Il sale e la luce

I cristiani, in quanto seguaci avveduti e responsabili dell’insegnamento di Cristo, sia pure all’interno delle proprie esperienze personali di vita e delle loro capacità più o meno rilevanti o carismatiche di carattere intellettivo, volitivo e spirituale, sono virtualmente sale e luce, sale da utilizzare per dare sapore, significato, senso e gusto alle cose, agli eventi, al mondo, alla vita propria e altrui, e luce per portare in superficie o porre in evidenza tutto ciò di cui, comportamenti, pensieri, sentimenti, modelli o pratiche di vita, nel mondo non si riconosce l’importanza, il valore, l’effettiva consistenza, e che pertanto tende a restare avvolto nell’oscurità. Bisogna portare sale della migliore qualità negli avvenimenti del mondo e nelle vicende di vita, senza eccessiva timidezza e senza presunzione ma con moderazione e senso della misura, perché nell’esistenza singola e collettiva non c’è nulla che, in se stesso considerato, abbia, al pari del cibo, la sapidità necessaria ad essere mangiato, apprezzato e gustato. E bisogna accendere la luce, che il cristiano porta in se stesso, non per accecare i propri simili ma solo per quel tanto che basti a rischiararne la via o il cammino: bisogna tenerla accesa senza timore di sprecarla ma sapendo che essa è necessaria ad illuminare ciò che altrimenti, pur essendo molto utile e indispensabile alla vita morale, comunitaria e spirituale degli esseri umani, resterebbe nascosto e inservibile. La verità e il bene, nella vita delle creature e nella storia dell’umanità, hanno bisogno del sale e della luce contenuti nel messaggio evangelico.  

Il sale del cristiano è necessario perché le cose non restino sempre uguali nella loro sostanziale insignificanza o nella loro tendenziale insensatezza, perché i rapporti tra le persone, tra i popoli e gli Stati, evolvano verso il bene e la giustizia; il sale del cristiano è necessario a restituire dignità a tutto ciò e a tutti coloro che il mondo trascura, emargina, scarta o disprezza, a conferire visibilità a pensieri, valori, opere, generalmente trascurati, disprezzati e condannati all’invisibilità. Ma, naturalmente, è altrettanto vero che sale e luce trovano la loro principale caratteristica nella loro invisibilità: il sale insaporisce la pietanza ma in essa scompare e se ne apprezza la presenza solo mangiando, consumando quest’ultima. E così anche la fede, la testimonianza della propria fede, sono significative non solo e non tanto se e quando risultino riconoscibili agli occhi di un mondo pagano o miscredente, ma se e quando in tutta umiltà e, sia pure nel pubblico disconoscimento, agiscono come lievito nella pasta informe dello spirito personale e collettivo del mondo fino a farne emergere lentamente il sapore e il senso più vero e profondo. 

Ma sale e luce sono doni di Dio, non proprietà esclusivamente personali del discepolo, che pertanto dovrà farne un uso appropriato, sapiente, equilibrato, e non arbitrario e arrogante. Essi non possono alimentare la vanità, il protagonismo del credente, ma devono essere adoperati come strumenti di servizio spirituale al prossimo e alla comunità. Nell’assaggiare un buon piatto, non si dice “come è buono il sale” ma “questo piatto è buono, è squisito”; e quando si entra in una stanza illuminata, non ci si concentra sulla fonte della luce ma su ciò che nella stanza, grazie a quella luce, viene acquistando risalto. Il che, fuor di metafora, significa che la presenza cristiana in qualunque ambito della vita civile, economica, politica, culturale e religiosa, deve essere esercitata esclusivamente nella dimensione del servizio, di un impegno gratuito e incondizionato. D’altra parte, il successo o l’insuccesso di tale impegno, nelle forme e nei tempi talvolta meno prevedibili e più sorprendenti, sono nelle mani di Dio, che tuttavia saprà, nell’ultimo giorno, come fare pubblicamente e pienamente giustizia ai suoi “eletti”, ai suoi “semplici”, ai suoi “ultimi” (Lc 18, 1-17).

Beninteso, la sapienza che rende sapida la vita non coincide con il sapere erudito, enciclopedico, o con il sapere specialistico, tecnico o scientifico, pure in se stessi utili e dignitosi, ma con la capacità di discernimento, con la capacità di capire il vero senso delle cose conosciute, cospicue o esigue che siano. In tal senso, si danno, nella storia della cultura e nella storia tout court, forme di sapere straordinariamente sfarzose o complesse ma sostanzialmente aride e improduttive, e forme di sapere molto semplici o stringate che alla lunga vengono tuttavia rivelandosi feconde e lungimiranti. Certo, non basta essere o professarsi cristiani per essere vivo fermento di verità e umanità, si può essere anche cristiani insipidi: il che vorrebbe dire stare al mondo senza avere il senso del proprio ruolo. Si può essere dotati di un’altissima spiritualità o di notevole senso etico, ma se essi fungono solo da specchio in cui venga riflessa la propria immagine, il proprio io, sostanzialmente chiuso al mondo degli altri, alla storia di uomini e donne oppressi, sfruttati, emarginati o perseguitati, non si può essere altro che sale senza sapienza e senza sapidità, buono solo per essere calpestato da tutti.

Allo stesso modo, i cristiani che pensino di far risplendere la luce di Cristo semplicemente in atti religiosi formalmente impeccabili, in dotte e magniloquenti omelie, in solenni e rigorose dissertazioni accademiche, in compunte e devote celebrazioni eucaristiche o in manifestazioni eclatanti di carità ecclesiale, sono solo disgraziatissimi interpreti della Parola evangelica, giacché non si tratta di mettersi in evidenza e cercare la luce là dove forse ce n’è già fin troppa, ma di tentare di essere presenti là dove c’è maggior bisogno di luce ovvero nei luoghi più oscuri. Non si tratta di praticare la giustizia «davanti agli uomini» per riceverne la lode o benefici di qualunque genere, non si tratta di esibire le proprie buone azioni ma di fare, possibilmente non visti, cose buone e cose belle, degne di essere viste, contemplate, ammirate, diffuse e partecipate, cose non da ostentare ma da offrire come via alla felicità non egocentrica e fatiscente ma condivisa di molti nel comune vincolo dell’amore verso Dio.

L’immagine evangelica del sale è un’immagine forte, potente: il sale non dà solo sapore, gusto e valore ai cibi come alla vita personale, relazionale, comunitaria e sociale. Esso possiede anche una carica antibatterica, disinfettante, e quindi, ad esempio, impedisce che la vita cristiana, l’amore fraterno, possano essere equiparati a forme di sentimentalismo o di tenerume a buon mercato. L’amore cristiano non può essere sempre dolce come il miele: a volte necessita del sale che ne brucia le ferite ma appunto per disinfettarle e favorirne la guarigione. Essere sale della terra significa altresì che non si possono giustificare sistematicamente inauditi atti di prevaricazione e violenza, atroci e ingiustificabili iniquità, nel nome della pazienza e dello spirito cristiano di sopportazione. Spesso un atteggiamento del genere è solo sinonimo di ipocrisia, omertà, oscurantismo, e quindi antitetico allo spirito evangelico. Il cristiano, al contrario, è chiamato, in situazioni umanamente intollerabili, a denunciare gli stati di ingiustizia e illegalità, a smascherare le idolatrie del tempo, anche a costo di subire pesanti ritorsioni. Come dice Gesù, il chicco di grano deve morire per produrre molto frutto (Gv 12, 24).

Analogamente, la luce di Cristo non può essere privatizzata, non può restare nascosta agli altri, ai gruppi, alle comunità, ai popoli, ma deve essere irradiata specialmente verso i non credenti o i credenti “tiepidi”, e anzi possibilmente testimoniata in mezzo a loro con parole e atti, per non fare mancare loro quelle sollecitazioni spirituali che potrebbero indurli ad un graduale cambiamento di vita. I cristiani sono uomini tra uomini ma non possono confondersi con coloro che non abbiano la loro fede, non possono comportarsi come quanti non credano in Dio: questo significherebbe sprecare il sale e rinunciare alla luce. I cristiani nascosti, quelli che annientano la propria identità e la propria dignità di figli di Dio, sono non solo inutili ma persino dannosi alla spiritualità del popolo di Dio e dello stesso genere umano. Non sarà mai anacronistico e sconveniente indirizzare loro le stesse parole proferite da san Paolo a beneficio dei cristiani di Filippi: «Molti … si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose»  (Lettera ai Filippesi 3, 18-21).

Bisognerà altresì superare ogni imbarazzo psicologico indotto oggi nelle masse cristiano-cattoliche dal “pensiero unico” e dal “politicamente corretto”, ben sapendo tuttavia che il mondo, la Chiesa, Cristo stesso hanno bisogno di cristiani che splendano, non importa se misconosciuti e derisi, nel buio pesto di una società liquida e disgregata, come umili e imperfetti ma fulgidi esempi di come e cosa si debba pensare e fare per imboccare la via della salvezza eterna, del ricongiungimento con Dio. La missione affidata da Cristo alla sua Chiesa e ai suoi seguaci non è quella di mettersi d’accordo col mondo, di raggiungere con esso un modus vivendi o di pacificarsi a tutti i costi con le sue logiche immanentistiche e le sue istanze praticistiche ed indiscriminatamente pluralistiche, ma quella di preservare nel miglior modo possibile il mondo dalla corruzione del male, di dare sapore e senso alla vita, di annunciare e gridare la verità e il bene con la luce della fedeltà e dell’impegno evangelici, con la splendente fiaccola di una vita non priva di contraddizioni ma sempre finalizzata a glorificare il Signore.

Sino a quando i cristiani non prenderanno sul serio il loro compito, con la cultura, il lavoro, l’impegno civile, la pratica eucaristica e sacramentale, la parresìa comunitaria o ecclesiale, le attività economiche e la stessa attività politica, di annunciare con parole e opere il Cristo come vera e unica «luce delle genti», di essere o diventare sempre più degnamente theophóroi, cioè portatori di Cristo nel mondo, e di preannunciarne il Regno, per quanto ciò comporti anche derisione e oppressione, commiserazione ed emarginazione, essi non avvertiranno realmente quella fame e sete di giustizia che costituiscono il sostrato delle beatitudini evangeliche. Certo, nell’adempiere i propri doveri spirituali e la loro funzione profetica, saranno soggetti a fatica, a stanchezza, a sofferenza, alla tentazione di desistere, ma, nella straordinaria importanza del ruolo loro affidato da Dio, potranno sempre trovare una motivazione talmente gratificante sul piano esistenziale da sentirsi indotti a vivere e a morire, coerentemente, nel nome di Cristo.

Essi sanno, infatti, di non essere responsabili solo della loro sorte personale, ma anche di quella altrui e, indirettamente, di quella dell’intera umanità. Che poi i cristiani ancora disposti ad accogliere il mandato evangelico siano sempre di meno, sino a costituire un’infima minoranza, è in fondo ciò che corrisponde alla situazione storica in cui si trovava Gesù allorché rivolgeva l’invito ad essere sale, lievito e luce della terra, non certo a grandi masse di convertiti e di battezzati in lui ma ad una comunità ancora piccola, ad una ristretta minoranza di persone particolarmente a lui fedeli, quella degli apostoli, che si sarebbero poi rivelati lievito pregiatissimo della cultura e della civiltà occidentali.

Francesco di Maria

 

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