Per uscire cristianamente dall’euro

euro-italiaAl dualismo economico tra nord e sud del mondo e a quello tra nord e sud d’Italia sembra essersi stabilmente aggiunto oggi il dualismo economico tra nord e sud d’Europa ovvero tra i paesi centrali e i paesi periferici dell’Unione Europea, per cui, secondo alcuni analisti, nel corso del prossimo decennio questi ultimi «potrebbero essere ridotti al rango di fornitori di manodopera a buon mercato o, al più, di meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà sempre più spesso a situarsi al centro del continente» (E. Brancaccio, Uscire dall’euro: c’è modo e modo, “Alternative per il socialismo”, n. 27, luglio-agosto 2013). Non c’è infatti dubbio che il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione salariale, a colpi di continua riduzione dei redditi individuali, degli stipendi, dei salari e delle pensioni, messo in atto nei paesi periferici dell’Unione, sembra essere destinato al fallimento, per cui appare probabile che prima o poi, contrariamente alle previsioni o agli auspici di tanti europeisti convinti, l’eurozona possa deflagrare e i paesi che ne fanno parte debbano prepararsi a sganciarsi dalla moneta unica per tornare alle monete nazionali.

Sarebbe perciò il caso che anche l’Italia, anziché attardarsi in una difesa ad oltranza della sua prospettiva e della sua politica europeiste, cominciasse ad elaborare una sua precisa “strategia d’uscita” dall’euro, per non trovarsi impreparata, nel caso in cui l’eventualità qui ipotizzata dovesse materializzarsi in un breve volgere di tempo, ad adottare soluzioni capaci di favorire il ritorno quanto più incruento possibile alla lira e quindi quanto meno possibile dannoso sui diversi gruppi sociali. Non c’è, in effetti, solo un modo di gestire un’eventuale uscita dalla moneta europea: anche nel caso in cui non la si potesse scongiurare si darebbero modi “di destra” e modi di “sinistra” per governare il relativo processo di transizione, benché tale processo al momento, è sempre opportuno precisare, non sia affatto scontato sia per la forte contrapposizione tra i diversi interessi finanziari nazionali sia perché a nessuno è veramente chiaro se un passaggio del genere potrebbe essere più conveniente rispetto alla situazione attuale e a quali paesi in particolare potrebbe convenire di più.

E’ tuttavia certo che, se le cose dovessero continuare a peggiorare (e non è detto che, almeno in questo caso, al peggio non ci sia mai fine), «la scelta di uscire dall’euro e di svalutare diventerebbe l’ultima carta per tentare di rimettere in equilibrio le bilance verso l’estero dei paesi periferici» (ivi). In questo senso, purtroppo, in Italia non esiste una “sinistra” che abbia pensato e stia pensando al modo in cui eventualmente sia più opportuno gestire la transizione, anche perché, al contrario, essa continua a ripetere stancamente e fatalisticamente (chissà poi perché) che all’Europa monetaria non c’è alcuna alternativa.

Pur non sussistendo alcun dubbio circa il fatto che la permanenza della moneta unica e dello stesso mercato unico europeo dipende esclusivamente dalla partita in atto tra i diversi assetti proprietari del capitale europeo e che rispetto a tale partita il mondo del lavoro con le sue residue rappresentanze partitiche e sindacali è ormai ininfluente perché subalterno al capitalismo finanziario europeo come sinora non era mai successo, e pur essendo totalmente evidente che tale partita continua a svilupparsi in un vuoto assoluto di proposte concrete e di decisioni operative, come potrebbe essere quella di avviare programmi di investimento pubblico nelle aree maggiormente in crisi tra cui anche l’Italia, la sinistra italiana continua a non capire o fa finta di non capire che in questo modo l’Unione monetaria finirà ineluttabilmente per mostrarsi insostenibile e si attarda a discutere di debito pubblico e di PIL negli stessi termini dogmatici di sempre, come se fosse tabù discutere di questi argomenti in modi diversi da quelli stereotipati, astratti e vessatori in cui amano trattarne i centri finanziari e burocratici di potere della UE: un po’ perché certe vecchie categorie economico-finanziarie riflettono gli odierni rapporti di forza o di potere tra i diversi gruppi capitalistici europei, e un po’ per non rischiare di indebolire oltre il “politicamente corretto” gli interessi nazionalistici di alcuni forti paesi del centro-nord d’Europa.

E’ sconfortante, ma in uno scenario obiettivamente cosí fosco e cosí poco promettente o appetibile, le sinistre europee non hanno ancora neppure avviato una riflessione su come eventualmente uscire dall’euro e su come uscirne principalmente per tutelare «gli interessi del lavoro subordinato», in un momento storico in cui persino un intellettuale spento come Prodi, che è uno dei responsabili di questa disgraziata situazione europea, e sia pure mosso da ragioni opportunistiche, sembra avvedersi del fatto che non si sia ancora pensato in Europa di cambiare il Trattato di Maastricht solo perché lo status quo va bene alla Germania. In realtà, egli dice, «non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati per 20 anni. Il 3% di deficit/Pil ha senso in certi momenti, in altri sarebbe giusto lo zero, in altri il 4 o il 5%. Un accordo presuppone una politica che lo gestisca e la politica non si fa con le tabelline» (Prodi: bisogna cambiare i Trattati di Maastricht. I conti non si mettono a posto senza il Pil, in “Il Sole 24Ore” del 4 novembre 2013).

Come uscire dall’euro è dunque una questione di decisiva importanza, perché, nel caso di un’uscita forzata o pilotata, il vero dilemma non sarebbe quello tra un ipotetico sistema di cambio irrevocabile e un’ipotetica libera fluttuazione delle monete, quasi si potesse ridurre il complessivo discorso politico ad una scelta di regime valutario, essendo invece la questione, specialmente in relazione ai rapporti sociali di produzione, molto più complessa. Non è possibile eludere determinate domande e giungere impreparati al tanto temuto evento: sganciamento dall’euro e conseguente svalutazione monetaria potrebbero determinare una caduta cosí pesante del valore dei capitali nazionali (e anche questo sarebbe un tema tutto da chiarire perché al riguardo non esistono certezze o dati incontrovertibili) da imporre alle autorità governative la scelta tra il favorire l’importazione estera a basso costo e il contrastarla: da un punto di vista strettamente economico- commerciale la prima soluzione sarebbe forse (ma con molti interrogativi) la più vantaggiosa e potrebbe essere definita “di destra”, mentre da un punto di vista economico-sociale, e quindi per ciò che riguarda la produttività interna e quindi il tenore di vita delle classi lavoratrici, contrastare l’importazione e tornare ad esportare a prezzi competitivi potrebbe essere la più saggia e opportuna, anche se tale opzione comporterebbe non solo la rinuncia alla moneta unica ma anche, in antitesi alle posizioni degli stessi “liberoscambisti di sinistra”, al mercato unico europeo, il che ovviamente non sarebbe per nulla semplice da attuare.

In economia, come sta a dimostrare il complessivo fallimento delle previsioni economiche dell’ultimo lustro, non si può mai prevedere esattamente come vadano le cose: ci sono troppe variabili che, anche volendo, non potrebbero mai essere contemplate in modo preciso o adeguato.

Tuttavia, c’è un punto dell’analisi di Emiliano Brancaccio che anche i cattolici possono ritenere di poter sottoscrivere con relativa tranquillità. Questo punto è quello in cui egli afferma quanto segue:  «Cosí come è da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe inesorabilmente una svalutazione di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali, cosí pure risulta infondata la tesi di chi esclude l’eventualità di un impatto negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito. Un elemento certo tuttavia sussiste: l’uscita da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali – scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati, ecc. – in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività. Escludere tali meccanismi implica, in buona sostanza, un’uscita dall’euro “da destra”.Contemplarli significa predisporre un’uscita “da sinistra”» (ivi).

Non ci sono prove di nessun genere che con l’Europa unita economicamente e burocraticamente, con l’euro, con la BCE, con la troika, con l’ulteriore supporto dello stesso Fondo Monetario Internazionale, nelle loro forme attuali, i popoli europei nel loro insieme abbiano ricevuto o potranno ricevere dei veri benefici, mentre appare innegabile che il fronte europeo è oggi molto più diviso da interessi e programmi monetari e fiscali di quanto non fosse sino a prima della costituzione della stessa UE.

E, in ogni caso, questo è certamente vero già ora per nazioni come la Grecia, Cipro, il Portogallo, la Spagna, l’Italia o la stessa Francia, cioè per porzioni cosí consistenti d’Europa che voler continuare a parlare d’Europa e di questa Europa a tutti i costi come dell’unica possibile sarebbe come voler scommettere non sulla rinascita ma sull’ineluttabile e tragico declino della stessa Europa oltre che delle singole entità statuali nazionali.

Almeno i cattolici non possono consentirlo e non possono stare ancora ad ascoltare gli ottimistici ma irrealistici e propagandistici discorsi politici di strani cattolici come Enrico Letta che continua a ritenere di poter meglio difendere i poveri difendendo i ricchi e che non potrà esorcizzare il fallimento della sua esperienza governativa semplicemente definendo indistintamente “populisti” tutti coloro che avversano un’Europa costruita ad immagine e somiglianza di ricche e potenti plutocrazie internazionali.

Ma i cattolici, per contribuire a portare i loro paesi oltre l’Europa e l’euro dei mille inganni, non dovranno né cedere a tentazioni “complottistiche”, secondo le quali gli occulti “nemici” dei popoli debbano essere subito attaccati frontalmente e magari per mezzo di violente rivolte popolari o di atti politici inconsulti piuttosto che attraverso pacifiche ma risolute manifestazioni di dissenso e attraverso sagge ma avanzate politiche di mediazione con le autorità europee rispetto alle ciniche e fallimentari direttive sovranazionali che si vorrebbe continuare ad imporre, né fare promesse esorbitanti e strumentali come sono forse quelle che sta facendo in America in questo momento l’italo-americano Bill de Blasio.

Essi saranno credibili solo se, mentre si impegneranno a persuadere i partners europei e i massimi organismi decisionali della finanza internazionale circa la necessità di ridiscutere trattati economici e fiscali già stipulati e di ridefinire in un senso di maggiore ragionevolezza ed equità i termini e le cifre dei “debiti sovrani” (e maggiore ragionevolezza ed equità converrebbero anche alla potente locomotiva economica della Germania merkeliana che potrebbe avere a sua volta problemi molto seri il giorno in cui tutti i suoi mercati di sbocco nel sud d’Europa dovessero crollare verticalmente), saranno poi in grado di ottenere una di queste due cose: o rilanciare un’idea europeista a livelli finalmente apprezzabili dal punto di vista etico e politico con ricadute economiche altrettanto efficaci o almeno non deprimenti per tutti gli Stati membri, o l’abbandono della prospettiva europeista e la riconquista della sovranità monetaria nazionale al fine di poter più dignitosamente tutelare i legittimi interessi nazionali con una spinta, maggiore di quella resa possibile oggi dagli odierni e spesso incomprensibili “vincoli” europei, a valorizzare le proprie risorse naturali, i propri prodotti alimentari e commerciali, e persino la propria forza lavoro di massa (dipendenti, operai, ricercatori e tecnici, lavoratori in genere) con politiche non solo fiscalmente e tributariamente equilibrate e tollerabili ma anche retributivamente e distributivamente adeguate e al tempo stesso capaci di affrontare la concorrenza internazionale ad alti o più alti livelli di produttività.

Come ha ben rilevato Alberto Bagnai, l’euro si è ormai rivelato per molti paesi,  tra cui l’Italia, “insostenibile”. Il problema è dunque quello di uscirne per tempo, cioè prima che sia troppo tardi (vedi Grecia, vedi Cipro). Per il momento, dice Bagnai, «i fondamentali dell’economia italiana sono sostanzialmente buoni, il debito pubblico italiano non è a rischio e il popolo italiano è ancora risparmiatore, quindi ha tutto il vantaggio di tirarsi fuori da questa trappola prima che la propria ricchezza, gli immobili e i risparmi in banca vengano aggrediti dall’Europa per ricapitalizzare quelle banche del nord che hanno sbagliato» [Addio Euro. Come uscirne (senza danni) per non farsi rapinare dall’Europa, in “Economia e Finanza” del 28 marzo 2013]. E’ certamente questo uno dei punti più incontrovertibili dell’analisi di Bagnai. Mai come in questo caso sembra cosí vero il detto secondo cui “il tempo è denaro”, quel denaro di cui l’Italia non può ulteriormente privarsi per non sprofondare nelle acque paludose della miseria e del sottosviluppo. La tempestività dell’azione politica è e sarà una delle condizioni necessarie per un salvataggio non avventuroso ma almeno relativamente tranquillo della vita economica e sociale italiana.

Da questo punto di vista i cattolici, domani impegnati evangelicamente in politica, se ci saranno realmente dovranno essere ambiziosi: non per se stessi ma per la propria gente (e forse per l’intera umanità) e innanzitutto e soprattutto per soddisfare le necessità più impellenti dei ceti e dei soggetti più deboli. Consapevoli, come è ovvio, dell’estrema difficoltà del compito ma anche del fatto che, con Cristo nel cuore e nella mente, nulla è impossibile specialmente se gran parte di un popolo si predisponga di nuovo a credere in Lui e a perseguire il proprio bene in spirito di carità e di giustizia.

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