Ognuno è quel che è. Postilla etico-esistenziale

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Ognuno è quello che è, indipendentemente da quello che la società, spesso in modo casuale e irresponsabile, decide che debba essere. Può avere la qualifica di luminare o di incompetente, di persona virtuosa o di persona inaffidabile, di individuo lucido e lungimirante o di individuo confuso e gretto, e via dicendo. Ma ognuno è quello che è per quel che realmente pensa, dice e produce, nella sua ordinaria quotidianità di vita, in rapporto ad una gerarchia di valori e di competenze non sempre necessariamente coincidenti con criteri già acquisiti e consolidati di giudizio e di merito. Può raggiungere i gradi più alti della scala sociale, professionale, istituzionale, politica o militare, può diventare vescovo o papa, e probabilmente, con i loro atti e le loro opere alcuni confermeranno di meritare i titoli e i meriti loro riconosciuti, mentre altri ne resteranno ben al di sotto o dimostreranno di esserne notevolmente al di sopra. Il valore formale o nominale di ogni persona non sempre coincide con il suo valore reale —può infatti non coincidere talora per eccesso, talora per difetto — e, a dispetto di una pubblica opinione mossa quasi sempre da fattori psicologici ed emozionali, i fatti depongono nella loro intrinseca pur se non di rado  sfuggente oggettività a favore o a sfavore delle capacità dei singoli individui, sui piani più diversi della loro vita intellettuale e pratica.   Continua a leggere

La Chiesa conta più di un papa e dei suoi cortigiani

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Il presbitero argentino Víctor Manuel Fernández, già incaricato dal papa di assolvere la funzione di Prefetto del Dicastero per la dottrina della fede e predestinato a ricevere presto la porpora cardinalizia, ha appena rilasciato un’intervista inquietante al famigerato Antonio Spadaro ancora direttore di “La Civiltà Cattolica” (Vita e dottrina nella fede, Un dialogo con mons. Víctor Manuel Fernàndez, in “La Civiltà Cattolica”, settembre 2023, pp. 498-516) Cosa dice in questa intervista? Dice che la Chiesa rifiuta il fideismo, anche se il prelato non spiega il significato tutt’altro che scontato di fideismo, difende il valore della ragione e la necessità del dialogo tra ragione e fede. Subito dopo, però, polemizza contro quei cardinali, ecclesiastici o semplici fedeli, che al centro della Chiesa vorrebbero mettere «una certa ragione», fino ad arrogarsi il diritto di stabilire cosa il papa possa o non possa dire, come se non fosse non solo diritto ma soprattutto dovere di ogni battezzato in Cristo esprimere eventualmente il proprio dissenso persino sulle affermazioni del papa, nel caso specifico di un papa che a un numero ormai elevato di cattolici appare sempre meno affidabile. Il cardinale precisa, quindi, che a muovere criticamente questi credenti, in realtà persone «che vorrebbero indottrinare il vangelo» trasformandolo «in pietre morte da scagliare contro gli altri» non sarebbe la ragione ma il potere, come se lui, delfino e connazionale del papa regnante, non cercasse a sua volta potere nell’indecente sistema di potere creato da Bergoglio. Continua a leggere

Blaise Pascal: tra cuore e ragione

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      Blaise Pascal

A chi non è capitato, in modo più o meno istintivo, più o meno colto o raffinato, di interrogarsi sulla propria presenza nel mondo e in questo mondo piuttosto che in altri possibili mondi, sulle ragioni del proprio esserci e del proprio vivere, sulla propria identità più intima, sugli scopi di un’esistenza breve, fuggevole, ineluttabilmente destinata alla morte? Pascal espresse in forma sapiente ed elegante questo interrogativo:

                                                             “Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cosa è il mondo, né chi sono io; io mi trovo in una ignoranza terribile di tutte le cose; io non so che cos’è il mio corpo, che cosa sono i miei sensi, che cosa la mia anima e questa parte stessa dell’io che pensa ciò che io dico, che riflette su tutto e su se stesso, e che non si conosce, non più di quanto non conosca tutto il resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi chiudono, e mi trovo attaccato ad un angolo di questa vasta estensione, senza che io sappia perché io sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché quel poco tempo che mi è dato di vivere mi è assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Io non vedo che infinità in tutte le parti che mi racchiudono, come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto quello che so è che devo presto morire, ma ciò che ignoro maggiormente è questa morte stessa che io non saprei evitare”1. Continua a leggere

Freud, la civiltà, la contestazione cattolica

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Nell’individuo esiste una pulsione aggressiva indipendente dai condizionamenti ambientali, sociali e culturali, e tale pulsione si manifesta sul piano psicologico, sessuale, socio-relazionale, come tendenza istintiva dell’io ad affermarsi. Ma nell’individuo esiste anche una pulsione inibitoria dipendente in vario grado dalla coscienza morale, che tende a frenare o a controllare gli impulsi inconsci dell’io, le sue forze istintuali più spontanee e talune sue scomposte o irrazionali reazioni caratteriali. La vita psichica dell’individuo oscilla sostanzialmente tra queste due polarità, o meglio consiste in un equilibrio instabile, precario, conflittuale, tra una pulsione aggressiva originaria e indipendente e una pulsione inibitoria o repressiva relativamente acquisita o dipendente. La lotta fra queste forze contrapposte produce come esito caratteristico della vita personale degli esseri umani la nevrosi. Non so se e in che misura mi sia allontanato dagli studi freudiani, ma, in qualunque modo li abbia qui pur schematicamente utilizzati, mi pare che in questi termini si possa tracciare un profilo psicoanalitico generale sufficientemente corretto dell’individuo contemporaneo. Continua a leggere

Il papa e la Grande Madre Russia

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I padri della grande Madre Russia, sotto l’egida politica di Mosca, sono zar come Ivan il Terribile, Pietro il Grande, Caterina II, tutte figure politiche in parte illuminate, in parte crudeli e sanguinarie non solo verso i popoli vinti e assoggettati ma anche verso i ceti sociali inferiori a quello autocratico russo e a quello aristocratico e militare, e soprattutto animate da una reiterata e incontrollata volontà di potenza che li avrebbe portati ad unificare con la forza tutti i popoli scaturiti dalla decomposizione dell’impero mongolo, sotto il cui giogo sia Mosca che altri grandi principati russi erano rimasti tra il XIII e il XV secolo e di cui avrebbero ereditato il senso politico e burocratico dello Stato, e successivamente dell’impero bizantino da cui la cultura russa avrebbe ereditato la spiritualità e il credo cristiano. Quindi, la grande maternità della Russia si riferisce al fatto che da essa sarebbe nato, di fatto, un grande e potente impero costituito da tutti i popoli e le unità etniche volta per volta conquistati con guerre devastanti e tuttavia mai volontariamente disposti a rinunciare alle proprie identità nazionali. Anzi, molti di questi popoli sottomessi avrebbero a loro volta avvertito la stessa spinta espansionistica dei russi cui si sarebbero sempre opposti con grande fierezza, tanto da dar luogo ad un analogo mito fondante con relative denominazioni di Grande Ucraina, Grande Polonia, Grande Cecenia, Grande Ossezia e via dicendo.   Continua a leggere

Machiavelli, un’etica pubblica e la buona politica

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Che la politica sia autonoma dall’etica, secondo l’intramontabile lezione di Niccolò Machiavelli, significa che i suoi princìpi teorici, tattici e strategici, le sue dinamiche comportamentali e istituzionali, le sue pratiche propositive, contestative o governative, non possono essere giudicati sulla base di criteri etici e morali cui sono soggetti invece tutti gli altri pensieri e azioni degli uomini. Con e dopo Machiavelli gli uomini politici avrebbero appreso che la politica si colloca al di là del bene e del male e non deve render conto a nessuno delle sue pratiche se non nei limiti in cui lo richiedano le circostanze e la stessa ragion di Stato, il cui nucleo fondativo è costituito dal principio tuttavia etico del bene comune1. Come ricorda il filosofo Maurizio Viroli, l’idea della separazione o indipendenza tra politica ed etica corrisponde all’interpretazione che davano due importanti storici italiani di orientamento laico come Benedetto Croce, che si può considerare uno storico-teorico, e Federico Chabod, che va incluso tra i maggiori studiosi di storia moderna e contemporanea del ‘900.

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Sul pensiero morale e politico di Cesare Luporini

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Cesare Luporini ebbe molto a cuore e sottolineò ripetutamente il ruolo della soggettività umana nella vita e nella storia degli uomini. Prima come esistenzialista, poi come marxista, egli non avrebbe mai parlato della soggettività umana solo come di una astratta e sia pure essenziale categoria filosofica, ma come elemento costitutivo della natura umana e delle strutture oggettive della realtà storico-sociale. Ne avrebbe sempre fatto uso, altresì, in relazione a specifiche e concrete forme storiche di soggettività: quella del movimento femminile e femminista, dei movimenti giovanili, ambientalisti, antimilitaristi e pacifisti, oltre quella dello stesso partito comunista alla quale le altre forme di soggettività non sarebbero mai risultate riducibili.  La classe operaia non era più l’unico soggetto della storia, in quanto ad essa si aggiungevano ora nuovi soggetti dell’antagonismo teorico-culturale e della lotta sociale e politica, e ognuno di essi si presentava con un suo specifico modo di pensare, sentire, agire, essere, in rapporto a concrete, determinate, cogenti situazioni dell’esistenza. Continua a leggere

Il vezzo accademico della complessità

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Si tratta in vero di un vezzo umano, che si manifesta tuttavia in forma tipica particolarmente nell’atteggiamento mentale e nel gergo dell’accademico. Se voi parlate con un logico professionista, con uno di quei logici accademici che leggono montagne di libri, di saggi, articoli specialistici, atti convegnistici e seminariali, non tanto per capire quel che dicono e pensano altri studiosi della loro stessa disciplina quanto per non restare quantitativamente arretrati rispetto alle conoscenze e alla novità del settore, vi sentite spiegare virtualmente, perché molto di quel che dicono non sempre risulta poi così chiaro e incontrovertibile come essi pensano, che, quando la gente comune o mediamente istruita viene proponendo ragionamenti in qualsiasi campo dello scibile umano, in realtà il valore logico del suo argomentare è molto scarso e inefficace rispetto alle più sofisticate ed evolute acquisizioni teorico-linguistiche della logica. Continua a leggere

Husserl: una lezione per l’oggi*

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Husserl sapeva che la scienza fosse strumento teorico e pratico di avanzamento civile e culturale per il genere umano e non ne avrebbe mai messo in discussione l’insostituibile funzione rischiaratrice ed emancipativa. Ne avrebbe denunciato, però, le ricorrenti crisi, in particolare quella del Novecento, letta come espressione della radicale crisi di vita dell’umanità europea. La scienza nasce dalla vita, dal mondo-della-vita, da un mondo di esperienze intuitive e precategoriali, che essa, nello sforzo astraente di tradurle in oggetti di formalizzazione logica, tende a dimenticare e a rimuovere dal contesto etico-esistenziale da cui muove e in cui trova le sue stesse finalità il lavoro scientifico. Tale contesto è quello della soggettività e, al tempo stesso, della intersoggettività, e la scienza viene assumendo di conseguenza un duplice movimento: quello della curiosità, dell’esperienza e dell’interrogazione soggettive di singoli individui, e quello della partecipazione collettiva di gruppi umani sempre meglio organizzati ad una elaborazione teorico-sperimentale quanto più possibile precisa e attendibile dei dati, delle intuizioni, degli studi, delle semplici congetture di volta in volta emergenti da ricerche embrionali o non ancora formalizzate suscettibili di convertirsi in proposizioni, teorie, ipotesi, di acclarato e specifico valore scientifico. Continua a leggere

Michela Murgia, una forma molto dubbia di cattolicesimo

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Solo ora che è morta, apprendo che Michela Murgia sarebbe stata una credente di fede cattolica. Non è una battuta sarcastica, che sarebbe di pessimo gusto, ma la pura e semplice verità. Non ho mai sospettato che Murgia potesse sentirsi cattolica, e dico sentirsi perché, lo dico con molto rispetto, cattolica oggettivamente non è stata, né sul piano dottrinale, né su quello teologico, né su quello etico e culturale, mentre ho sempre sospettato che, tra le principali cause del suo antiautoritarismo viscerale e della sua esibita trasgressività, si dovesse includere il pessimo rapporto che ella, come lei stessa riconosce, avrebbe avuto con la figura paterna1 (Intervista di S. Marchetti, Addio a Michela Murgia, l’ultima intervista: “il tempo migliore della mia vita”, in “Vanity Fair” del 10 agosto 2023). Il giudizio ultimo, come al solito, spetta al Signore, e spero di cuore che sia antitetico al mio, ma, per quel che mi è consentito di capire e testimoniare in qualità di battezzato in Cristo, non mi pare sussistano elementi che autorizzino a considerarne il pensiero e la vita come fedelmente conformi alla dottrina e ai valori del cattolicesimo.

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