Per una filosofia della carità

Il fondamento logico ed etico-teologico del concetto cristiano di carità è dato dall’incarnazione e dall’umanizzazione di Dio, dal fatto che la divinità si svuota dei caratteri di assolutezza, onnipotenza, eternità e trascendenza, pure ad essa riconosciuti dal giudaismo e dal cristianesimo ortodosso, configurandosi per ciò stesso come principio di mitezza, di affabilità, di carità. Dio, quindi, più che sovrannaturale e intransigente manifestazione di giudizio e di giustizia in rapporto al mondo e all’uomo, esprime la sua vicinanza, la sua prossimità, la sua amicizia, in sostanza la sua carità verso l’umanità finita, debole e sofferente. La stessa rivelazione, pertanto, consiste essenzialmente nella rivelazione di Dio come pura e semplice carità. Questa era l’interpretazione filosofica che del cristianesimo, circa venticinque anni or sono, dava Gianni Vattimo, teorico del pensiero debole (G. Vattimo, Credere di credere. E’ possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Milano, Garzanti, 1998. Una provocazione per la riflessione teologica è stata definita l’intera elaborazione filosofica di Vattimo, tra gli altri, da C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo, Roma, LAS, 1999, che interagisce criticamente con l’analisi corrosiva del filosofo piemontese, anche se non sostenuta da una adeguata conoscenza del pensiero filosofico e teologico cristiano-cattolico), senza tuttavia rendersi conto di proporre un approccio interpretativo molto limitativo e deficitario, perché fondamentalmente emotivo e sentimentale, al complessivo e articolato significato della Parola di Dio e del messaggio evangelico.

Infatti, proprio le parole tanto care al filosofo torinese, come amore, carità, mitezza, debolezza e così via, vengono acquistando, alla luce della rivelazione, un significato ben preciso che non può essere confuso con il significato vago e generico, di natura puramente psicologica, emozionale, sentimentale, e magari anche erotico, che quei termini vengono spesso assumendo nel linguaggio comune, benché Vattimo abbia voluto vedere nella carità cristiana «il limite invalicabile del processo di secolarizzazione. Questa ha messo in crisi ogni verità che si proponga in modo dogmatico e violento, ogni concetto dell’essere come forza che s’impone, ogni dato della tradizione che si pretenda immutabile nella sua formulazione. Tutti elementi che egli ritiene costitutivi del “pensiero debole”» (G. Ferretti, Filosofia. Gianni Vattimo, La carità come limite alla secolarizzazione, in “Riflessioni”, blog on line, 25 settembre 2023).

Vattimo non si accorge che la carità, pure considerata come baluardo insuperabile della secolarizzazione senza il quale non sussisterebbe alcuna forza spirituale capace di contrastare e contenere la violenza dissolutrice del nichilismo contemporaneo, lungi dall’essere antitetica alla legislazione dell’assoluto Logos divino, ne è solo una derivazione, la derivazione anzi più significativa ed impegnativa. Egli non ha mai compreso che l’amore di Dio e del Dio cristiano non è identificabile con un semplice e ininterrotto efflusso di benevolenza e magnanimità, dovuto più ad una necessità divina di tenerlo sempre attivo che alla necessità della creatura di beneficiarne, né poteva intenderne quindi il senso isolandolo o svincolandolo dal Logos divino, da uno spirito divino, cioè non originariamente umano, di verità esigente che fa tutt’uno con uno spirito divino di giustizia. Da un punto di vista evangelico, l’amore divino si trova ad oscillare ontologicamente tra la verità e la giustizia di Dio e di esse è una prodigiosa emanazione preposta certo a riverberarsi nella mente, nella coscienza e nella vita degli esseri umani. Questo insegnano i vangeli, la teologia dei Padri della Chiesa, il magistero pontificio ed ecclesiale, per cui la risposta alla domanda posta da Vattimo, se cioè sia possibile essere cristiani nonostante la Chiesa, è necessariamente negativa. Non perché non si possa e non si debba essere cristiani nonostante gli errori e le indegnità di cui è disseminata la storia della Chiesa, ma perché, per volere stesso di Cristo, la sua Chiesa resta comunque suprema custode del depositum fidei, garanzia di legittimità della fede in Cristo, viatico di salvezza. 

Ma Vattimo persegue un disegno filosofico funzionale non solo e non tanto alla comprensione critica di un processo storico-culturale di decomposizione dei princìpi normativi, delle credenze e dei valori forti della tradizione e di un passato anche relativamente vicino, quanto alla giustificazione etica di modelli di comportamento, stili di pensiero e di vita ormai in aperta rivolta contro forme tradizionali, dogmatiche o semplicemente rigorose e autorevoli, di esistenza personale e collettiva. La sua etica debole continua ad avere un’ispirazione religiosa, ma la religiosità di tale etica consiste semplicemente in una attitudine umana alla tolleranza e al rispetto di un pluralismo intellettuale, valoriale e comportamentale sempre più vario e differenziato. Vattimo non si sintonizza sull’amorevole ma intransigente Logos divino delle Scritture ma su un logos puramente umano, soggettivo, spiritualmente destrutturato, condiscendente verso impulsi e propensioni di natura carnale.  Egli non appare disposto a comprendere che il Verbo di Dio si incarna nella natura umana senza perdere quella divina. In Cristo Dio diventa uomo senza che ciò comporti un depotenziamento della sua realtà divina, il che significa che Egli non è per noi un semplice amico, pur essendo disposto a considerarci suoi amici, anche perché, se fosse un semplice amico, un amico tra tanti possibili, non si vede quale importanza determinante, cioè salvifica, potrebbe avere per l’umanità.

Si può anche dire, per conservare questa immagine dell’amicizia, che solo l’amicizia di un Dio assoluto, onnipotente ed eterno, può consentire agli uomini di vivere per l’eternità. La carità cristiana, perciò, lungi dal potersi concepire come proiezione di un pensare e di un sentire meramente soggettivi, ha un fondamento oggettivo di verità e vale solo alla luce e in virtù di tale fondamento. Per questa ragione, carità, nel senso cristiano del termine, non comporta alcuna particolare indulgenza, se non talvolta nei modi esteriori, verso forme conclamate di errore, di vizio, di peccato, anche se il pensiero laico continui a ritenere incompatibili i valori assoluti e oggettivi della fede religiosa e della stessa pratica caritativa in essa radicata con la libertà di coscienza, il pluralismo e le regole del vivere democratico. Una libertà morale, senza verità, come quella teorizzata da Vattimo, significherebbe soltanto, come oggi purtroppo significa, abolire virtualmente ogni possibile distinzione tra bene e male, moralità e immoralità, rettitudine e turpitudine.

Peraltro, nel prendere posizione, specialmente in un’ottica cattolica, verso il debolismo filosofico ed etico-religioso proposto dal filosofo piemontese, non si è necessariamente insensibili alle avvertenze contenute in quel principio della “carità interpretativa” formulato dal filosofo analitico americano Donald Davidson il quale, muovendo dalla constatazione che nella comunicazione interpersonale si nascondono spesso preconcetti, equivoci, incomprensioni, individuava appunto in un principio di carità, che implicava pazienza, moderazione, sforzo di interazione psicologica ancor prima che linguistica, da parte dell’interprete nei confronti dell’interlocutore o del testo, il necessario presupposto, e non una semplice opzione, dell’interpretazione e della comprensione stessa (D. Davidson, Verità e interpretazione, Bologna, Il Mulino, 1994 (1984); sul pensiero analitico di Davidson si può vedere M. De Caro, Dal punto di vista dell’interprete. La filosofia di Di Donald Davidson, Roma, Carocci, 1998 e C. Villano, Il percorso della verità Donald Davidson. Interpretare il principio di carità, Napoli, Luciano, 2011).

In fondo, tale principio, al di là della specifica formulazione teoretico-tecnicistica data dal pensatore americano, veniva implicitamente condiviso da Gilbert Keith Chesterton che, nel libro del 1929 “Perché sono cattolico”, usava la metafora di una recinzione costruita in una zona completamente abbandonata e disabitata e di un viaggiatore che non riesce a capire perché sia stata costruita in quel luogo deserto quella staccionata, decidendo così di abbatterla. La morale della favola era che, prima di abbattere qualcosa, un ragionamento, un discorso, una argomentazione, bisognerebbe provare innanzitutto ad immaginare per quali ragioni essi siano stati eretti, costruiti e posti in essere. Molto più recentemente anche il filosofo italiano di nazionalità inglese Julian Baggini ha scritto: «Per carità intendo lo sforzo di cercare di comprendere i punti di vista e gli argomenti di coloro con cui non siamo d’accordo nella forma per noi più empatica possibile, criticando le loro versioni più solide, non quelle più deboli o inconsistenti» (J. Baggini,  Datemi ogni giorno un credente ragionevole invece di un ateo intransigente, in “The Guardian” del 15 marzo 2012). Siamo tutti limitati e tutti potremmo sbagliarci, il che non è incompatibile con la necessità di sostenere con vigore posizioni molto ben definite e sicure. Il vero problema è, quindi, quello della ragionevolezza prima e al di là di quello relativo all’aver torto o ragione, anche se questo non implica che le divisioni filosofiche o culturali non siano reali. Ma è significativo che, nel richiamarsi implicitamente alla sua personale esperienza di vita e di lavoro, Baggini concluda così: «penso davvero che la divisione più importante nel dibattito religioso non sia tra credenti o non credenti, ma tra coloro che mostrano le virtù della ragionevolezza e coloro che non lo fanno. . Ecco perché spesso ho avuto dialoghi più fruttuosi con alcuni cattolici ed evangelici che con alcuni compagni atei. I nostri alleati dovrebbero essere tutti coloro che non si limitano a proclamare le virtù della ragionevolezza, ma vivono secondo esse, siano essi atei o agnostici – o di qualsiasi tipo di religione» (Ivi).

Ma il principio di carità non ha conosciuto solo la versione debole che ne ha dato Vattimo, bensì anche una versione forte come quella elaborata dal filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, la cui riflessione viene tuttavia esercitandosi in misura preponderante in relazione alla dimensione politica. Questi muove dalla premessa secondo cui il totalitarismo nazifascista e comunista del ‘900 sarebbe derivato da una cultura europea e occidentale della totalità, e di una totalità in cui ogni alterità risulta inglobata e soppressa. Dove c’è totalità, per Lévinas, non può esserci integrazione, tolleranza, accoglienza, ospitalità, ma solo uno spirito di conquista, di annessione, di dominio, di violenza e guerra volte ad espellere l’altro che non si conforma alla logica stessa della totalità, e, per quanto tale concetto resti francamente indimostrato su un piano rigorosamente logico, egli non esita ad affermare: «Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale. In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori di questa totalità stessa)» (E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 1980 (1961), pp. 19-20. Un profilo spesso ma non sempre convincente dell’itinerario teoretico di Lévinas, è quello di G. Ferretti, Emmanuel Lévinas. Un profilo e quattro temi teologici, Brescia, Queriniana, 2016. Molto significativo ma anche non poco problematico, anche un altro libro di Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, Milano, Rusconi, 2021).

Ogni filosofia o teologia dell’essere, del tutto, produce spirito di espulsione, di annessione, di dominio unificante e annichilente qualsivoglia forma o espressione di alterità, diversità, varietà, non già inclusa e compresa nei significati costitutivi dell’idea-principio di totalità. Di qui la decisione del filosofo francese di conferire all’etica, piuttosto che alla filosofia o alla teologia, il primato anche nell’ambito della riflessione critica. L’etica, infatti, deve occuparsi non di astratti universali, di ontologiche identità, di unificanti totalità, ma del modo di relazionarsi con ciò che non si conosce, con un diverso molteplice e irriducibile, con lo straniero, con una alterità sempre radicalmente diversa dal mio io e da una totalità aprioristicamente determinata, in modo che la mia verità esistenziale possa nutrirsi e arricchirsi della verità esistenziale altrui che mi è ancora ignota.

L’etica non si interroga sull’essere, sul carattere di omogeneità o eterogeneità degli individui rispetto a un tutto prestabilito o ad una struttura identitaria già data, ma si dispone a sperimentare, sul piano teorico-pratico, incontri inediti e non preconcetti con l’altro, con l’umanità e lo sguardo dell’altro, al di là dei suoi pensieri, idee, convinzioni, per interiorizzare ciò che è fuori di me, che non mi appartiene e che in qualche modo deve comunque potermi appartenere umanamente, e infine per stabilire in che modo possa rendermi eticamente responsabile non dell’altro come posso pensarlo io prima dell’incontro ma dell’altro guardandone il volto, facendo concreta e diretta esperienza della sua umanità.

L’etica è così riflessione critica sul bene che si tratta di compiere sul campo, in rapporto ad una radicale alterità dell’altro, che mi resiste, che non si lascia catturare e riportare nello spazio del mio io, del mio sguardo, del mio vissuto, della mia visione del mondo. Aprirsi all’altro non è più un aprirsi ad un’umanità scontata, ovvia, in fondo già abbastanza nota nella sua tipologia, ma ad un’umanità misteriosa, enigmatica, suscettibile di stupire, di sconvolgere e tuttavia, proprio per questo, suscettibile di maggiore attenzione e cura. Accogliere l’altro come altro irriducibile ad un’idea totalizzante dell’alterità, accoglierlo nella sua ancora indecifrabile e non omologabile identità, significa compiere il primo passo in un processo di apertura alla trascendenza, a Dio, al Dio che si rivela gradualmente rimanendo tuttavia altro da me, da me solo parzialmente assimilabile, ma pur sempre diverso, distante, separato da me: «La dimensione del divino si apre a partire dal volto umano … Solo qui il Trascendente, infinitamente Altro, ci sollecita e fa appello a noi» (E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 76). Così la mia patria non potrà mai essere completamente la patria dell’altro, anche se potrò parteciparne per allargare la mia patria, per rimodulare i miei sentimenti di bene, di accoglienza, di carità o amore, per partecipare della patria stessa di Dio, che è sempre vicina e tuttavia lontana, percepibile ma mai conoscibile, e si può pregustare ma non raggiungere.

Si tratta di un’etica forte fondata su un’istanza rigorosa, esigente, imperativa, di bene e di bontà, di tolleranza, carità e pietà verso l’alterità più ignota e inesplorata, istanza a sua volta originata dal sostrato antropologico di un’umanità comune a tutti gli individui. E’ tale istanza, tale principio etico-antropologico che rendono ragione non solo di una propensione istintiva a coltivare un sentimento naturale,  e quindi privo di specifici fondamenti logici, metafisici, teologici, di empatia persino verso l’altro più distante da me, verso un infinito etico mai compiutamente determinabile e afferrabile, ma anche di un deontologico movimento spirituale volto a recepire il senso morale e religioso di un gratuito andare incontro alle ragioni inespresse ma vitali dell’altro. In Lévinas, se il pensiero, come in Vattimo, non può essere fondato, il sentire morale trova invece il suo fondamento in una umanità che in ogni individuo parla la stessa lingua anche se in modi profondamenti diversi. Qui, non c’è più una teoresi logico-ontologica, metafisico-teologica, a porsi quale fondamento del discorso filosofico, ma un’etica ermeneutica, una riflessione morale capace di interpretare gli specifici bisogni dei molteplici e differenti vissuti che si sottraggono irriducibilmente a qualsivoglia categorizzazione ultimativa, definitiva, autoritaria.

Ma sarà lecito aspettarsi che anche l’altro, quantunque io possa non esigerlo ingiuntivamente, nel quadro della relazione etica e non semplicemente discorsiva che viene instaurandosi tra me e lui, possa compiere questo sforzo di interpretazione, compenetrazione, accettazione, ampliamento dei suoi orizzonti mentali, morali, spirituali? Sarà legittimo ipotizzare che, non solo il mio io e l’Io della mia comunità culturale, ma anche l’io radicalmente altro da me, da noi, voglia rinunciare ad ogni forma di colonizzazione, di egemonizzazione, di dominio, o il rapporto, in ossequio ad un ambiguo principio di accoglienza e ospitalità, dovrà risultare necessariamente sbilanciato a favore dell’altro? Si tratterà di neutralizzare la violenza, lo spirito di sopraffazione e annessione, in termini di reciprocità o piuttosto di ancora una volta preconcetta unilateralità? Dovrà essere, per caso, solo il mio io e l’Io della mia storia, della mia cultura e del mio mondo, e in sostanza del sapere e della cultura occidentali, a dover rinunciare alle consuete teorizzazioni logiche, ontologiche e teologiche tanto temute e vituperate, alle ricorrenti tentazioni egemoniche di determinati emisferi della civiltà umana?

Ma perché, eventualmente, l’eticità dell’ascolto, dell’accoglienza, dello stare in relazione al di là di un ordine precostituito di valori, dovrà riguardare solo il mio io individuale e personale, il mio Io europeo e culturale, e non anche qualunque altra forma di io-persona e di Io-etnìa o di Io-civiltà. Se il problema è quello di come indebolire il pensiero universale del genere umano, non occorre porsi seriamente e radicalmente tali interrogativi? Potrà o non potrà pur sempre accadere che, per quanto l’Io virtualmente dominante tenti di alleggerirsi ontologicamente e teologicamente, il radicalmente altro ne approfitti per caricarlo a dismisura dei pesi eventualmente troppo gravosi della sua diversità, delle sue esigenze, delle sue aspettative, delle sue speranze? La stessa religiosità, la stessa apertura spirituale alla trascendenza, a Dio, che, ben oltre ogni apparato dottrinario, teologico o apologetico, venga dischiudendosi attraverso una capacità di ascolto, un sentimento empatico, una predisposizione interattiva, in rapporto alle più imprevedibili differenze umane e culturali, dovrà poter essere tuttavia condivisa sulla base di uno scambio franco di sensazioni, stati d’animo, riflessioni, o dovrà essere semplicemente postulata in modo astratto, generico, confuso, e magari strumentale e inibente?

Non pare che né Vattimo, né Lévinas, finiscano mai per avvedersi di queste difficoltà teoriche, dell’implicita contraddittorietà delle loro disamine, e non è affatto sicuro che le loro posizioni filosofiche risultino sufficientemente “deboli” sul piano ontologico e sufficientemente “forti” sul piano ermeneutico.  La carità, come si è già detto, richiede di essere esercitata senza condizioni fondative, senza accordi preventivi, senza patteggiamenti aprioristici. E tuttavia, proprio sul piano etico e spirituale, la domanda non può e non deve essere elusa: tale avvertenza vale per me italiano, europeo, occidentale e cattolico, o anche per l’altro, straniero, africano o asiatico, islamico o confuciano? Non c’è alcuna prassi etica e religiosa che, prima o poi, non debba essere posta quale oggetto di tematizzazione, certo anche teorica, politica e culturale, perché le categorie del pensiero, per quanto soggette evidentemente a continua revisione, approfondimento e trasformazione, non sono altro dalla vita ma sono parte della vita, in quanto funzioni indispensabili e vitali della vita stessa. Ma è una domanda che, in Lévinas, e in modo ancora più marcato in Vattimo, sembra restare senza risposta.

La logica evangelica della verità è o non è pur sempre una logica realistica, propone un altruismo generoso, consapevole e responsabile, o piuttosto un altruismo avventato, fanatico e irrazionale, prevede il sacrificio o l’immolazione della propria vita a favore di un prossimo incolpevole di trovarsi in una situazione di pericolo e di bisogno o anche di un prossimo totalmente incurante delle conseguenze eventualmente dannose e letali delle sue scelte o dei suoi atti? Per essere più espliciti, sarà giusto offrire aiuto e solidarietà a immigrati poveri e perseguitati nei limiti in cui tuttavia, per amore verso i propri connazionali, sarà possibile, oltre che doveroso, rafforzare o adeguare le misure statuali di difesa territoriale, di ordine pubblico e sicurezza sanitaria, oppure la carità verso stranieri, migranti e sventurati di ogni parte del mondo, dovrà esercitarsi in modo indiscriminato e considerarsi prioritaria e preponderante in rapporto alla carità da esercitare verso tanti connazionali altrettanto fragili, poveri e bisognosi di cure? Il significato della carità evangelica non è affatto scontato, anche se molto frequenti sono gli usi strumentali, ora di tipo paternalistico, ora di tipo persino ricattatorio, che si fanno della carità per inconfessabili scopi ideologici e politici. Inoltre, è innegabile che si siano anche usi maliziosi o cattivi della carità e, come tali, inaccettabili e oggetto di rifiuto.

E’ stato osservato, in modo molto pertinente, che esistono forme di carità rifiutate perché non scaturienti da un disinteressato e genuino sentimento d’amore. Talvolta, infatti, la carità «non è un gesto virtuoso. È invece un sentimento o un atto che si riferisce a una situazione di gerarchia personale o economica o sociale. Il soccorritore, proprio perché situato in una posizione di supremazia, è libero di dare forma al proprio sentimento di soccorso e all’atto in cui questo si traduce. D’altra parte, è precisamente questa libertà del donatore, che disturba chi è destinatario del dono. Questi ritiene che ciò che riceve sia, in realtà, un’elargizione dovuta che impropriamente o falsamente il donatore presenta come manifestazione della propria benevolenza o del proprio altruismo … Il dono può semplicemente apparire inadeguato a manifestare altruismo o benevolenza: troppo modesto, intempestivo, incongruo rispetto al bisogno cui intende sopperire. Come che sia, chi riceve od osserva quel dono non riesce intravedervi l’amore come causa efficiente. Sicché questa carità (sentimento o atto che sia) non smentisce né attenua la disparità tra il bisognoso e il soccorrente; anzi la conferma e con ciò forse la esacerba addirittura. Come esito, ‘fare la carità’ può persino eguagliarsi a ‘offendere’ – o almeno somigliargli» (F. Rugge, La carità come gesto cattivo. Navigazione per una postilla, in AA.VV.,  Carità. L’Arca delle Virtù: da Agostino al XXI secolo, a cura di G. Delogu, Pavia, University Press, 2019, pp. 106-107). In altri termini, nella genesi logica e psicologica di un’apparente azione caritatevole possono annidarsi le radici di un’intenzione e di un gesto realmente cattivi.

La carità come dono può essere percepito come manifestazione di insicerità, di falsità, di ipocrisia, persino di arroganza, e questo è già un buon motivo, soprattutto per cristiani e cattolici, per non riempirsene troppo facilmente la bocca e per farne un uso quanto più possibile discreto, silenzioso, riservato, pur ammettendo che non sia comunque possibile escludere qualche svista o qualche incidente di percorso. Bisogna anche capire che quello di carità è un concetto-valore fenomenologicamente ricco di significati e applicazioni: sul piano materiale o economico ma anche su quello affettivo e morale, sul piano socio-assistenziale ma anche su quello giuridico, sul piano politico ma anche su quello specificamente intellettuale, e soprattutto in senso tanto verticale (verso Dio) quanto orizzontale (verso il prossimo o l’altro). Così come non può ritenersi marginale la consapevolezza di quanto, in molti casi, sia difficile stabilire se un atto, un’opera, un’iniziativa, siano o non siano dotati di spirito caritatevole. Anche questa è una di quelle questioni di coscienza su cui l’ultima parola non può spettare che a Dio, per il credente, mentre il non credente deve rassegnarsi a ritenerla insolubile.

Tuttavia, non solo è possibile ma è necessario parlare di carità al fine di focalizzare le caratteristiche costitutive generali di una prassi caritatevole in senso biblico-evangelico. Intanto, il senso specifico, più pregnante, della carità come virtù e valore, è quello che essa riceve proprio dalla Parola di Dio e da una Parola di Dio correttamente intesa, perché, al di fuori di essa, questa parola può solo significare tutto e il contrario di tutto e legittimare indifferentemente sia pratiche lodevoli, sia pratiche spregevoli di vita. In questo senso, le elaborazioni filosofiche del principio di carità in Vattimo e Lévinas risentono negativamente della difettosa assimilazione e anzi della deliberata manipolazione di cui sarebbero stato oggetto in entrambi i rispettivi contesti religiosi di riferimento: l’ebraismo per il primo, il cristianesimo per il secondo. Sia la religiosità ebraica che quella cristiana non possono essere interpretati alla luce della loro secolarizzazione: tanto varrebbe disconoscerli e prescinderne completamente. Cercare in essi pretestuosamente una qualche legittimazione per filosofie deboli o per filosofie della differenza di dubbia originalità non può che evidenziare il maldestro tentativo dei suddetti pensatori di adattare e anzi di piegare temi essenziali di antiche e venerate tradizioni religiose a pretenziose esigenze psicologiche personali di indipendenza intellettuale e autonomia esistenziale. Ma è sin troppo facile riconoscere la pusillanimità di un filosofare funzionale al soddisfacimento di miserevoli voglie personali.

Amore, carità, altruismo, sono concetti il cui significato non può essere separato dal loro originario significato biblico e questo comporta che essi non possono essere intesi in accezioni emozionali, sentimentalistiche, umanitarie o filantropiche, che essi non possono essere a prescindere dal Logos, dalla verità divina, dalla stretta connessione ontologica che intercorre tra verità e giustizia divine, proprio quella verità e quella giustizia così poco gradite a Vattimo e a Lévinas. La carità è una prerogativa divina che la divinità partecipa gratuitamente alla creatura, perché questa possa usarne responsabilmente, in conformità al volere e ai precetti di Dio stesso, come strumento di compassione, altruismo, condivisione, solidarietà. La carità è sinonimo d’amore ma di un amore non sensuale, non passionale, non puramente carnale, bensì disinteressato, altruistico, oblativo. La carità non è mai fonte di piacere, di guadagno, di potere, ma esclusivamente di conforto, di comunione nelle disgrazie come nei momenti lieti, di condivisione di beni materiali e immateriali. Per carità non è possibile confondere i vizi con le virtù, uno stato di peccato con uno stato di grazia, l’anarchia degli istinti con la libertà ordinata e controllata dei valori. Per carità nulla può essere preteso ma solo perseguito, anche se il punto naturale d’approdo della carità deve essere preliminarmente ciò che è giusto, la giustizia nella varietà delle sue forme possibili, al di là della quale tuttavia la carità può ancora trovare modo di esercitarsi al fine di temperare i possibili rigori della stessa giustizia.

Carità bisogna manifestare anche verso le istituzioni, gli ordinamenti, le leggi dello Stato, in quanto anche l’autorità di Cesare, dello Stato, è legittimata entro certi limiti da Dio. E, come si comprende facilmente, non è questo l’ordine l’ordine concettuale ed assiologico in cui Vattimo e Lévinas sono venuti elaborando le loro teorie della debolezza ontologica e della differenza. Vattimo, in particolare, contrabbanda la sua interpretazione dell’amore o della carità come interpretazione autenticamente cristiana, mentre in realtà essa è basata molto di più sulla predilezione per il significato da essi assunto nell’antica cultura greca. Come spiega in modo ineccepibile un teologo  particolarmente affidabile: «l’amore era … inteso come desiderio, come eros, come brama di raggiungere la piena realizzazione di se stessi (con la generazione fisica, l’arte oppure la filosofia). I greci ignoravano l’amore come donazione di se stessi, l’amore come carità o agape, l’amore altruistico, gratuito, disinteressato, universale, qual è l’amore di dio per gli uomini. Questo è il nuovo genere d’amore rivelato da Gesù Cristo. L’eros è essenzialmente un amore antropocentrico: l’uomo ne è la sorgente e anche il traguardo finale; l’agape è eminentemente teocentrico: dio è il suo punto di partenza e anche il suo punto d’arrivo; è un amore che procede da Dio, è un dono di Dio con cui l’uomo ama il prossimo e Dio stesso. L’agape è la caritas di cui parlano Paolo e s. Giovanni mentre l’eros è l’amore di cui parlano Platone e Plotino» (B. Mondin, Storia della metafisica. Dalla Patristica alla Scolastica, 3 voll., vol. II, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2021, p. 29).

Ora, la carità cristiana, pur ritenendo legittimo l’amore greco in un più ampio ed elevato ordine valoriale e spirituale, non può essere assolutamente ridotta al debolismo metafisico-ontologico, morale e religioso, proposto dai due pensatori in oggetto, così come, se è vero che non si può amare Dio senza amare i fratelli, il prossimo, nei modi di volta in volta più consoni alle loro specifiche necessità, è altrettanto vero che le modalità di soccorso, di assistenza, di solidarietà, quali che siano, dovranno trovare tuttavia il loro fondamento ultimo, la loro imprescindibile legittimazione, nella Parola di Dio, nella verità sovrannaturale ed eterna di Dio, che è proprio quello che risulta indigesto sia per Vattimo che per Lévinas, come per tutta quella numerosa famiglia di pensatori innamorati di Nietzsche o Heidegger, che presenta con essi legami o affinità molto stretti di pensiero.

Naturalmente, il primo passo della carità è costituito dalla giustizia, la quale a sua volta non rinvia semplicemente ad una verità di consuetudine o di tradizione ma ad una più universale e dirimente verità di natura morale e religiosa. La giustizia è un’emanazione importante della carità, è una forma altamente significativa anche se ancora non la più significativa in assoluto dell’amore evangelico, e quest’ultimo anzi, ove si prescindesse dallo spirito di giustizia,  sarebbe completamente privo di senso: «”Essere giusto vuol dire convalidare l’altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento, là dove non è possibile l’amore. E la giustizia avverte, dal canto suo, che esiste un altro, il quale non è come me e tuttavia ha anche lui il diritto al suo” ( Josef Pieper). Dunque, la giustizia è la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, ciò che è “suo”» (G. M. Flick, Giustizia e misericordia, in Atti del Convegno sul tema “La giustizia è la prima via della carità”, a cura di G. Groppo e promossa dalla Fondazione “Centesimus Annus Pro Pontifice”, Cuneo, 19 e 20 ottobre 2012, p. 31), come ad esempio il diritto ad essere libero dal bisogno e libero di cooperare al bene comune attraverso la piena esplicazione delle sue qualità morali ed intellettuali. Naturalmente, anche la giustizia, come già la carità, non è esente da ricorrenti e purtroppo permanenti ambiguità che vengono alla luce, in modo particolare, tutte le volte che si tenta di piegare, con mille artifici e raggiri, tale nobile principio al perseguimento di cause arbitrarie e ignobili.

Bisogna altresì rilevare che se la carità, nel suo significato più immediato o diretto, può giungere ad attuarsi come rinuncia almeno parziale a ciò che mi spetta di diritto, ivi compresi certi tratti molto marcati della mia personalità, a beneficio dell’impellente bisogno altrui di comprensione e di sostegno, la carità in senso mediato e quindi esplicata per il tramite della giustizia, invece, «non è il luogo dell’incontro, ma della separatezza che evita lo scontro e, per farlo, non può rinunciare a pretendere il dovuto, né consentire di prestare più del dovuto»  (Ivi, p. 34). Ma la sintesi della carità e della giustizia è data infine dalla misericordia, che si pone appunto come manifestazione congiunta di carità e giustizia. La misericordia è perfezionamento della giustizia ma anche suo superamento per via di carità, che in fondo è ciò che avrebbe intuito la cultura pagana di Roma e di Cicerone con la celebre massima “summum ius summa iniuria”, secondo cui un’applicazione troppo meticolosa e acritica della giustizia, e quindi avulsa dalle particolari circostanze che potrebbero dare luogo ad una controversia, ad un litigio, ad un abuso o ad un delitto, nonché dalle possibili attenuanti che esse potrebbero presentare per l’ipotetico colpevole, potrebbe trasformarsi in un’ingiustizia o costituire un precedente anche per ulteriori ingiustizie. Come si sa, il formalismo estremo, il legalismo è la degenerazione della giustizia in senso giuridico non meno che in senso religioso.

Non si può peraltro mancare di precisare e ribadire che né carità, né giustizia, né misericordia, né insomma quell’amore evangelico in cui tutte quelle mirabili virtù sono comprese, sarebbero possibili, senza lo sforzo di rimanere spiritualmente fedeli allo spirito divino di verità, ai comandamenti, ai precetti, ai consigli dati da Dio nella persona storica del Figlio unigenito. Ma si deve, di conseguenza, anche sottolineare che, proprio per questo, è semplicemente pretenzioso il dire di quanti affermano che la carità non sarebbe una virtù teologica di segno specificamente evangelico ma una predisposizione morale semplicemente naturale, antropologica, razionale. Come anche Pascal avrebbe tenuto ad affermare: «Tutti i corpi insieme e tutti gli intelletti insieme e tutti i loro prodotti non valgono il minimo moto di carità. Ne va di un ordine infinitamente più alto. […] Da tutti i corpi e le menti non si saprebbe trarre un moto di vera carità. Ciò è impossibile e di un altro ordine, soprannaturale» (B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Torino, Einaudi, 1967, pp. 341-342, n. 795). Ciò avrebbe detto il filosofo-scienziato francese non per sottovalutare l’importanza conoscitiva delle leggi fisico-astronomiche e delle opere civili e culturali, ma per sottolineare come il fondamento e il fine ultimo della vita intellettuale e della stessa civiltà umana non possa che essere l’amore, lo spirito di servizio e di dedizione al destino spirituale dell’umanità, e come, in tal senso, la carità, per l’eccezionale e decisiva funzione esistenziale e concreativa che assolve, non può che avere un’origine divina.

Essere umanamente capaci di carità e, beninteso, di carità genuinamente evangelica, significa partecipare della natura più intima della divinità, perché è vero che, come recita il vangelo dell’apostolo Giovanni, «Dio è amore», anche se non nel senso mellifluo o sdolcinato inteso dai nichilisti del tempo presente, ma nel senso di un amore ben disciplinato, normato da regole tanto rigorose quanto sapienti e previdenti, nel senso di una infinita e incondizionata affettività viscerale pur sempre radicata in un altrettanto potente e profondo Logos, in una razionalità non debole, non fragile, ma forte e, sebbene in gran parte imperscrutabile, integralmente chiusa a cedimenti emotivi, sentimentalistici, di qualunque genere. Anche per questo, san Paolo dice che delle tre virtù teologali, la fede, la speranza, la carità, proprio quest’ultima è la più importante. Si può ben dire che nel Regno di Dio si viva essenzialmente di carità, di amore generoso e disinteressato, di dedizione appassionata alla causa della verità e della giustizia, di gioiosa compartecipazione alle attività spirituali di tutti i beati, di comunione nella sincera e fraterna condivisione dei beni celesti e nell’indissolubile ed eterno vincolo d’amore filiale con Dio.

I cristiani hanno il compito di preparare sulla terra questo grandioso scenario celeste anche se lo stesso realismo evangelico non consente di pensare che sia mai possibile realizzare una sorta di istituzionalizzazione storico-esistenziale, spontanea, pacifica, della carità, perché ciò che si istituzionalizza, anche se con le migliori intenzioni, prima o poi si burocratizza e smarrisce la naturalezza, la vitalità, la funzione propulsiva delle origini che non ammette cristallizzazioni di sorta (Ed era comunque eticamente e religiosamente apprezzabile la puntualizzazione del teologo morale colombiano Enrique Colom: «Tale amore sociale richiede, oltre all’impegno personale, la sua istituzionalizzazione in ordinamenti e strutture che, sebbene necessarie, non possono comunque sostituire l’amore vicendevole tra le persone» (Relazione tenuta il 15 novembre 2006 su “Il profilo specifico dell’attività caritativa della Chiesa secondo la ‘Deus Caritas Est’” organizzata dalla Pontificia Università della Santa Croce). Questo pensava un sociologo-teologo cattolico molto atipico come Ivan Illich, che definiva l’«istituzionalizzazione della carità» come «pervertimento del cristianesimo» (I. Illich, Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo chiesa e modernità, Macerata, Quodlibet 2008), una posizione che Vito Mancuso avrebbe commentato così: «E’ questo il nodo che stringe da sempre l’esperienza umana: da un lato la coscienza pura, l’anima bella, che non si vuole legare a nulla e che non istituzionalizza nulla in modo da poter rimanere pura; dall’altro, l’esigenza di affrontare la durezza della storia, sapendo che non si può incidere in alcun modo nella storia se non creando istituzioni, ma esponendo in tal modo l’anima alla durezza del negativo, del quotidiano, del compromesso. Vanno a mio avviso salvaguardate entrambe le cose. Un grande uomo si definisce per la capacità di essere anche qui e ancora una volta in continua dialettica tra queste due dimensioni: senza vendere l’anima alla struttura e all’istituzione, ma rimanendo legato a questa e tenendo vivo il fuoco della carità. Noi siamo molto più affascinati dal primo modello, quello dell’anima pura, soprattutto oggi; però penso che sia una versione delle cose unilaterale (la cui tensione di fondo, però, va messa in salvo). Bisogna essere in grado di navigare tra questi due Scilla e Cariddi; del resto tutta la vita è un continuo cercare di individuare le contraddizioni per poterle superare» (V. Mancuso, Teologia laica. Una proposta di inizio millennio, Intervista di Paolo Calabrò, Roma, Edizioni di Rivista www.filosofia.it, 2010, p. 12).

Posizione, questa, saggia ed equilibrata, da integrare forse con una ulteriore e specifica considerazione: quella per cui, se la Chiesa in quanto creazione storica è certamente un’istituzione, sebbene di origine e ispirazione divine, tra istituzioni, i valori evangelici, gli insegnamenti sovrannaturali, i fini escatologici e soteriologici, su cui essa si fonda e che essa ha il mandato di testimoniare e veicolare nella coscienza di ogni essere umano, non possono essere istituzionalizzati, formalizzati, definiti e chiusi definitivamente nel recinto delle categorie teologiche ed ecclesiologiche se non in senso doverosamente regolativo, in quanto il sacro fuoco dello spirito divino da cui sono abitati è costitutivamente e provvidenzialmente preposto ad impedire il duplice pericolo di una istituzionalizzazione permanente di determinate forme storiche date di ecclesialità che comporterebbe, nella migliore delle ipotesi, la paralisi del vitale e santificante processo di continua rigenerazione spirituale di cui vive nella storia la Chiesa di Cristo, e di una vocazione profetica deistituzionalizzante incontrollata e non governata da uno spirito caritatevole di verità. Per questa ragione, anche la carità, pur soggetta a tentativi storico-umani di istituzionalizzazione, destinati a produrre forse effetti benefici per un ben delimitato arco di tempo e magari in forme non programmate, non potrà mai venire compressa e normata da logiche istituzionali di qualsivoglia natura.

Istituzionalizzare la carità significherebbe per esempio  costruire, anche ma non esclusivamente nel nome e per conto della Chiesa, scuole, ospedali, case, mense pubbliche, posti ricreativi e spazi sportivi. Ma questo comporterebbe in cambio forme consistenti di finanziamento da versare a favore di qualcuno, un periodico voto elettorale da garantire a qualcuno e per qualcosa, un certo numero di lavoretti non propriamente legali e moralmente leciti, e via dicendo. Alla fine, quelle grandiose opere istituzionali di carità quali risultati avranno prodotto? Il vero prezzo della carità è il sacrificio personale, il dover cedere qualcosa di proprio a favore di altri senza un ritorno e senza vantaggi di alcun genere, probabilmente senza neppure una parola di gratitudine. Quando si dà qualcosa a chi ne ha bisogno non si fa propriamente un’opera di carità, ma, in rapporto alla legislazione divina riconosciuta e venerata, in un certo senso si paga un debito, dal momento che i beni creati da Dio dovrebbero bastare per tutti, mentre, per effetto del peccato d’origine, accade poi che a disporne in misura adeguata siano solo alcuni e non altri (Scriveva san Gregorio Magno, Regula pastoralis, 3, 21: «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia»). Ma una carità così intesa, salvo casi rarissimi, non potrà mai essere istituzionalizzata. Le opere pubbliche devono essere realizzate per solidarietà, che però è un concetto diverso da quello di carità, mentre gli aiuti umanitari a tutto servono tranne che a sanare le piaghe per le quali vengono elargiti (La critica dell’economista africana Dambisa Moyo, La carità che uccide. Come gli aiuti dell’occidente stanno devastando il terzo mondo, Milano, Rizzoli, 2011, è esemplarmente significativa).   

In effetti, con o senza prospettive di istituzionalizzazione, c’è sempre il pericolo che nel nome e per conto della carità si perseguano scopi che non siano né caritatevoli, né umanitari: è un pericolo connesso al caso molto frequente di fare usi ideologici della carità. Se il pianeta-terra, nonostante i cospicui finanziamenti pubblici e le innumerevoli donazioni private finalizzati a combattere la miseria e le malattie di tante parti sottosviluppate del mondo, tende ad evolvere verso condizioni stazionarie o sempre più gravi di povertà materiale e di precarietà esistenziale, evidentemente non può apparire del tutto peregrino il sospetto che persino il valore più prezioso del messaggio evangelico venga utilizzato per fini tutt’altro che prossimi allo spirito di servizio.

Talvolta, probabilmente in buona fede, sono gli stessi credenti in Cristo a commettere errori deplorevoli: quando, per esempio, nel nome dell’amore evangelico, ci si avventura ad esigere o a pretendere che questo o quello Stato aprano indiscriminatamente i loro confini a tutti i migranti del mondo, quasi fossero indistintamente pervasi da spirito angelico, non si è evidentemente consapevoli di quel che si dice o, peggio, del fatto che si stia facendo un uso ideologico del vangelo e dei suoi valori spirituali, in quanto l’esortazione biblico-evangelica ad accogliere lo straniero è, biblicamente, correlata al rispetto altrettanto vincolante delle leggi e delle regole di convivenza in vigore presso il popolo ospitante e, soprattutto, non è rivolta tanto agli Stati quanto ai privati e a comunità locali in essi residenti, così come evidentemente non è formulata in relazione alla previsione di eventuali esodi di massa. 

Certe prese di posizione dovrebbero sempre scaturire da un sapere culturalmente qualificato e da alto senso di responsabilità, più che da estemporanei e demagogici atti umanitari di compartecipazione alla sventurata sorte di epocali orde migratorie. L’inclusione sociale di chicchessia è sempre evangelicamente doverosa ma lo è nei limiti in cui essa resti compatibile con l’oggettiva possibilità di assicurare sicurezza e adeguata protezione alla comunità ospitante o includente, anch’essa prossimo di cui ci si debba adeguatamente prender cura adeguatamente in un’ottica evangelica di carità umana e sociale. Quando Gesù invita i suoi discepoli a farsi carico personalmente, con la preghiera, con amore e impegno, del compito di accogliere e sfamare una ingente quantità di persone andate ad ascoltare il maestro, è appunto ai suoi seguaci che si rivolge, non a Cesare, non allo Stato, e non perché lo Stato non possa o non debba sovrintendere, in determinate situazioni ed entro certi limiti, a particolari situazioni emergenziali, ma perché lo Stato ha la specifica funzione etica, giuridica, politica, di badare innanzitutto e soprattutto alle necessità dei suoi sudditi e dei suoi cittadini, che hanno sempre la precedenza rispetto a quelle di gruppi umani ad esso esterni.

Ora, se la carità evangelica viene letta in modo approssimativo, dimenticando il delicato ma articolato rapporto che Gesù istituisce tra Cesare e Dio, e se ne vengono cosí facendo usi apparentemente leciti ma in realtà impropri e preconcetti, si finisce per non capirne la ratio, il senso, la specifica valenza spirituale. Come si può pensare che, nel nome della carità, Gesù potesse comandare ai suoi seguaci di accogliere un esercito di migranti senza minimamente preoccuparsi non del semplice disagio ma delle condizioni di disordine e di pericolo che in tal modo si sarebbero potute creare per le popolazioni indigene? Si può ragionevolmente supporre che Gesù, pur cosí esigente e intransigente su questioni di vitale importanza spirituale e religiosa, ignorasse come la coesione sociale possa essere messa a rischio da scelte o decisioni azzardate o irrazionali? Oggi c’è, tra i ministri del culto cattolico, chi saggiamente appare consapevole che l’inclusione sociale richiede “cultura” e “competenza”, senza le quali la stessa “coesione sociale” non può che essere minata (A. Braccini, «La carità non può essere separata dalla cultura», Chiesa di Milano, 24 novembre 2014). Ma poi il filosofo Cacciari che, avendo il culto della provocazione filosofica, talvolta non si preoccupa di generalizzare troppo, né di articolare con prudenza il suo argomentare, non esita ad affermare: «Chi non accoglie, non ha cura dell’altro, sarà sopraffatto da chi non ha nulla da perdere e affronta la vita senza temere la morte» (Ivi), mentre, se da un lato potrebbe essere sopraffatto anche chi accoglie, dall’altro c’è anche chi non accoglie non perché non voglia ma solo perché non possa accogliere, oppure perché, se accogliesse in modo aprioristico e indiscriminato, finirebbe per non aver cura di quegli altri, che già vivono con lui o accanto a lui e che valgono umanamente non meno di tanti innocenti migranti, e per favorire alla lunga rapporti sempre più conflittuali tra l’altro che viene da altri continenti e da altre tradizioni culturali e religiose e gli altri che non hanno di che vivere pur essendo membri di una società relativamente opulenta e progredita.

Spesso non ci si accorge di come possa essere dannosa per la causa dei poveri e dei diseredati una certa retorica filosofica o religiosa dell’accoglienza e dell’inclusione, che ha l’unica funzione di tacitare i reali sensi di colpa di individui privilegiati e avvezzi a fare opera di carità solo caricando di pesantissime responsabilità masse di persone generalmente afflitte da innumerevoli preoccupazioni quotidiane. Ma la carità non è astuta, non è furba, non è ingannevole, la carità non semplifica, non è riduttiva né unilaterale, non mistifica e non sobilla, perché la carità è mite, è onesta, è giusta la carità che si propone di far bene a tutti senza danneggiare nessuno. Se amare in modo caritatevole significa sforzarsi di amare come ama Dio, allora bisognerebbe capire che l’amore caritatevole non solo è più impegnativo di quanto potrebbe apparire ma che il suo significato e le sue implicazioni sono molto più difficili da comprendere di quanto non appaia dai correnti usi verbali e pratico-fattuali che generalmente se ne fanno.

Dio è amore, è carità infinita, perché egli non ci ha amato semplicemente quando già eravamo e non ci ama perché siamo, ma ci ha amato anche quando ancora non c’eravamo e ci ama anche quando non siamo ancora venuti al mondo: ci ha amato, cioè, affinché noi non fossimo più nulla, ma fossimo qualcosa d’importante, fossimo comunque esseri viventi, pensanti, senzienti, capaci di capire, innanzitutto, di essere frutto del suo amore, di dovere il nostro essere al suo inaudito e sconfinato amore. Già per questo motivo, la persona umana ha un obbligo di riconoscenza verso Dio e deve essere necessariamente caritatevole verso di lui nel modo più disinteressato e appassionato possibile. Ma poi l’uomo è un essere talmente libero da pensare di poterlo essere persino nei confronti del suo creatore: dunque, il peccato e la conseguenza di un suo radicale indebolimento fino alla morte di essere creato perfetto da Dio.

Dio è carità infinita, perché ancora una volta non si rassegna al non essere dell’uomo, vuole che ritorni ad essere, vuole ripristinare il suo essere indicandogli, per mezzo della missione sacrificale e salvifica del Figlio unigenito, del suo prossimo più intimo e più caro, la via del ritorno alla casa celeste del Padre, della riconquista di una immortalità che può essere perduta solo un volontario distacco dalla fonte stessa della vita eterna. Il Figlio unigenito, il Cristo di Dio, ha testimoniato con la sua vita e la sua morte di crocifisso fino a che punto può giungere l’amore di Dio, ma anche che la via maestra per corrispondere all’amore divino è la rinuncia a gioire e a soffrire solo per se stessi e, quindi, la disponibilità interiore a gioire e a soffrire principalmente per gli altri, per chiunque venga ponendosi, rispetto al nostro io personale, come prossimo bisognoso di carità e amorevole aiuto. Solo in questo modo, l’amore verso l’altro più prossimo (amore che non sarà mai filantropia in quanto l’altro non esiste come costruzione ideale nella mente del cristiano, ma come un concreto, sensibile e determinato tu, silenziosamente o rumorosamente bisognoso del mio sguardo e del mio sostegno) e l’amore verso l’altro più radicale, possono ritrovarsi ricongiunti ed eternamente benedetti nell’amore di Dio. La carità divina è infinita anche in quanto pura e incondizionata offerta, la carità umana è finita e imperfetta ma ugualmente partecipe di quella divina, rispetto alla quale è libera ma anche obbligata, e in virtù della quale chi ne sarà stato capace potrà sperare di conservare la propria vita, oltre la morte, per l’eternità.

Una particolare attenzione molti filosofi moderni e contemporanei hanno riservato alla carità in quanto compassione, che di tutti i modi di estrinsecarsi, di tutte le valenze spirituali della carità, il sentimento caritatevole più istintivo, più immediato, più spontaneo e meno mediato da particolari considerazioni o riflessioni di ordine filosofico e/o biblico-religioso. Da Tommaso d’Aquino a Leibniz o a Schopenhauer, da Heidegger a Weil, ad altri pensatori angloamericani, proprio la compassione, sia pure in contesti teorici diversi, figura come oggetto di rilevante tematizzazione etico-filosofica e come momento di più lampante e intuitiva individuazione della comune identità empatico-compartecipativa del genere umano. In particolare in Simone Weil, la compassione per l’altro, per la mancanza e la sofferenza altrui, tende anche a riflettere la compassione per se stessi e per mancanze o sofferenze di cui già si è stati vittime o di cui si potrebbe restare vittime: «Quando si ha freddo e fame per necessità, si ha sempre un poco di pietà per se stessi, per quanto si sia spiritualmente elevati. La compassione per chi ha freddo e fame, implica la capacità di concepire e immaginare se stessi in qualunque circostanza sociale e materiale, e di conseguenza la spoliazione dalle circostanze in cui ci si trova. È la nudità; quanto meno una nudità parziale» (S. Weil, Quaderni, Milano, Adelphi, 1985, 4 voll., vol. II, p. 225).   

Per Weil, il compatire l’altro muove dalla consapevolezza della possibilità di sperimentare nel proprio vissuto personale la sofferenza in senso lato, e quindi in senso fisico ma anche psichico e spirituale. Percepire interiormente questa fragilità soggettiva è ciò che consente di comprendere la fragilità, la debolezza e il dolore dell’altro. La vera compassione, perciò, muove dall’umiltà, dall’umile capacità di riconoscere che noi condividiamo la miseria da cui anche gli altri sono attanagliati (Ivi, p. 229). E, infatti, in generale non può essere capace di amore se non chi è umile conoscitore dei propri limiti umani. Ma, nella civiltà individualistica, utilitaristica ed edonista del nostro tempo, persino il culto istintivo della compassione umanitaria, per quanto radicato nella stessa struttura genetica degli individui,non sembra assolutamente essere in auge e ancor meno sembra essere sul punto di emergere come possibile punto di forza dell’umanità contemporanea, al di là di una ipocrita, rituale e diffusa prassi di sensibilità umanitaria. I criteri oggi dominanti sono oggi velocità, rapidità di esecuzione, praticità, produttività, per cui inevitabilmente la compassione viene vissuta quasi come uno spreco di tempo o come un lusso che sarebbe opportuno estromettere persino dai processi formativi personali (L. Basset, Aprirsi alla compassione, Verona, EMP, 2012, p. 5).

Ma anche questo, probabilmente, può essere letto come uno degli esiti della radicalizzazione di quel processo storico-culturale di indebolimento della ragione che ha finito per generare, con la morte di ogni ontologia metafisica e di Dio stesso, anche la riduzione della natura imperativa e sovrannaturale dei sentimenti morali ad un semplice, immanente indicatore di stabilità psichica individuale oppure di occasionale o momentaneo disagio etico-esistenziale. Dopo aver rimosso Dio, la coscienza contemporanea non poteva non scivolare anche verso la rimozione della morte, del lutto e del dolore. C’è tuttavia qualcosa che non potrà mai più rimuovere: l’angoscia di una insuperabile e incomprensibile solitudine. Tuttavia, anche se il sogno di una globalizzazione della carità potrà realizzarsi solo in un tempo metastorico, forse vale ancora la pena, anche in relazione a quest’ultima, drammatica annotazione, di continuare a coltivarlo, per evitare che l’umanità debba un giorno rimproverarsi di aver rimosso dalla sua storia pur tormentata la risorsa più preziosa e mai anacronistica, insieme alla carità: la speranza (M. Gnavi, Carità. Parola antica per fare nuovo il tempo, Milano, Leonardo International, 2010). Che è come dire che forse si può ancora scommettere sull’“impossibile” che, in virtù del germe non curato ma indistruttibile della carità cristiana, diventi per sempre “possibile” (A. Fabris, La fede scomparsa. Cristianesimo e problema del credere, Brescia, Morcelliana, 2023).

Francesco di Maria

 

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