L’idea di nazione e di governo patriottico in Antonio Gramsci

Sin dal 1928, quando viene condannato dal tribunale fascista a circa vent’anni di carcere, Gramsci è un comunista antidogmatico e democratico, convinto che il verbo comunista dovesse respirare con le anime di tutte le sue componenti storiche, di tutte le forze teorico-pratiche che vi si riconoscessero. Il comunismo, per lui, aveva nel liberalismo un presupposto imprescindibile, nel senso che il suo potenziale rivoluzionario, sul piano sociale ed economico, si sarebbe potuto pienamente esplicare solo ove gli ordinamenti giuridico-politici ed istituzionali liberali avessero già costituito un dato di fatto. Era tuttavia intransigente sulla fedeltà da prestare ai princìpi e ai fini programmatici del partito, ai valori etico-politici che ne erano a fondamento, e sulla integrità e coerenza morale con cui occorreva interpretare il proprio ruolo di militante rivoluzionario. La grande intelligenza teorico-politica, l’ingegnosa duttilità tattico-strategica,  si coniugavano in lui perfettamente con l’appassionata e coraggiosa vocazione missionaria ad onorare e a dare compimento, a qualunque costo, alla propria fede politica e alla propria causa di liberazione umana.

Per Gramsci, l’intellettuale non poteva essere che implicitamente impegnato, poteva esserlo magari in modi diversi o contrapposti ma per lui non si dava vera intellettualità al di fuori di una particolare sensibilità morale e politica per le concrete e specifiche condizioni di vita degli uomini e degli uomini raggruppati in classi sociali dagli interessi divergenti e contrapposti. Non solo: tanto più impegnato sarebbe stato l’intellettuale quanto più si fosse reso organico ad un progetto quanto più possibile avanzato di emancipazione culturale, morale e politico-sociale: un progetto di classe nell’immediato ma virtualmente teso a superare qualunque visione sociale angustamente particolaristica e conflittuale.

Ma il concetto gramsciano di “intellettuale organico” sarebbe stato presto frainteso ed equivocato, in quanto, contrariamente a quel che sarebbe accaduto, a cominciare dall’impostazione gerarchica conferita da Togliatti al rapporto tra politica e cultura, nel senso che quest’ultima dovesse assolvere una funzione principalmente strumentale e non parallela o paritaria rispetto alla seconda, non si trattava gramscianamente di intendere l’attività critico-razionale dell’intellettuale come subordinata e vincolata a determinati organigrammi o direttive di partito, ma come autonomamente capace di interagire, sul piano critico-dialettico, con le analisi, i giudizi, le valutazioni, le proposte, che altri intellettuali, di partito ma anche estranei al partito, fossero venuti elaborando in ordine ai diversi temi e ai diversi versanti problematici della complessiva riflessione e prassi politiche. Lo stesso partito comunista, per Gramsci, non doveva essere un partito verticistico in cui si decidesse il da farsi anche indipendentemente dall’esito di tutta una serie di analisi, di confronti e di dibattiti promossi e organizzati dal e per il partito, ma un partito capace di scegliere democraticamente, di volta in volta, nel modo più obiettivo e onesto possibile, i suggerimenti più convincenti, i contributi più lucidi, le proposte più incisive e condivisibili, e di fondare periodicamente non già su coalizioni correntizie puramente numeriche ma su criteri di oggettiva competenza e di comprovata saggezza individuali, la sua strategia e il suo specifico programma di azione e lotta politica. Nella posizione teorico-politica gramsciana l’autonomia critico-culturale dell’intellettuale era del tutto implicita, scontata, e non si sentiva la necessità di rivendicarla per il semplice fatto che una cultura priva di autonomia critica appariva giustamente un semplice controsenso, sebbene non tutti coloro che, a vario titolo e in diversi modi, la vengono esercitando, ne siano poi degni e fedeli interpreti, e anzi, checché se ne venga pensando e dicendo nelle grandi società scolarizzate occidentali, è ben significativo che, tra le risorse rare del pianeta-terra, la cultura, nonostante i suoi progressi spesso rivoluzionari, continui a figurare stabilmente tra quelle più rare e insostituibili.

Non si trattava, gramscianamente parlando, di essere intellettualmente apolitici o comunque non tenuti ad alcun genere di disciplina morale, giacché, per Gramsci, «la cultura non è mera ancella della politica, bensì è essa stessa politica in un suo modo proprio e specifico, che non deve combaciare in tutto e per tutto con le direttive e gli indirizzi di un partito unico e determinato, perché può rivendicare un primato valoriale universale e umanitario che non le può essere sottratto da nessuna ideologia», che è quello che avrebbe tentato di fare in qualche modo Elio Vittorini con il suo “Il Politecnico”, benché poi sia probabilmente vero che il PCI non potesse perdonargli il fatto che, «quantunque marxista, il suo retroterra culturale d’ispirazione evidentemente idealista lo» portasse «ancora a sostenere a gran voce “il mito interclassista dell’universalità della cultura”[7] ed anche “l’ideologia plurisecolare dell’intellettuale come produttore disinteressato di idee al servizio della verità e dell’umanità”» (N. Amelii, L’intellettuale organico e l’egemonia culturale, nel sito on line “Mimesis- Scenari.it”, 29 gennaio 2021).

 Non solo Gramsci fu grande intellettuale ma fu anche teorico della necessità di un crescente processo di formazione intellettuale e morale che avrebbe dovuto coinvolgere, sin dalla più tenera età, tutti i ragazzi, i giovani, i cittadini della nazione, al di là di ogni limite di status economico, sociale e professionale. La scuola, per il pensatore sardo, non meno che per i più responsabili tra noi di questo tempo, aveva il compito primario di formare la classe dirigente di domani, perché, ove o partiti, la scuola, le imprese più serie, non si preoccupassero della formazione e della selezione della futura classe dirigente, la nazione ne soffrirebbe notevolmente per il semplice motivo di andare incontro all’amaro destino di essere governata da persone incapaci che tuttavia dovranno essere ritenute meno colpevoli di coloro che avranno loro consentito di esercitare potere.

La cultura, non in senso erudito, enciclopedico, letterario, ma in senso critico, esplicativo, progettuale, doveva essere gramscianamente il motore della rivoluzione, anche se essa sarebbe diventata decisiva solo se sostenuta da una grande tensione morale ad una società più giusta e più libera. Ma, ancora, la cultura doveva essere non solo pervasa da un forte e nobile sentimento etico per i poveri, i disagiati o i non abbienti, bensì anche ancorata ad un solido realismo in grado di scongiurare giudizi affrettati e applicazioni errate o distorte degli ideali rivoluzionari. Il realismo politico gramsciano consistette innanzitutto nella consapevolezza della dimensione nazionale, prima che internazionalistica, della lotta rivoluzionaria. Egli pensava ad un comunismo che potesse attagliarsi all’Italia, che potesse adattarsi alle specifiche condizioni economiche, sociali, culturali, alle stesse tradizioni popolari e religiose del popolo italiano, che potesse corrispondere alla fisionomia particolare e inconfondibile dell’identità e dello spirito nazionali italiani. Anzi, per dirla tutta, Gramsci fu più italiano che comunista, ma naturalmente anche comunista. Più appassionato e originale teorico di un’incompiuta, e anzi in gran parte ancora inesistente idea di nazionalità italiana che epigono tra tanti della teorizzazione marxengelsiana della rivoluzionaria internalizzazione proletaria. Come è stato felicemente notato:  «Gramsci reputa la formazione dello Stato-nazione essenziale per il mercato capitalistico e un momento fondamentale dello sviluppo civile e politico delle classi subalterne. In questo senso egli appartiene alla numerosa schiera di marxisti che hanno superato l’approccio schematico alla questione nazionale di Marx ed Engels, i quali, dal “Manifesto del partito comunista” sino alle più tarde prese di posizione teoriche (nonostante i contraddittori giudizi su concrete vicende storiche), l’hanno sempre ritenuta “un problema secondario”, assorbito e risolto dall’imminente rivoluzione proletaria». C’è in pari tempo da considerare «la prospettiva da cui Gramsci guarda al problema storico della nazione italiana. La sua attenzione si rivolge infatti essenzialmente ad aspetti culturali, etici, religiosi, ovvero egli tematizza questo nodo storico in termini di sconnessione tra “nazione culturale” e “nazione politica”, tra “nazione” e “Stato”, ovvero tra il “paese reale” e il “paese legale” della pubblicistica cattolica di fine Ottocento. Gramsci, in effetti, condivide con molta della letteratura critica del Risorgimento l’immagine dell’Italia come paese con uno Stato ma senza nazione. Si tratta di un problema variamente affiorato nel processo di unificazione del paese e scoppiato drammaticamente con il tentativo di chiusura volontaristica e dittatoriale operato dal fascismo» (F. Izzo, Nazione e cosmopolitismo nei Quaderni del carcere, in “Italiani Europei”, 26 giugno 2008, n. 3).

Gramsci, peraltro, non pensava che la modernizzazione produttivo-tecnologica non avrebbe inciso sui rapporti economici, politici e sociali, di tutti gli Stati del mondo, e per questo riteneva che non vi si dovesse rimanere indifferenti ma bisognasse fare di tutto per governarla politicamente; egli intuiva che, quando sono in corso processi di profondo cambiamento che possono modificare o sconvolgere le relazioni sociali ed umane, è assolutamente necessario intervenire in sede politico-governativa per indirizzarli nel miglior modo possibile agli interessi del proprio Paese di appartenenza. Il cambiamento, qualunque cambiamento, dal più razionale al più irrazionale, va sempre governato, almeno per evitare che le possibili conseguenze negative siano più gravi di quelle che, sotto controllo, potrebbero aver luogo. Per Gramsci, che non avrebbe mai commesso l’errore di un Croce di identificare nazione e stato, storia della nazione italiana e storia dello Stato italiano, il primo, fondamentale banco di prova del comunismo è quello che riguarda la difesa sostanziale degli interessi economici e sociali della propria compagine nazionale di riferimento. Il comunismo era chiamato a sintonizzarsi con le classi subalterne e strumentali e con il loro sentimento popolare di appartenenza-attaccamento nazionale, ovvero non solo ad una determinata cultura, ad una determinata tradizione, ad un determinato linguaggio in cui potessero trovarsi accomunate classi socialmente antagonistiche ma anche ad un determinato territorio e alle molteplici e diversificate pratiche di lavoro e di vita che vi si svolgevano magari da tempo spesso immemorabile; il comunismo, nella caratteristica elaborazione gramsciana, era chiamato a difendere con intelligenza, e non per partito preso, il posto di lavoro e i connessi diritti retributivi e pensionistici, la solidità della famiglia tradizionale, la serietà dell’istituzione scolastica contro ogni tentativo di depotenziarne le finalità educative e formative, il libero riprodursi di spontanee forme di religiosità tradizionale e di comuni norme di buon senso, anch’esse fattori integranti di una stessa civiltà nazionale e unitaria. Certo, il comunismo non può rinunciare a perseguire una unificazione del mondo, di tutti i popoli del mondo, sotto un sempre più illuminato ed ispirato governo mondiale, e per questo motivo deve vigilare affinché gli Stati nazionali europei non tendano a chiudersi in forme di nazionalismo esasperato ed armato, ma al tempo stesso esso deve poter assicurare che qualunque processo di unificazione internazionale sia inclusivo, integrativo di tutti i soggetti nazionali e delle loro principali peculiarità, senza minimamente mortificarne i fondamentali interessi.

Peraltro, non si può mancare di notare come Gramsci raccomandasse che il fondamento di qualsivoglia organizzazione statuale internazionale o transnazionale di segno quanto meno democratico avanzato non fosse individuato nel capitalismo finanziario ma nel lavoro complessivo, nei lavori, in tutti i lavori, da quelli più umili a quelli più garantiti o tutelati. Pur nell’angusto spazio del carcere in cui era rinchiuso, Gramsci capiva perfettamente che la grande finanza avrebbe avuto interessi esattamente antitetici a quelli dei comuni lavoratori e che, tuttavia, anche un’eventuale unificazione monetaria dovesse costituire innanzitutto e soprattutto un fatto politico e non di mera contabilità economica. Ed è probabile che oggi consiglierebbe, in particolare per il continente europeo, di scongiurare una scissione tra modernizzazione e democrazia, tra crescita economico-finanziaria e concreti diritti economico-sociali, tra sviluppo scientifico-tecnologico e reali condizioni popolari di civiltà; così come ai partiti, e più segnatamente a quelli di area non nominalmente o ideologicamente ma sostanzialmente e politicamente progressista e riformista con una specifica attenzione per gli strati sociali più svantaggiati delle masse, chiederebbe di scegliersi dirigenti capaci di seguire e guidare i processi internazionali nel rispetto della tutela dell’identità e degli interessi nazionali, senza alcuna arroganza ma anche senza atteggiamenti di subalternità.

Gramsci, in questo senso, e non solo sul piano dei rapporti economico-sociali, sarebbe un illuminato ma geloso custode della tradizione nazionalpopolare italiana, e guarderebbe con profondo sospetto cautelativo tutte le oligarchie finanziarie in lotta fra loro per la conquista di porzioni sempre più grandi di mercato e per l’estensione del proprio potere egemonico nel mondo anche in comparti delicatissimi come la scuola, l’educazione, l’università e la ricerca, solo apparentemente distinti e lontani dai gangli decisivi del potere politico. Il politico da prescegliere, per Gramsci, nella società globalizzata, alle cui forme attuali, a dire il vero, anche nella sua ottica, non si sarebbe dovuti giungere in modo necessariamente irreversibile, sarebbe stato verosimilmente colui che fosse stato dotato di maggiore visione d’insieme e di acume politico intriso di sana e pregiata capacità spirituale di resistere alle incontrollate tentazioni internazionalistiche promosse dalla finanza internazionale e dai suoi annessi uffici burocratici diffusi in tutte le parti del mondo, senza chiudersi in anguste e pericolose logiche nazionalistiche e tuttavia doverosamente sensibile e ricettivo verso le oggettive necessità primarie di sviluppo economico e occupazionale e di progresso civile della sua patria.

La patria, un termine e un valore che insieme a quelli di nazione, Gramsci, il Gramsci beninteso dei “Quaderni”, non avrebbe esitato a difendere e ad esaltare giudiziosamente anche contro recenti generazioni di giovani barbari convinti di poter bruciare su pubblica piazza, nel nome di un malinteso socialismo critico, vessilli di giustizia, libertà e amore, oltremodo cari ai veri e grandi spiriti socialisti e comunisti, non meno che cattolici, del secolo scorso. Poi, certo, esisteranno mille ragioni che potranno indurre «alla massima cautela nel proclamarsi “patrioti”» e, d’altra parte, non sarà possibile prescindere dal fatto che «nella nostra storia nazionale il concetto di patria si è sviluppato in senso quasi sempre contrario a quello di libertà, appannaggio di un ristretto numero di intellettuali. La patria ha espresso il legame tra governati e governanti, impersonati dal re, dall’autocrate, dal dittatore, secondo l’altro fatale concetto: quello di nazione» (M. Marchesiello, Perché in Italia non ci si può dire “patrioti”, in “MicroMega” del 22 settembre 2022). Ma che «i termini “patria” e “patrioti”» siano «diventati monopoli dei peggiori nazionalismi e delle destre in generale, che hanno fatto della patria un sinonimo di autorità, conservazione, lugubre incitazione alla morte “gloriosa”», non è tuttavia un buon motivo che possa indurre a dissacrare il concetto e il valore, in se stessi considerati, di patria e patriottismo. E’ troppo audace il notare che persino il delinquente più incallito possa essere travolto dal sacro fuoco dell’amor di patria? Se si dovesse attendere l’avvento di un tempo di spiriti puri e sommamente virtuosi per poter parlare di nazione, patria e patriottismo, sarebbe più che ragionevole cancellare tali termini non solo dal vocabolario ma dal cuore stesso degli uomini. Ma, su questa terra, si può parlare di patria solo per imperfettissimi esseri umani, non per esseri angelici la cui patria divina non abbia alcuna necessità di essere difesa sino all’immolazione della propria vita.

Gramsci conosceva bene la distinzione tra nazione e nazionalismo, tra patria, amor di patria e patriottismo di maniera, e certo oggi non si scaglierebbe tanto contro il pensiero e la condotta politici di una giovane donna di destra, ascesa ai vertici assoluti della vita politica italiana per suo esclusivo merito e assolutamente indisposta, per formazione e convinzione, a far programmaticamente proprio il sogno mondialista e antinazionale dei mercati, quanto contro l’immaturo e dissennato  atteggiamento antinazionale e antipatriottico di dirigenti e militanti di sinistra affetti da cronico analfabetismo politico e culturale e disposti a coniugare con l’antico internazionalismo socialista e comunista solo un presunto diritto universale, in vero mai reclamato nel quadro della tradizione teorico-pratica della sinistra classica e della stessa sinistra novecentesca: il diritto al pansessualismo, all’omosessualismo, transessualismo, e a tutte le possibili forme di sessualità e di edonismo sessuale, di alienazione e mistificazione sessuali.

L’uomo (o donna) politico gramsciano era sommamente colto, integro e responsabile, che non significa naturalmente privo di debolezze e difetti umani, era realista e lungimirante ma programmaticamente volto a servire i legittimi interessi nazionali, le irrinunciabili idealità della patria, nel solco della sua migliore o delle sue migliori tradizioni storico-culturali e religiose. Questa era la via obbligata che, preliminarmente, un tale uomo avrebbe dovuto battere se avesse realmente inteso perseguire una non effimera egemonia politico-culturale nazionale nel segno della giustizia sociale e della massima umanizzazione possibile di tutte le relazioni interpersonali e comunitarie. L’uomo politico gramsciano avrebbe dovuto favorire soprattutto, con il suo esempio, la formazione dell’uomo politico collettivo, quel «moderno Principe» non più alla ricerca di un potere fine a se stesso, ma di un potere, suscettibile di capillare disseminazione sociale, di coniugarsi con una concertata, e sia pure controllata, orizzontalizzazione dei poteri decisionali in tutti i fondamentali comparti della vita economica e civile del Paese. Questo era l’uomo chiamato a creare, trasformare, costruire, esclusivamente nel nome e per conto di un popolo non generico, astratto, finto, ma dotato di una specifica identità, vivo, complesso e oltremodo articolato. Questo era l’uomo chiamato non semplicemente ad amministrare, ma a governare che è molto di più e molto più impegnativo e meritorio del semplice e codardo amministrare.

Il popolo italiano, nell’epoca della dissolvenza delle tradizionali classificazioni politico-ideologiche, ha dato sin qui largo credito all’impegno etico-politico di un’intellettuale organica a princìpi, valori e scopi radicalmente rifondativi della vita politica e della società civile, ad un’istanza politica non lottizzatrice ma di tendenziale, onesta valorizzazione di tutte le risorse naturali, economiche e produttive non meno che umane e culturali, presenti e diffuse nella realtà nazionale. Il popolo italiano, per ora, nella sua maggioranza ha inteso prendere sul serio il proposito di una donna politica di governare patriotticamente la sua nazione, ben al di là di consuete logiche salottiere e cerimoniose di potere, e di non limitarsi ad amministrarla nell’interesse e per conto di entità sovranazionali profondamente indifferenti al rispetto delle identità nazionali e della loro storia.

Tutto è ancora in piena evoluzione anche alla luce della stridula e inesauribile conflittualità che anima da sempre la scena politica italiana. Tuttavia, dal momento che, a ragione o a torto, Gramsci è l’unico pensatore politico della sinistra che è stato rivendicato anche dalla destra, il suo pensiero potrebbe ispirare paradossalmente sia l’azione di una compagine governativa apparentemente antitetica a quella ipotizzata da Gramsci in una ormai remota congiuntura storico-politica, sia una inedita pagina di storia italiana in cui la cittadinanza prevalga sull’appartenenza e in cui l’essere italiano, repubblicano e democratico venga anteposto a particolari collocazioni politico-partitiche. Per male che possa andare a Giorgia Meloni, e a prescindere da quello che potrà essere l’esito conclusivo del suo mandato governativo, ella potrebbe essere «destinata ad assomigliare, paradossalmente a Enrico Berlinguer, nel tenersi stretta la “doppiezza”, nazionalista ed europeista, europeista nei fatti e nazionalista nella propaganda, come Berlinguer era democratico nei fatti ma comunista nella retorica – essendo però molto più rischioso ora stando al governo e in tempi di leader pret-à-jeter. Rischioso, si intende, per il paese» (M. Gervasoni, La politica non ha più bisogno di intellettuali, e loro non se ne sono accorti, in HuffinghtonPost del 29 settembre 2023).

Francesco di Maria

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