 142-143.

37 Sempre Paolo Rossi, nel testo più sopra citato, scriveva che la «generazione alla quale appartengo si è dedicata a questa attività critica come ad una specie di sport praticato con tenacia, continuità e quel tanto di sadismo che è accettabile in ogni attività sportiva», p. 330.

38  Se si prescinde da tale constatazione, ogni rimpianto per l’opera gentiliana di pensiero, così bruscamente e prematuramente interrotta, non può che apparire ingiustificato, al punto da indurre a domandarsi se sia più vero che, per riprendere le commosse parole dedicate alla memoria di Gentile da Gioele Solari, fosse il filosofo attualista ad essere strappato da «un destino crudele e immeritato … alla filosofia, alla scuola, alla cultura»,  o non siano state piuttosto la filosofia, la scuola, la cultura a trovare in Gentile non solo un benefattore ma soprattutto l’artefice di un processo di decurtazione delle loro possibilità di sviluppo e di emancipazione critica: G. Solari, Diritto astratto e diritto concreto, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXVII, 1948, pp. 42-81. 

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