Il dolore tra senso e non senso

Non condivido il pensiero di chi ritiene che, per poter parlare di dolore, occorra innanzitutto non trovarsi coinvolti contemporaneamente in una situazione personale di vita particolarmente dolorosa, non solo perché la presenza del dolore non impedisce necessariamente all’intelletto di farne un’analisi lucida e rigorosa proprio o anche mentre si sta soffrendo, ma anche perché per una parte dell’umanità il dolore è compagno talmente stabile di vita da obbligarla non solo eventualmente a recriminare contro esso in quanto fenomeno non contingente ma strutturale, ma a riflettere quanto più criticamente possibile sulla o sulle sue cause, sulla o sulle sue ragioni d’essere nella vita degli esseri umani e, in modo specifico, in quella di uomini e donne particolarmente sensibili tanto sul piano intellettivo quanto su quello morale e/o religioso. Perciò, non condivido neppure l’affermazione per cui l’amore sarebbe necessariamente «il contrario del dolore», quasi che non si possa soffrire, in un senso nobile, per amore (Il bersaglio polemico di questa parte iniziale del presente scritto è, in particolare, Giuseppe Ferraro, Il dolore, nel sito “Filosofiafuorilemura.it”, 5 febbraio 2014).

Nel dolore, nel dolore fisico e spirituale, si può continuare ad amare, ad amare la verità e il prossimo, anche se il dolore spirituale consente di argomentare ancora più o meno efficacemente intorno alla natura e/o ai limiti del proprio amore, mentre quello prevalentemente fisico e psichico può impedire e spesso impedisce di estrinsecarlo in forma sufficientemente chiara e intellegibile. Ma il dolore non è sempre uguale per tutti: lo è, in misura certamente maggiore, sul piano fisico, organico, sensoriale rispetto a fatti esterni oggettivamente traumatici, sia pure con soglie non del tutto identiche, ma la percezione del dolore risulta molto più diseguale nel modo stesso di percepire la realtà, interna ed esterna al proprio io, nel modo di rapportarsi all’altro in genere, al prossimo in senso esistenziale, all’Altro anche in senso spirituale o religioso. Qui, in discussione è principalmente il dolore collocato non genericamente nel quadro dell’intelligenza e della sensibilità di cui ogni individuo è dotato, ma in quello delle forme determinate che esse vengono assumendo in rapporto a specifiche esperienze di vita, a specifici condizionamenti educativi e formativi ricevuti, a specifici rapporti empatici intercorrenti tra il vissuto soggettivo e il vissuto altrui anche di epoche diverse dalla propria. Il dolore appartiene non solo agli esseri umani ma a tutti gli animali dotati di sensibilità nervosa e costituisce essenzialmente non solo un sensore del grado di alterazione somatica e psico-somatica provocata da agenti esterni alla normalità costitutiva di esseri animali e di esseri umani ma anche un loro fondamentale meccanismo di difesa da possibili o reali pericoli esterni che potrebbero comportare gravi ferite fisiche o psicologiche, o implicazioni addirittura letali che, nonostante tale meccanismo autodifensivo, non sempre si riesce ad evitare.

Il dolore è un’esperienza assolutamente individuale e soggettiva, un’esperienza che non deriva indirettamente dalla constatazione che tutti lo avvertono, che tutti soffrono, ma direttamente dalla mia esperienza individuale, soggettiva e personale, del dolore: sono io stesso il testimone e il garante del mio dolore, che pertanto esisterebbe anche se non sapessi che gli altri soffrono esattamente come soffro o potrei soffrire io. Posso pensare che io soffra come o perché anche gli altri soffrono: per analogia e per esperienza ma non per necessità logico-dimostrativa. La comune sofferenza di uomini e donne si può postulare, si può dedurre appunto per via analogica, ma non si può accertare per via rigorosamente empirica e sperimentale. Tutti vediamo la luce del sole ma, se anche tutti dicono di vederla, né io né gli altri possiamo stabilire di vederla proprio nello stesso modo. Poiché tutti gli individui sono uguali e diversi, anche il dolore sarà a tutti comune ma si diversificherà da soggetto a soggetto, anche se estremamente difficile risulta una comparazione tra i diversi gradi individuali di dolore o sofferenza.

Naturalmente la fenomenologia del dolore è multiforme, nel senso che molteplici e spesso diversissime sono le sue nature (fisica, psichica, morale, metafisica e religiosa), anche se fra esse esistono poi delle evidenti connessioni, e le ragioni che ne sono alla base, ed è anche probabile che non a tutte le forme di dolore umano possa attribuirsi, sul piano morale, lo stesso grado di nobiltà. In particolare, per ciò che concerne appunto in modo specifico il dolore morale, si può soffrire, per esempio, a causa del fatto che si sia discriminati non per essere persone realmente rozze, ignoranti, scorrette o ignobili, ma semplicemente per essere in sede privata e pubblica come altri sanno di non poter o voler essere, si può soffrire per dire cose che gli altri, nel migliore dei casi, sono disposti ad ascoltare e a condividere su un piano dialogico-discorsivo di carattere generale ma da cui prendono invece nevroticamente le distanze se o quando le stesse cose vengano anche solo indirettamente o allusivamente riferite o applicate al loro modo intimo di pensare e di essere, alla loro natura morale scissa, spezzata, schizofrenicamente rotta e intermittente; si può soffrire per sentirsi disprezzati e odiati non perché di indole menzognera, malvagia o trasgressiva, turbolenta o indisciplinata, ma semplicemente perché mossi, in situazioni di particolare importanza etica ancor più che politica e culturale, dall’esigenza morale di contestare radicalmente e senza riguardi per nessuno, come immorali e socialmente e culturalmente indecorosi e improduttivi, taluni paradigmi comportamentali di tipo laidamente compromissorio, omissivo e permissivo. Naturalmente, talune afflizioni morali o spirituali possono indurre anche l’insorgenza di vere e proprie patologie, di malattie fisiche devastanti, ma quel che qui si ha interesse a sottolineare è che il dolore umano non possiede una valenza generica, unica e indifferenziata, bensì valenze diverse di ben diverso valore morale.

Altro è il dolore di chi soffre la fame e la mancanza di alloggio o di lavoro per motivi in qualche modo ascrivibili alla responsabilità di qualcuno o ad una conclamata inefficienza dello Stato, altro il dolore di chi versi nelle stesse condizioni di miseria o precarietà economica, per sua esclusiva responsabilità, per sua negligenza o per sua scelta; altro è il dolore di chi perde un familiare in conseguenza di una malattia inguaribile, altro il dolore di chi perde un familiare o un semplice amico notoriamente o oggettivamente impegnati contro attività delittuose o illegali; altro è il dolore di chi, pur preparato e capace di ricoprire importanti ruoli amministrativi o culturali, si veda escluso da graduatorie di merito perché giudicato imparzialmente inferiore ad altri candidati, altro il dolore di chi, dotato di notevoli capacità produttive e professionali, si veda escluso da graduatorie di merito non per demerito personale, né per reali ma impersonali carenze istituzionali, quanto per la neghittosità, la codardìa, la sostanziale indifferenza di molti che, pur potendo combattere il cosiddetto sistema dall’interno per ridurre sensibilmente fenomeni regressivi o involutivi, si limitano a combatterlo ipocritamente dall’esterno, senza mai sporcarsi le mani con corruzione e malaffare e anzi sfruttando l’una e l’altro per coltivare i propri interessi di bottega. Altro ancora è il dolore provocato a qualcuno con offese deliberate e ingiustificate, altro il dolore provocato a persone o a gruppi per doverosa reazione morale, anche se espressa in forma aspra, verso loro comportamenti riprovevoli e manifestamente iniqui.

In quest’ultimo caso, a dire il vero, il sentimento prevalente, più che di dolore, è di rabbia, risentimento o rancore, per l’affronto psicologico subìto ma non anche per motivazioni arbitrarie che ne siano alla base, giacché c’è una sostanziale differenza tra l’atto dell’offendere e l’atto della censura, della denuncia o della contestazione morale, benché oggi, al riguardo, si faccia spesso confusione nei tribunali italiani e, probabilmente, in quelli di tutto il mondo. Come non cogliere, dunque, la differenza di valore morale tra contrapposti casi di sofferenza umana ed esistenziale quali quelli precedentemente descritti?

Ma se tutto ciò ha a che fare con la sfera dell’esistenza soggettiva e dei rapporti esistenziali intersoggettivi, dove un ruolo preponderante viene spesso esercitato dal carattere, dall’indole, dall’integrità intellettuale e morale, dalla volontà, dalla personalità complessiva di singoli individui o di determinati gruppi di individui, non è meno vero che, in un più ampio orizzonte esistenziale, si dà una realtà del dolore indipendente dal modo soggettivo di pensare, di sentire e di essere in rapporto ai propri simili o al prossimo, e strettamente legata alla stessa condizione strutturale dell’uomo in quanto individuo e in quanto specie. Per il semplice fatto di essere un essere finito, limitato, carente e precario, privo di autosufficienza ontologica, l’uomo è costitutivamente soggetto alla mancanza, non alla mancanza di beni secondari o subordinati, come potrebbero essere un lavoro pienamente soddisfacente o un alloggio molto confortevole o un solido rapporto umano, ma di beni ritenuti fondamentali, nella percezione comune, quali la conservazione stabile e sicura di un qualche rapporto affettivo, il mantenimento indefinito di un soddisfacente status economico e sociale di vita, la certezza stessa del vivere. L’uomo conosce bene, peraltro, la natura assolutamente contingente, provvisoria, della sua esistenza e di tutto ciò che, tutto sommato, possa renderla preferibile ad una condizione di mai avvenuta esistenza, anche se poi, sotto il peso di amarezze, delusioni, insuccessi e fallimenti, possa dolersi di essere venuto al mondo.

Questa mancanza originaria e permanente condanna l’uomo al dolore, a porsi domande metafisiche che sono tuttavia fonte di profonda e lacerante sofferenza esistenziale. Perché il male, perché le malattie, perché tante sciagure che si abbattono tanto su persone innocenti quanto su persone colpevoli e malvagie, perché la morte? E poi, anche da parte di soggetti che facciano professione di fede religiosa e cristiana, domande ancor più angosciose e apparentemente prive di risposte convincenti: se Dio c’è, perché ci sono il male e il dolore? Anche se, a rigor di logica, almeno i credenti dovrebbero ben conoscere la risposta o ritrovarla continuamente nella stessa fonte della loro fede, che è la Parola di Dio? E anche se non si comprende bene perché lo stesso pensatore laico di ogni generazione non ritenga di poter invertire logicamente i termini di quella stessa domanda, ovvero: visto che il male e il dolore abitano oggettivamente tra gli uomini, perché mai non dovrebbe esserci Dio? Forse, nell’ipotesi dell’esistenza di un Dio giusto e misericordioso, la presenza del dolore e del male nel mondo resterebbe assolutamente intatta o sarebbe percepita in modo ancora più acuto, ma certamente non potrebbe non cambiare la prospettiva esistenziale umana, perché altro è soffrire sapendo di non poter mai superare la propria condizione di sofferenza e di morte, altro è soffrire coltivando non necessariamente penose illusioni ma qualche plausibile ragione e speranza non solo circa la superabilità dell’apparente irreversibilità di ogni fine terrena ma anche circa il possibile miglioramento della propria condizione attuale di vita. 

Qui l’analisi diventa eminentemente teologica ma la logica umana deve fare i conti anche con la teologia ove non voglia essere accusata di essere una logica parziale o omissiva. Le interpretazioni teologiche più correnti sono quelle per cui il dolore può venire inteso come punizione e purificazione del peccatore, come espiazione dei giusti anche se peccatori a favore di tutti i peccatori non abitati però da un senso di giustizia, come dazio terreno che bisogna pagare in misura maggiore o minore per ottenere più o meno significativi sconti di pena nell’al di là o un potenziamento delle future gioie celesti. Ometto qui ogni riferimento alla drammatica e straziante esperienza storica della Shoah, che viene ripetendosi storicamente molto più frequentemente di quanto non si voglia pensare, e che trova anch’essa possibili risposte nelle Sacre Scritture e nelle forme più serie e rigorose, ancorché minoritarie, di teodicea contemporanea.

Certo, Gustav Jung riteneva che il Dio biblico fosse un Dio contemporaneamente misericordioso e crudele, consolatore e afflittivo, e fosse in ogni caso un Dio in cui almeno una coscienza riflessiva non possa riporre assolutamente la sua fede (C. G. Jung, Risposta a Giobbe, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 97). Ma, naturalmente, non è detto che Jung, come Freud e tanti altri insigni pensatori e scienziati, siano stati capaci di studiare attentamente le Sacre Scritture e di coglierne sempre correttamente il senso. Peraltro, è una tentazione assai ricorrente quella di interpretare i pensieri e le azioni di Dio, spesso inconsapevolmente, alla luce di categorie di ben sperimentata efficacia logico-metodologica, ma pur sempre antropomorfiche. Per esempio, un utile suggerimento sul tema del rapporto tra Creatore e creatura e del dono divino della libertà elargito a quest’ultima, può essere considerato quello a suo tempo espresso da Massimo Cacciari: «La libertà pensata radicalmente significa che l’uomo è sciolto da Dio, ma anche che Dio è sciolto dall’uomo» (Della cosa ultima, Milano, Adelphi, 2004, pp. 174-177). Affermazione che, tradotta teologicamente, comporta l’impossibilità di considerare Dio come direttamente responsabile del male e del dolore. Certo, il discorso resta problematico ma, sulla base di un’osservazione del genere, appare meno scontato e meno unilaterale di quanto non abbia pensato larga parte dell’intellighènzia filosofica e scientifica degli ultimi due secoli.

Tuttavia, è opportuno precisare che il presente scritto non è né animato, né percorso da una linea interpretativa di tipo doloristico. Per il cristiano, si tratta di capire criticamente e non riduttivamente a cosa possa essere attribuita la presenza persistente e radicale del male e del dolore nella storia degli uomini, ma, beninteso, si tratta anche di non accettare o subire passivamente entrambi pur nella consapevolezza di non potersi comunque sottrarre al loro pesantissimo giogo. Sono fondamentalmente due le concezioni del male e del dolore a fronteggiarsi nel quadro della filosofia moderna e contemporanea: quella dialettico-materialistica di matrice marxista secondo cui le radici del male e del dolore sono esclusivamente immanenti e quella cristiana secondo cui esse sono invece trascendenti. Ne consegue, nel primo caso, che il male e le connesse forme di sofferenza siano dialetticamente necessari per consentire agli uomini di contrastarli ai fini del perseguimento di stadi sempre più avanzati di benessere collettivo e giustizia sociale, mentre, nel secondo, pur non costituendo essi delle realtà necessarie al progresso civile e spirituale dell’umanità ma piuttosto degli ostacoli ineliminabili per quest’ultimo in quanto creati dal peccato originale, si rende necessario affrontarli e contrastarli non tanto per eliminarli quanto per impedirne o ridurne il proliferare di forme sempre più degenerative e, soprattutto, per acquisire il diritto a poter sperare nel conseguimento del premio celeste consistente in una vita in pienezza, omnilaterale e ulteriormente potenziata nelle sue facoltà creative e spirituali (Si possono vedere, al riguardo, a titolo esemplificativo A. Zanardo, La sofferenza: senso del limite e occasione, in “Filosofia del dolore. Modi e interpretazioni della sofferenza” – Atti del Convegno nazionale della Società Filosofica Italiana, Matera 3-5 ottobre 1991, Matera, pp. 57-68 e G. Rognini, Metafisica e sofferenza. Un itinerario critico con Italo Mancini, Verona, Mazziana, 1983).

Si tratta, più esattamente, per il cristiano di capire quali siano i modi più intelligenti, più utili, più ragionevoli, efficaci e razionali, di affrontare quegli ostacoli storicamente inamovibili  e, se non di superarli completamente da vivi, quanto meno di scavalcarli definitivamente una volta morti e dopo la morte, giacché alla fine ogni umano ragionamento trova qui il suo esito decisivo proprio sul tema della superabilità o insuperabilità della morte, così come anche il dolore viene occupando la scena dell’umana esistenza tra i due estremi del senso di un dolore misterioso ma, in una certa misura, spiegabile e ipoteticamente funzionale al perseguimento di una possibile forma esistenziale di beatitudine e del non senso di un dolore totalmente avvolto nel mistero e radicalmente chiuso ad ogni tentativo e ad ogni speranza di comprensione razionale e spirituale di una sua pur sempre possibile funzione redentiva ed emancipativa.

In fin dei conti, al di là del comprensibile trauma rappresentato dall’esperienza del dolore e della morte, in che modo si potrebbe sostenere, in base alla “legge di Hume”, che il dolore e la morte siano e perciò debbano essere incontrovertibilmente l’ultima parola della vita? Al momento lo sono, fino a questo stadio storico lo sono stati e lo sono: ma come si può asserire, senza infrangere tale legge, che dovranno esserlo necessariamente per l’eternità? Il credente e il non credente potranno semplicemente credere e postulare quel che vogliono, ma questo consente al credente di rimanere in gioco proprio sul piano logico-dimostrativo ed empirico-fattuale in attesa che si possa in qualche modo accertare la fondatezza o infondatezza, la plausibilità o non plausibilità della sua stessa fede e degli scenari sovrannaturali da essa implicati.

Bisogna essere consapevoli che il dolore, pur essendo una reazione naturale ad un trauma esterno, che in un senso esistenziale molto largo può essere rappresentato dalla difficoltà di interagire con una realtà percepita come troppo dura e ostile, con un mondo relazionale e sociale percepito come troppo distante da un bisogno umano di socializzazione, di condivisione, di comunione, tuttavia tanto più è suscettibile di amplificare i suoi effetti devastanti, quanto maggiore è la sua connessione con il sapere inteso come sintesi di conoscenza e coscienza. Quanto più si sa, tanto più si soffre; quanto più si apprende attraverso l’onesta e intransigente fatica del pensare, tanto maggiori sono le possibilità di accedere ad una visione di brutture, di finzioni e mascheramenti, di contraddizioni e perversioni, di crudeltà e tradimenti, che resta sempre distante dai ragionamenti variamente standardizzati, seppur in apparenza profondi, di spiriti sostanzialmente rozzi o immaturi; quanto più si impara, tanto più si diventa consapevoli delle voragini dolorose di non senso cui può condurre un pensiero male usato e una volontà fiaccamente esercitata, ma anche dei rischi di doloroso e drammatico isolamento che possono derivare da un’ostinata determinazione a predicare e testimoniare le difficili e inconfessate verità del mondo. Anche in questo caso si può parlare di un senso del dolore, di un dolore che ha senso se è posto al servizio di processi reali e non strumentali di moralizzazione, di cause quanto più possibile generose o caritatevoli di liberazione e non di mistificazione, di progetti integrali e non parziali e illusori di umanizzazione; e di un non senso del dolore, di un dolore inflitto per supponenza o stupidità, per malvagità o rivalità, per indifferenza o vigliaccheria.

La vita è dolore e il dolore, tuttavia, a seconda dell’orizzonte etico-intenzionale in cui viene vissuto ed elaborato, può assumere valenze esistenziali diverse e contrapposte e, in tal senso, ciò che urge in modo particolare segnalare, è che esso non si configuri necessariamente o unilateralmente come mutilazione o negazione della vita ma anche come stimolo alla vita, come fermento di vita, come segno e sintomo di una mancanza vitale che sollecita non semplicemente a patirla ma a contrastarla e a trascenderla con la forza spirituale di una fede in una vita che non muore, che è più potente del dolore e della morte, che si nutre di profonda, consapevole ma innocente e operosa infelicità, non per rimpiangere e rincorrere nostalgicamente forme insensate di esasperato vitalismo, non per andare incontro inerzialmente alla morte e al nulla, ma per ritornare, luminosamente rivestita di senso, al tutto vivente di cui eternamente fa parte.

Per questo, la ragione, che è dotata di note facoltà conoscitive ma anche di sconosciute potenzialità intuitive, può scoprire che anche il dolore più insensato e lancinante sia in realtà destinato ad impregnarsi di elevatissimo senso morale e/o religioso se scaturisca da una vita trascorsa nel culto della verità e della virtù e nella passione di un impegno pratico volto a crocifiggere nella carne tutte le passioni fallaci del mondo. Non si tratta, beninteso, di ostentare il lutto, ma solo di rendere visibile il lutto nascosto e razionalizzato, spesso inconsapevole, dell’uomo contemporaneo. L’uomo che soffre, nella sua epoca, per indissolubile fedeltà al vero e al giusto avrà forse il privilegio di sentire il silenzio di Dio nella sua solitudine, ma anche la certezza di aver fatto del suo meglio per sperare di poterne ottenere il perdono e infine la speranza di poter cogliere finalmente appieno il senso del suo dolore.   

Francesco di Maria

Lascia un commento