Populismo come antitesi o come fattore costitutivo della democrazia?

Liberissimi di pensare che una democrazia governativa di tipo tecnico e apolitico, governi populisti promossi da spinte popolari di natura tendenzialmente plebiscitaria, costituiscano deformazioni della democrazia che la spingerebbero a travalicare i limiti della carta costituzionale e ad imboccare la strada di regimi dittatoriali. Ma non altrettanto liberi di pretendere che, qualunque forma politico-governativa venga assumendo la democrazia, sulla base di libere e pacifiche determinazioni delle masse popolari e dei loro rappresentanti e nei limiti del rispetto formale delle leggi e delle regole costitutive dell’ordinamento democratico, possa non essere compatibile con il metodo e il sistema democratici di vita politica.  Ancora più arbitrario e contraddittorio con lo stesso assunto di una originaria purezza democratica è l’idea che una vera democrazia, oltre che su libere elezioni, dovrebbe poter contare anche sulla facoltà istituzionale degli elettori di esercitare un controllo continuo, ossessivo, asfissiante sull’attività del governo in carica e, nel caso, di esigere un ritorno alle urne, perché ad un governo, tranne che non venga operando scelte politiche e amministrative inequivocabilmente e reiteratamente dannose e antitetiche ai legittimi interessi del popolo, occorre dare il tempo di porre in essere, in misura sufficientemente ampia, il proprio programma, prima che i cittadini abbiano la possibilità di valutarne, non per capriccio ma con precisa cognizione di causa, pregi e limiti, e di ritenerne eventualmente necessaria la sostituzione con una diversa compagine politico-governativa.

Si potrà, al riguardo, anche fare dello spirito a buon mercato nei confronti della vulgata corrente secondo cui non “bisogna disturbare il manovratore prima che abbia terminato di portare il convoglio a destinazione” ma quella appena enunciata resta, a parere di molti, una elementare regola di ragionevolezza da cui nessuna azione di governo sembrerebbe poter prescindere ove si voglia essere certi di non peccare di spirito demagogico e di sfascismo premeditato e irresponsabile. Piaccia o non piaccia, quali che siano le particolari configurazioni di un regime democratico, più autoritaria o più liberale, più statalista o più federativa e autonomista, più protezionista o più liberista, più repressiva o più permissiva, purché derivanti dagli equilibri politico-istituzionali di volta in volta prodotti dal libero e corretto gioco democratico delle forze in campo, l’essenza e il valore della democrazia sono fatti salvi e non sarà lecito parlare né di deviazioni, né di deformazioni, né di slittamenti verso situazioni che tenderebbero a sfigurarne la normale fisionomia (Si sarà intuito che oggetto delle allusioni critiche qui espresse sono alcune recenti opere di Nadia Urbinati: Utopia Europa. Intervista di Antonio Fico, Roma, Castelvecchi, 2019; Me the People. How Populism Transforms Democracy,Cambridge,Harvard University Press, 2019, poi pubblicato in Italia: Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2020; Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Milano, Egea-Università Bocconi, 2017).

Anche perché troppo spesso al populismo viene attribuendosi una valenza autoritaria di latente ispirazione fascista, una carica antisistema non tanto nel nome di una espansione della democrazia ma di una contrazione di essa e quindi non tanto nel segno di valori progressivi, di libertà, giustizia, eguaglianza, e di un potenziamento di diritti civili, socio-economici e politici, ma in quello di una loro limitazione o di un loro restringimento, laddove, alla fine, questo è il sottinteso ricorrente di una siffatta critica politologica, ad essere oggetto specifico della minaccia populista non sarebbe solo la democrazia costituzionale e repubblicana quanto principalmente, con e più di quest’ultima, quella mitica “sinistra” europea, ora di opposizione ora di ipotetico governo, che, secondo una convenzione in uso negli ambienti accademici “progressisti”, viene equiparata, benché perfettamente e contraddittoriamente integrata nel sistema politico-finanziario globalizzato, a insostituibile baluardo di democrazia. E, al solito, a questo punto ed essenzialmente per questo motivo ci si preoccupa di tutelare la democrazia occidentale in crisi attraverso la proposta di una forte regolamentazione pubblica dei finanziamenti alla politica volta a tutelare il fondamento egualitario della società democratica, quasi che la sinistra politica non si fosse mai emancipata da una condizione ottocentesca e primonovecentesca di debolezza finanziaria rispetto alle forze reazionarie e conservatrici.

Fa sempre capolino, in analisi di questo genere, che sono palesemente viziate da non troppo celate preoccupazioni ideologiche, la tentazione di attribuire alla sinistra una funzione quasi ontologica di salvaguardia del “pubblico”, degli interessi pubblici o generali dello Stato democratico, anche e soprattutto rispetto ad una destra sempre e comunque vorace e maldestra, votata a saccheggiarne le casse e a derubare di salari, risparmi e beni immobili acquistati con il sudore della fronte, i ceti medio-bassi per arricchire a dismisura ricchi e potenti. Che un siffatto approccio analitico-interpretativo sia ormai datato, decisamente anacronistico e contraddetto continuamente da scandalose e non addomesticabili repliche della storia contemporanea, è ormai ben noto a tutti, e soprattutto a quei diversi milioni di cittadini europei che, poco per volta, hanno decretato con il loro democraticissimo voto l’inaffidabilità dei partiti di sinistra su posizioni di opposizione e, soprattutto, di governo, la loro incapacità di esercitare azioni di governo realmente e coerentemente finalizzate al perseguimento del bene comune, dell’ordine pubblico, della complessiva sicurezza sociale.

Certi studi politologici, per quanto fastosamente celebrati negli ambienti accademici progressisti, sono deludenti, non perché di sinistra, ma perché obiettivamente fumosi, confusi, carenti tanto sul piano teorico che sul piano storico. Sostenere, per esempio, che particolari e wittgensteiniane “somiglianze di famiglia” sussisterebbero tra populismo e fascismo senza minimamente ipotizzare o affermare esplicitamente che il peronismo sia una costante nella lunga storia sociale e politica dell’umanità e che le stesse somiglianze possano intercorrere, nel quadro della moderna storia civile internazionale, tra populismi di diversa natura e contesti storici eterogenei di tipo insurrezionale o rivoluzionario, è non solo scorretto e ingiustificabile dal punto di vista deontologico e professionale, ma è anche e innanzitutto deplorevole sotto il profilo culturale e morale. Il populismo, nella sua accezione negativa e in quanto sinonimo di ribellismo demagogico di massa e di rapporto diretto e spesso carismatico tra i capi o i leaders con le masse popolari, al di là del populismo russo secondottocentesco in cui comincia a prendere corpo, in funzione antizarista, una nuova visione della società ovvero l’idea di una società socialista, è una costante storica assai ricorrente: tanto nei gruppi di destra che di sinistra. Si pensi al nazismo o al fascismo e al bolscevismo si Stalin, Fidel Castro e Mao Zedong, o a diversi moti insurrezionali nell’America Latina come ad esempio il peronismo e il chavismo, ma poi nei contesti democratici occidentali, al berlusconismo che fa leva sul popolo per fare ad esso concessioni accattivanti ma non essenziali in cambio del suo consenso politico o al grillismo, che nel nome di un popolo qualunquisticamente inteso vorrebbe costruire la base di futuri imperi economici personali, alla stessa sinistra socialdemocratica ormai convertita ai princìpi dell’ideologia capitalista e alla logica borghese dell’esercizio e del mantenimento definalizzati del potere e, a tale scopo, sempre portata a parlare nel nome e per conto di un popolo di cui tuttavia non fa altro che distruggere l’originario «senso di appartenenza identitaria «fondato sul sentimento e sulle passioni collettive, e allontanandoli per ciò dai processi d’inclusione e della partecipazione politica» (M. Damiani, Contro il populismo di sinistra, recensione al libro di Éric Fassin, che porta questo titolo ed è stato pubblicato in Italia da Manifestolibri, Roma, 2019, in Rivista di cultura e politica “Il Mulino” del 22 giugno 2020).

Non mi pare che questa ricca fenomenologia storica della mentalità e della prassi populistiche sia particolarmente presente alla politologa della Columbia University e, in ogni caso, essa sembra non incidere affatto su una interpretazione alquanto univoca ed unilaterale, schematica e fondamentalmente riduttiva ed ideologica, del cosiddetto populismo ovvero dell’enfatizzazione strumentale del concetto di popolo e dei valori e diritti in esso racchiusi a fini di ampliamento o accrescimento del consenso popolare. Il populismo, in realtà, lungi dal potersi ridurre a forme esclusivamente tribali di comunicazione e contestazione politiche (N. Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, in cui l’insigne autore, nel sostenere appunto l’equivalenza di populismo e tribalismo politico-culturale, trascura tuttavia che non si danno storicamente forze politiche dotate di verginale innocenza e di integra moralità), la cui radice peraltro necessariamente soggettiva non potrebbe che indurre a ritenerle comunque opinabili, è una componente essenziale e costitutiva della democrazia in quanto il potere del popolo viene esercitandosi, sin dai tempi dell’antica democrazia greca, anche attraverso l’uso almeno in parte demagogico, propagandistico e strumentale del discorso politico, ed esiste, da sempre, un solo modo per limitarne la portata eticamente corrosiva e contenerne gli effetti spesso involutivi e distruttivi: quello di puntare su un progresso, su una maturazione culturale quantitativa e qualitativa della polis nel suo insieme, del popolo nella sua più estesa definizione sociologica (In ogni caso, per uno studioso come Ernesto Landau la democrazia non può esistere senza populismo: cfr. Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, a cura di Marco Baldassari e Diego Melegari, Verona, Ombre Corte, 2012. Tuttavia, sulla problematicità del rapporto tra democrazia e populismo che riflette la problematicità interna al concetto stesso di democrazia, se sia cioè «immediata o mediata, maggioritaria o consensuale, à la Schumpeter o à la Kelsen», si può vedere l’equilibrato studio, nonostante il titolo unilaterale, di Valentina Pazé, Il populismo come antitesi della democrazia, in “Teoria politica”, 2017, n. 7, pp. 111-125). Ciò detto, bisogna rassegnarsi al fatto, più volte comprovato dalla storia, che anche la democrazia, per quanto la si possa ritenere probabilmente come la migliore delle possibili forme di governo, sia intrinsecamente vulnerabile e soggetta a gravi fenomeni di involuzione politica persino quando sia sorretta da una consapevolezza culturale molto diffusa e da una coscienza etico-civile oltremodo profonda e ramificata. Non si può dimenticare che proprio la democrazia ateniese del V sec. a.C., che era una saggia democrazia, avrebbe condannato a morte Socrate, il più sapiente e giusto degli uomini greci.

Purtroppo, come è stato osservato, non si può «liquidare il populismo come mero non-pensiero, ripetendo il ritornello della “pancia” contrapposta alla “ragione critica”, … L’antifascismo della “sinistra” è vittima della perversa illusione che attribuisce al suo avversario. Fare della semplificazione demagogica la chiave di volta del successo del populismo su scala planetaria non è forse una semplificazione altrettanto grave di quella che vorrebbe denunciare? La tesi della semplificazione è una tesi “comoda” che, semplificando, esonera dallo sforzo dell’analisi. Le conseguenze sono gravi», né si può «rubricare il fenomeno populista nella categoria astorica della eterna “ignoranza delle plebi”…» (R. Ronchi, L’insorto. Metafisica del populismo, in sito on line “Doppiozero” del 12 novembre 2018. Da notare che intellettuali populisti a vario titolo sono stati considerati anche Antonio Gramsci, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini: A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 1988, in cui si legge che «l’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello»). In democrazia, non si danno forme di pensiero, tradizioni culturali, orientamenti etici e politici tenuti a fare atto di sudditanza, per una sorta di tacita convenzione storica, nei confronti di modelli ideali, culturali, economici e valoriali, storicamente “dominanti”, perché questo significherebbe fare della contingenza e di particolari congiunture storiche i criteri decisivi della loro validità o invalidità, della loro esemplarità o mediocrità. Una delle regole basilari della democrazia è la libera e pacifica competizione sul terreno del confronto e della persuasione razionale, per cui la palma del migliore spetta sempre e solo alle idee e ai soggetti ritenuti, per via democratica, quantitativa o numerica, maggioritaria, più persuasivi e utili alla comunità sociale di appartenenza, almeno in un dato momento storico, fermo restando il diritto costituzionale di piena cittadinanza e di libera ma incruenta circolazione di tutte le altre idee e gruppi politico-culturali.

A volte, risulta molto difficile tra discorsi o proclami populisti e discorsi o proclami non populisti, tra posizioni più populiste e posizioni meno populiste, e questo accade semplicemente perché il populismo non è antitetico alla democrazia ma solo una variante della democrazia, una possibile e fisiologica articolazione del normale confronto democratico che si tratta poi ogni volta di moderare o indebolire nell’arena politica con i mezzi critico-veritativi del ragionamento e della confutazione razionale. Ecco perché il populismo, a differenza di quanto ritiene la su citata politologa, non costituisce necessariamente l’«esito del malfunzionamento della democrazia dei partiti» (N. Urbinati, Io, Il PopoloCome il populismo trasforma la democrazia, Bologna, Il Mulino 2020, p 326), quasi che esso debba dipendere necessariamente o esclusivamente da malafede o da una deliberata deformazione di realtà o verità note, e non anche da situazioni oggettivamente difficoltose che impongono a chiunque, capo di stato o di partito o semplice parlamentare, vi si trovi coinvolto per sé o il proprio gruppo politico di appartenenza, di tentare di uscire dall’angolo con la retorica e la parziale falsificazione della realtà.

Oggi, per esempio, è molto difficile stabilire se sia più populista il governo di Giorgia Meloni, notoriamente avverso a visioni giuridico-sociali egualitarie, livellatrici, giustizialiste e a visioni economiche collettiviste e rigidamente burocratizzate, e infine ad atteggiamenti non particolarmente motivati nella difesa degli interessi nazionali, oppure l’opposizione del partito democratico guidato da Elly Schlein, la quale, pur ripetendo meccanicamente e ossessivamente un suo generico e astratto antifascismo e facendo di continuo professione di fede democratica nel quadro di una assai carente preparazione storica e teorica e di una sostanziale inidoneità politico-culturale e comunicativa, appare molto più impegnata sul terreno dei cosiddetti diritti civili e umanitari che non su quello più concreto e meno opinabile dei diritti economici e sociali e della tutela della libertà di espressione come dei legittimi diritti nazionali. Ciò non toglie che un governo popolare ma non necessariamente o univocamente populista come quello guidato da Giorgia Meloni possa poi peccare di populismo internazionalistico, sia pure per comprensibili ragioni di realpolitik, nello schierarsi apertamente a favore della brutale e indiscriminata reazione militare di Israele contro i civili palestinesi, mentre la protesta di Schlein contro il militarismo omicida antipalestinese voluto da Netanyahu possa apparire improntata, a prescindere dalla sincerità o insincerità dell’intenzione con cui venga formulata, ad uno spirito di giustizia e di pace.   

Questo allora significa che «il populismo non è unidimensionale, né statico. L’alto e il basso, la destra e la sinistra, possono sovrapporsi e scambiarsi di ruolo. Le sue caratteristiche valgono in sé e possono intrecciarsi. Nell’incertezza dei suoi significati emerge tuttavia una costante. … il “populismo” è il sintomo della crisi del governo rappresentativo e dell’alternativa socialdemocratica e comunista al neoliberalismo. A questa crisi però il populismo non dà una soluzione. E’ il sintomo della crisi che denuncia» (R. Ciccarelli, Disattivare il populismo, praticare l’indignazione, in sito on line “DinamoPress”, 17 dicembre 2017, che è un commento critico al libro di A. Illuminati, Populisti e profeti. Istruzioni per l’uso e la disattivazione, Roma, ManifestoLibri, 2017). Alla fine, e non è cosa di poco conto, bisogna prendere atto che democrazia significa essenzialmente possibilità di creare le maggioranze di governo per mezzo di libere elezioni popolari e che, sino a quando, i suoi ordinamenti e le sue leggi riescono a garantire il regolare e periodico svolgimento di quest’ultime e il legittimo costituirsi di maggioranze governative, essa, per quanto probabilmente malata o alterata sotto il profilo istituzionale per ragioni insite non esclusivamente negli attuali assetti governativi occidentali, dispone ancora di anticorpi naturali e capaci di opporsi a eventuali, estremi tentativi di sovvertirla in senso totalitario.

Non bisogna mai dimenticare che il sostrato storico-teorico dell’idea stessa di democrazia è di natura popolare, non colta e socialmente altolocata ma semplice e rozza come semplice e rozza era nei tempi andati, anche se molto meno oggi, la gente di popolo, gente dedita ai lavori più umili, gente comune, ingenua ma intuitiva e in grado di percepire il pericolo dell’iniquità o della sopraffazione. Penso abbia ragione chi scrive: «La democrazia è invero un potere plebeo e caotico, di chi non ha titolo a governare e si batte contro la gestione oligarchica della vita pubblica e della ricchezza. Con tutti gli errori del caso, ma non ”normalizzabile” secondo la logica dei media e delle banche. Sul piano teorico è la rimessa in questione, ogni volta, dell’universalismo corrente, cioè una secessione dal consenso ai valori dominanti. Contrapporle (come ha fatto l’opinione pubblica eurocratica nel caso della Brexit) il ben informato potere dei ceti colti e della finanza è un’operazione odiosa e classista, che non cessa di essere tale solo per il fatto che a cavalcare il Leave erano spesso i più squallidi arnesi del sovranismo nazionale e del razzismo locale …  Non ci sono “abusi” di democrazia, ma solo momenti di odio e diffidenza per essa che hanno una lunga storia, una storia a calare, se si pensa che all’inizio troviamo Platone e alla fine Napolitano e Maria Elena Boschi» (A. Illuminati, Governare senza popolo. Odio vs populismo, in rivista on line “Opera Viva”, 25 luglio 2016).

Il significato etimologicamente più chiaro e corretto di populismo, al di là delle versioni sempre più semplificate e strumentali che se ne danno, resta il seguente: farsi portavoce delle istanze oggettive del popolo, in particolare degli strati più deboli e meno protetti della società, nel quadro della democrazia rappresentativa, al fine di renderlo sempre più libero e autonomo sia sul piano socioeconomico che nella partecipazione alla vita politica della nazione. Va da sé, tuttavia, che proprio in tal senso, in un ambiente politico sempre più dominato da un’economia e una finanza sempre più condizionate da logiche e interessi sovranazionali, il termine populista non possa risultare gradito a politici cui stia a cuore più il rispetto e l’elogio di potenti leaders e istituzioni internazionali che la stima e la riconoscenza di qualche decina di milioni di propri compatrioti. Anche Urbinati riconosce che il Partito Democratico abbia perso il contatto con il “suo”popolo, che è o dovrebbe essere “il popolo dei bisogni”. Solo che ella continua a pensare che, per rappresentare degnamente tale popolo, bisognerebbe riporre una granitica fede nell’idea-utopia di un’Europa politica «che avrebbe bisogno di partiti transnazionali, di un budget europeo, di un sistema di cittadinanza europea di sostegno, che difenda la pubblica sanità che si sta erodendo, il tema scolastico e della ricerca», giudicando ormai anacronistici gli Stati nazionali medio-grandi (Nadia Urbinati: il populismo? Non è fascismo e poi le democrazie sono “elastiche”.  Intervista di  S. Vaccara,  in “La voce di New York” del  14 maggio  2019).   Ma  questa  fede  ha  ancora  a che fare  con  la scienza  della  politica, con la filosofia della politica,  con una visione critico-razionale  della  realtà  politica, o essa  non  è già  caduta nella rete ingannatrice dell’ideologia e del peggior populismo?

Francesco di Maria

 

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