La Shoah: male assoluto o male funesto ma relativo?

Il male assoluto, secondo Hannah Arendt, consiste nell’uccisione, nella deliberata o pianificata eliminazione fisica non solo di politici, criminali o soggetti comunque colpevoli di aver violato gravemente qualche fondamentale legge dello Stato o qualche importante principio morale, di aver commesso gravi reati contro le persone o una determinata collettività, ma anche di gruppi di «innocenti in ogni senso», di tutti coloro che, in Germania, dopo il 1938, «per una ragione qualsiasi estranea alle loro azioni, erano caduti in disgrazia»: gli ebrei in primis, gli zingari, gli omosessuali, ogni genere di minoranza atipica. Il male assoluto è un male non riconducibile ad alcun principio di razionalità morale e giuridica, di razionalità tout court, perché è semplicemente irrazionale, mostruosamente irrazionale, non tanto condannare a morte qualcuno ma soprattutto condannare qualcuno a morire tra indicibili e orribili torture e strazi volti a privarlo della sua dignità, della sua stessa natura umana.

Per questo motivo, in quanto totalmente estranei e anzi antitetici a qualunque criterio, almeno formalmente legittimo, di natura giuridica, etica, politica, si sono dati crimini, nel periodo della barbarie nazista, che non possono essere né puniti, né perdonati, appunto perché incommensurabilmente irriducibili a norme etico-giuridiche capaci di prevedere quali pene si possano o debbano applicare o quale perdono si possa concedere a quanti li abbiano eseguiti o se ne siano resi direttamente responsabili. Scrive Arendt:  «Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva piú essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell’oblio non sono piú “umane” agli occhi dei loro carnefici, cosí questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1967, pp. 611-613, 615 e 628-629). Quel male che anche secondo la religione cristiana, nella sua totalità, nella sua estrema radicalità, nella sua assolutezza, è solo nella disponibilità del volere e del potere divino, in realtà è stato possibile concepirlo, esercitarlo, realizzarlo con inimmaginabile ferocia, nella stessa storia degli uomini.

Ma, in realtà, nella vita e nella storia degli uomini, che sono esseri finiti, limitati e soggetti alla morte, l’Assoluto può essere oggetto solo di fede, di una postulazione razionale di ordine eminentemente spirituale, e può esserlo plausibilmente se esso venga ad identificarsi con Dio. Per il resto, nella prassi storico-umana non c’è posto per l’assoluto e per qualunque assoluto creato illusoriamente o discorsivamente dalla mente umana, in quanto la storia del mondo e dell’umanità è solo il regno del contingente, del relativo, del provvisorio, che, di volta in volta e di caso in caso, possono esprimere significati e valori o disvalori più universali o meno universali, più orientati o meno orientati verso un assoluto bene di natura divina o verso un assoluto male la cui origine è anch’essa in Dio, ma in nessun caso in  assoluti. Certo, l’origine del male, quindi la radice ontologica del male assoluto, è Dio, che però, come spiega Agostino, non ne è anche la causa o l’autore. Dio ne è l’origine nel senso che rende le sue creature capaci di peccato e quindi anche capaci di libertà: libertà, appunto, di fare il bene o il male.

Di conseguenza, il male compiuto per intenzione e opera degli uomini, per quanto esso possa venire manifestandosi in forme terribili, orribili e particolarmente mostruose e disumane o antiumane, resta pur sempre relativo, provocato dal peccato d’origine e circoscritto alla condizione umana di finitezza, a determinate situazioni storico-esistenziali, ad errori di valutazione, a pregiudizi, a manìe di grandezza e di potere, a cieco e irresponsabile spirito di vendetta, a forme arbitrarie e abnormi di autodifesa.  

Il male storico è relativo anche e soprattutto nel senso che è sempre incompiuto, cioè suscettibile di ritrarsi o di essere o diventare sempre più esteso e devastante di tutte le peggiori realtà malefiche, delittuose, criminali, spersonalizzanti, degradanti e disumanizzanti, già attuate e conosciute. Il male assoluto, se assoluto, è un male inarrivabile, irraggiungibile, sempre e comunque non ancora sperimentato, non immaginabile e quindi in alcun caso realizzabile umanamente. Il male che il genere umano potrebbe subire non per mano di esseri umani ma per una pur enigmatica o indecifrabile volontà trascendente, esterna e superiore alla sua realtà creaturale, potrebbe essere invece un male assoluto, anche se questa resta, per ora, solo un’ipotesi. Peraltro, qui non sarebbe necessario discolpare teologicamente Dio dei mali più terrificanti di questo mondo, dal momento che il male che incombe e frequentemente viene scaraventandosi sull’esistenza storica di uomini e donne, non ha, almeno da un punto di vista cristiano, una responsabilità originaria divina ma umana, e corrisponde proprio al desiderio istintivo dell’animo umano di assolutizzare la creaturalità, la creaturalità esistente ma non essente, di contro alla infinita e onnipotente creazionalità dell’unico Signore ontologicamente autosufficiente.

Per tale motivo, sul piano teologico Dio appare esente da colpe oggettive di qualunque genere: il male che si riversa su un’umanità, liberamente e non costrittivamente artefice del suo destino, è il male che scaturisce da un primordiale antagonismo esistenziale della creatura verso il suo creatore, un male che si rifrange continuamente nelle molteplici e complesse vicende dell’umano peregrinare, che non lascia indifferente d’altra parte Dio stesso, disposto persino a sacrificare se stesso nella persona storica del Figlio unigenito, ma al tempo stesso rispettoso, nella sua infinita sapienza, dell’umana libertà di scelta. Il male, senza qualcuno disposto a commetterlo, non potrebbe esistere. Esso non ha alcuna possibilità di esistere autonomamente e persino il diavolo non è un male assoluto essendo anch’egli una creatura che liberamente si dispone a veicolare e a rendere possibile il male: il male di per sé non esiste se non nella sua potenzialità, così come di per sé non esiste il bene. In quanto creature, ovvero esseri finiti, né l’uomo, né il diavolo, per quanto possano degradarsi e peccare di reiterata malvagità, potranno mai compiere un male assoluto, che la giustizia assoluta di Dio non può evidentemente consentire.

Al di fuori di tali precisazioni di natura teologica, pure utili e necessarie, una presa di distanza dal concetto di male assoluto appare anche in recenti contesti discorsivi più facilmente accessibili, come per esempio quello in cui un noto giornalista italiano, muovendo dalla constatazione che, storicamente parlando, il male ha sempre e oggettivamente una matrice soggettiva o, al più, intersoggettiva, ovvero umana, ha poi affermato, facendo riferimento alla posizione di Domenico Scarpa, consulente letterario ed editoriale del Centro Internazionale di Studi “Primo Levi” di Torino, che «il male può essere grande, estremo, ma non assoluto perché niente è assoluto nell’uomo, e parlare di male assoluto vuol dire collocarlo fuori da quello che ci riguarda: espellerlo, liberarsene a poco prezzo. Levi si è “sgolato”, dice Scarpa, per spiegarci che i nazisti, le SS, i kapò erano umani come noi» (M. Feltri, Primo Levi, lo sconosciuto, in “HuffinghtonPost” del 27 gennaio 2024). E, per quanto poi i nazisti possano aver compiuto con estrema disinvoltura crimini semplicemente repellenti su donne, uomini, vecchi e bambini, a dimostrazione di come essi percepissero il male commesso come qualcosa di ordinario, di normale, di banale, come avrebbe sottolineato Arendt (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2019), quei crimini restano manifestazioni orrende e vomitevoli di una malvagità umana pur sempre interna alla struttura interna e soggettiva degli uomini, cioè di esseri finiti e limitati capaci di produrre e riprodurre quelle stesse forme di male in determinate condizioni storiche di obnubilamento delle facoltà intellettive, sensoriali e volitive (Molto pertinente è l’affermazione di Tzvetan Todorov, Mémoire du mal, Tentation du bien, Editions Robert Laffont, Paris 2000; trad. it. R. Rossi, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001, p. 340: «il male non è un’aggiunta accidentale alla storia dell’umanità, di cui ci si potrebbe sbarazzare facilmente: esso è legato alla nostra stessa identità; per eliminarlo bisognerebbe cambiare specie»). Uomini normali possono compiere azioni mostruose, mai assolute ma sempre relative alla loro finita e limitata soggettività, in modo più o meno abietto e senza avere necessariamente coscienza della disgustosa efferatezza dei loro crimini: in qualunque epoca storica, da parte di qualunque individuo e popolo, e a prescindere da particolari professioni anche semplicemente ideologiche di fede o dall’appartenenza a una determinata comunità etica, politica o religiosa. E’ piuttosto la retorica del “male assoluto” che, rendendo irraggiungibile la spietatezza dei nazisti di 80 anni or sono e conferendo ad essa un significato quasi sovraumano, ha nascosto e continua a nascondere le radici profonde ma terribilmente normali e in questo senso banali della violenza nazifascista contro ogni genere di diversità umana e, in primis, contro quel popolo ebraico che della propria presunta diversità aveva sempre fatto la sua principale prerogativa storico-teologica.

Si sente ripetere continuamente, a mò di litania ormai francamente stucchevole e strumentale, che non bisogna dimenticare l’olocausto, la Shoah, per evitare che un genocidio di quelle proporzioni e di quella scandalosa gravità abbia a ripetersi ancora oggi e in futuro, ma in realtà, anche se in dimensioni apparentemente più contenute e in contesti storico-politici e culturali differenti, olocausti, deportazioni e genocidi, già presenti nella storia del genere umano anche prima del 1945, avrebbero continuato a susseguirsi da questa data fino ad oggi in molte parti del mondo e in forme non sempre meno cruente: si pensi alle politiche sovietiche del cosiddetto “Terrore rosso”, tra il 1918 e il 1920, o alle feroci persecuzioni dell’epoca staliniana che sarebbero culminate nell’annientamento dei kulàki, i contadini benestanti e indipendenti russi, e nella criminale decimazione per fame  (Holodomor, in lingua ucraina) inflitta da Stalin alla laboriosa popolazione contadina ucraina che, essendosi opposta alla collettivizzazione delle terre da questi voluta, si era vista requisire le proprie terre, i propri campi, dal dittatore comunista, non certo inferiore per crudeltà ad Hitler. Si pensi poi al regime dei Kmer rossi cambogiani, uno dei più sanguinari del XX secolo, che avrebbe provocato la morte di circa due milioni e mezzo di morti su un totale di 7 milioni di abitanti della Cambogia. E ancora al genocidio dei Tutsi in Ruanda ad opera degli Hutu, o alla pulizia etnica in Serbia alla fine del ‘900, o ancora alla disumana e spietata politica razziale, segregazionista, colonialista e militarista, esercitata dallo Stato di Israele, dal 1948 ad oggi, ai danni del popolo palestinese, a sua volta e sia pure per tendenziale autodifesa autore di eccidi efferati contro civili israeliani,  e all’aggressività sterminatrice della Russia imperialista di Putin ai danni del popolo ucraino.

Come si vede, al di là di ogni irrealistico tentativo di ridimensionare la natura malvagia e crudele e la portata massimamente immorale e illegale di tali eventi rispetto a quelle del genocidio nazista degli ebrei nel secolo scorso, il male continua a regnare imperiosamente sull’umanità contemporanea che appare sempre più incapace di arginarne la forza di propagazione e distruzione. E, in questo senso, non appare condivisibile la propensione a enfatizzare e a privilegiare la complessiva diversità della storia del popolo errante e perennemente perseguitato di Israele, e ancor meno il suo diritto incondizionato a difendersi con le armi, rispetto a storie forse meno particolari e meno celebri ma non meno sofferte e angoscianti di altri popoli, tutte le volte che, ancora nel presente, venga abbattendosi sugli israeliani qualche sanguinosa sciagura procurata dai suoi nemici.

Per questo stesso motivo, non appare condivisibile la recente dichiarazione del presidente Mattarella (27 gennaio 2025) secondo cui il 7 ottobre 2023, giorno della strage di molte centinaia di civili israeliani sul loro territorio, costituirebbe «una raccapricciante replica degli orrori della Shoah», perché la Shoah dei primi anni quaranta è un unicum non replicabile della storia del genere umano, un unicum la cui specificità consiste nel fatto che i cinque milioni o poco più di ebrei morti nei campi nazisti di concentramento per fame e stenti, per torture fisiche e psicologiche di vario genere, per mano di spietati carcerieri e per l’effetto di gas tossici, costituivano una massa di persone inermi che non aveva arrecato alcuna offesa, né danno reale, al popolo tedesco in cui si erano completamente integrati, né aveva tramato contro la sicurezza e la stabilità dello Stato e degli ordinamenti politici e sociali teutonici, a differenza delle giovani e meno giovani vite stroncate di recente da un atto sia pure irrituale di guerra dei militanti palestinesi contro un popolo da molti decenni invasore, oppressore e troppo più potente militarmente per poter essere affrontato e combattuto con le regole canoniche dello scontro bellico.

Né più condivisibile appare un altro passaggio della bolsa retorica usata, in tale circostanza, da Mattarella: «Cosa dobbiamo fare per evitare, ora, che il nostro sincero “mai più” possa essere utile per scongiurare un nuovo antisemitismo, una nuova, “indicibile, feroce strage antisemita di innocenti”»? Perché parlare di antisemitismo  pur sapendo che la radice primaria della feroce e disumana rappresaglia palestinese è da individuare in un estremo, disperato bisogno di affermare sotto gli occhi del mondo intero il proprio diritto ad esistere come popolo libero e indipendente, a reclamare la sacralità della propria identità nazionale, delle proprie terre e dei propri beni materiali e immateriali, a vivere serenamente come quei giovani israeliani riuniti festosamente all’aperto tra canti e danze di gioia? Perché parlare di antisemitismo come se i palestinesi

fossero antisemiti per etnìa e vocazione, perché non chiamare le cose con il loro vero nome e non dire che, in realtà, a ragion veduta, i palestinesi sono antisionisti? Il 7 ottobre non è una nuova Shoah, non c’entra niente con la Shoah (alludo all’articolo di C. Cerasa, La nuova Shoah, considerazioni per gli smemorati, in “Il Foglio” del 27 gennaio 2024), perché esso è solo, si fa per dire, un efferato atto ritorsivo contro un popolo in massima parte da sempre ostile, vessatorio, spietatamente indifferente verso i diritti umani, civili, economici e politici, del popolo palestinese.

L’indifferenza è sempre una colpa odiosa e imperdonabile: non solo verso gli ebrei sterminati di 80 anni or sono, come dice amaramente Liliana Segre, ma anche verso le migliaia e migliaia di vite palestinesi sistematicamente falcidiate dall’arroganza militarista ed espansionistica dello Stato e di gran parte del popolo israeliano. Se vivessimo in un’epoca ancora non contraddistinta dal potere mediatico di forte amplificazione di determinati eventi storici, sarebbe proprio così azzardato ipotizzare che, a quest’ora, mentre Gaza è già stata ridotta ad un cumulo impressionante di macerie e di cadaveri, anche il popolo palestinese potrebbe essere già stato cancellato totalmente dalla faccia della terra dalle armate israeliane?

Pur essendo innegabile che Auschwitz rappresenti forse l’evento più irrazionale della storia umana, bisogna che tale tenebrosa irrazionalità venga restituita alla razionalità della riflessione e del giudizio morale ma anche, per quanto irritante, offensiva e provocatoria, possa sembrare tale aggiuntiva considerazione, alla coscienza religiosa contemporanea troppe volte portata a trarre dalle Sacre Scritture, sotto l’influenza di un conformismo critico molto diffuso e condiviso, solo insegnamenti ritenuti o percepiti come compatibili con forme contemporanee sostanzialmente non traumatiche di pensiero e sensibilità. Alludo alla possibilità di stabilire se le ragioni della Shoah, per quanto razionalmente inammissibili, siano solo di natura storica, razziale, politica, oppure anche di natura culturale e religiosa, se alla base dell’antisemitismo e dell’odio antiebraici si debba porre un presunto e alquanto cinico e spregiudicato modo ebraico di agire nel mondo economico-finanziario, nel mondo degli affari e dei commerci,  nonché una mentalità complottistica che, nella loro lunga diaspora storica, gli ebrei, secondo alcuni, avrebbero sempre manifestato in diverse parti del mondo, o anche un’insofferenza crescente verso il culto esclusivistico, élitistico, della loro pretesa diversità e superiorità, della pretesa di incarnare un modello culturale e spirituale di vita associata destinato ad egemonizzare tutte le altre culture del mondo; se infine su tale planetaria insofferenza nei loro confronti non abbia pesato, e in che misura, l’accusa di “deicidio” che si sarebbe propagata e violentemente abbattuta su di essi nel corso dei secoli.

Ma poi, più internamente agli stessi vangeli, continua a darsi, di contro alle grida scandalizzate ma ipocrite del mondo giudaico e di tanta parte della stessa cultura contemporanea, una circostanza biblica molto sfavorevole, sotto il profilo teologico e profetico, al destino storico del popolo ebraico, vale a dire quella che si trova enunciata nei celebri, anche se contestati per ritenuta dubbia autenticità, versetti biblici di Matteo 27, 25, quando, dopo che Pilato si dichiara innocente del sangue di Cristo condannato a morte, per volere del popolo, al posto di Barabba, il popolo stesso risponde in modo corale: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Si capisce l’avversione ebraica per tutti coloro che istituiscono un nesso profetico tra questi versi e il genocidio nazista degli ebrei in pieno novecento, ma tali versi che, al pari di tutti gli altri versi neotestamentari e al di là di talune operazioni esegetiche distorsive, sono pur sempre espressione fedele della Parola di Dio, almeno per coloro che credono nella veridicità biblico-evangelica di quest’ultima pesano come un macigno nella valutazione complessiva della tragedia cui si sta qui facendo riferimento.

E anzi, poiché l’umanità contemporanea non riesce ancora a liberarsi da un non velato senso di colpa per non essere riuscita ad impedire in particolare che la catastrofica ferocia nazifascista si abbattesse su un intero popolo, con una conseguente predisposizione riparatoria ad alimentare la concezione della Shoah come «male assoluto» e come evento spartiacque nella storia del mondo, sarà forse il caso che la Chiesa di Cristo, dai vertici ecclesiastici fino a tutta la comunità ecclesiale, cominci a trovare il coraggio intellettuale, apostolico e pastorale, di spiegare al mondo con molta chiarezza che, in effetti, il male assoluto è stato compiuto storicamente una sola volta e in una sola circostanza, che, per quanto in precedenza argomentato, non è quella che si riferisce alla distruzione demoniaca del popolo ebraico, benché non siano esenti da precise responsabilità umane ed etico-politiche tutti coloro che avrebbero vissuto  passivamente sotto il regime nazista,  ma quella in cui Dio, incarnatosi nella persona storica del suo Figlio unigenito, indica all’umanità la principale e insostituibile via della verità, del bene, della giustizia, della salvezza eterna, ottenendo in cambio la morte per crocifissione. Questo è il vero e insuperato scandalo della storia dell’umanità, questa è l’unica e più agghiacciante forma di «male assoluto»: l’uomo che uccide Dio e il suo unico Dio.

Per chi crede in Dio come principio e fine di verità, carità e giustizia, come espressione di bene assoluto e di vita infinita, il male che venga manifestandosi come esasperata e irrazionale volontà di sopprimere l’autore stesso della vita, la fonte assoluta dell’immortalità e dell’eterna beatitudine, il salvatore del genere umano, per motivi che, travalicando i confini di una normale psichicità umana, restano in gran parte inesplicabili e avvolti nel mistero, corrisponde all’unica forma di male che, quasi radicata in una sorta di impenetrabile realtà metafisica di cui gli uomini sembrino essere appena partecipi, possa essere identificata con il male assoluto.

Che da questo male assoluto, unico e irripetibile, potessero o dovessero derivare malefiche conseguenze in modo particolare per quanti se ne erano direttamente o indirettamente resi corresponsabili o complici, è ciò che, sulla base dei testi neotestamentari, delle riflessioni patristiche, del magistero pontificio e di moderni anche se non accattivanti studi teologici di orientamento cattolico, risulta certamente possibile e non saranno né gli ebrei di questo tempo, né i pifferai di uno sdolcinato ed effimero pensiero unico, a poterne decretare negazionisticamente la natura fallace e perversa. Anche, e forse soprattutto, per questo, la Shoah sarà da ricordare come un male funesto, forse come il più funesto dei mali storici sin qui abbattutisi sul genere umano, ma pur sempre come un male relativo e suscettibile di ampliarsi in forme ancora più cruente e infernali. Non solo il bene assoluto ma anche il male assoluto può riverberarsi, pure in modo significativo, nelle caotiche e drammatiche vicende umane, ma, ontologicamente parlando, esso non è di questo mondo.

Francesco di Maria

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