Silone e i falsi democratici

siloneIgnazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli, scrisse nel 1938, pensando in quel caso più al “fascismo rosso” del comunismo politico di matrice sovietica che non al “fascismo nero” di Mussolini e compagni, “la Scuola dei dittatori” (pubblicato in Italia con Mondadori nel 1962), un vero e proprio vademecum per aspiranti dittatori che cercano di ottenere per via democratica il più ampio consenso popolare possibile. Silone qui fa spiegare le ragioni e le modalità della conquista del potere al suo stesso alter ego, ovvero a Tommaso il Cinico (cinico non nel senso corrente di indifferente o amorale ma in quello etimologico di κύων e quindi di cane randagio in quanto esule ma anche di cane sciolto o cane abbandonato in quanto privo di sostegni politici o religiosi, come era in effetti lo stesso Silone nel suo duplice stato di “socialista senza partito” e di “cristiano senza chiesa”), che impersona la parte di un fuoruscito antifascista ed ex comunista italiano.

Ecco, Tommaso il Cinico spiega che tutti i politici che sono affetti da pulsione dittatoriale fanno pregiudizialmente e sistematicamente ricorso alla volontà popolare per giustificare la loro ricerca di potere. Se si pensa al mantra quasi quotidiano di questi anni sulla “maggioranza degli italiani”, sembrerà di poterne udire ancora oggi e per l’oggi le sferzanti parole. Gli aspiranti dittatori, argomenta il Cinico, sono mediocri sia intellettualmente sia moralmente, benché abbiano la mente infarcita di una falsa cultura basata più sulla categoria della verisimiglianza che su quella della verità ma utile a trasformare se stessi in idoli per le masse. Costoro sono essenzialmente soggetti ignoranti ma molto intuitivi, nel senso che  sono «opportunisti di genio», capaci cioè di stare dentro la storia  e di muoversi con istinto, istinto tanto più funzionale ad un’ascesa al potere quanto più in grado di correggere via via il tiro di precedenti analisi sbagliate e istinto che sfrutta e rivela debolezze intrinseche ai sistemi democratici.

Costoro sono in grado di capire che per puntare al successo si devono attenere ad una regola precisa:  «gettare il discredito sul sistema tradizionale dei partiti e sulla stessa politica, renderli responsabili di tutti i mali della patria e aizzare contro di essi l’odio delle masse…Discutere? Persuadere? Sarebbe una pazzia. Un aspirante dittatore non deve fare appello allo spirito critico degli uditori. Egli ne sarebbe la prima vittima. Un capo fascista deve saper trascinare infiammare esaltare i suoi uditori, ispirando disprezzo e odio verso i perdigiorno che discutono. ‘Le chiacchiere non riempiono lo stomaco’, ecco uno slogan efficace contro i politicanti tradizionali. Tutto quello che il capo fascista dirà, sarà enunciato nella forma dell’evidenza, in modo da non dare adito al minimo dubbio o discussione. Locuzione come ‘può darsi’, ‘forse’, ‘a me sembra’, ‘salvo errore’, saranno rigorosamente evitate. Ogni invito alla discussione sarà respinto. ‘Non si discute sulla salvezza della patria’, ‘non si discute coi traditori’, ‘i disoccupati aspettano lavoro e non parole’, ecco risposte che ogni seguace approverà».

Non sono impressionanti queste parole alla luce di certi fenomeni democratico-dittatoriali che oggi abbiamo sotto i nostri stessi occhi? Intendiamoci, questi capipopolo, questi tribuni del popolo molto più plebeo che colto o consapevole, sanno bene come blandire, come coinvolgere, come usare le masse per i loro fini di potere, e per questo non pronunceranno mai la parola dittatura né arringheranno la folla alla rivolta o alla rivoluzione contro i poteri costituiti dello Stato prima di essere ultrasicuri che lo Stato non abbia più la forza di opporsi o di resistere a moti eversivi o rivoluzionari.

Tuttavia, intimamente coltivano propositi o sogni di rovesciamento delle istituzioni democratiche, pur tenendoli accuratamente nascosti e camuffandoli propagandisticamente come sentimenti altamente e genuinamente democratici. Come ben osserva il Cinico: «Il dittatore moderno ha bisogno di qualificare il proprio regime come una forma superiore di democrazia, addirittura come la vera democrazia, la democrazia diretta, e a questo scopo farà promuovere quotidiane manifestazioni di folla e ogni tanto qualche plebiscito» (che oggi possono senz’altro leggersi come esaltazione acritica della “rete”, come logica meramente assemblearistica del meetup, come mentalità referendaria indiscriminata o puramente strumentale, e via dicendo).

La democrazia, d’altra parte, rileva il Cinico, tende a sovraccaricare lo Stato di «un numero sempre più grande di funzioni sociali» che viene implicando una moltiplicazione a dismisura di poteri «di una specie e in una quantità tali che la democrazia politica non può in alcun modo controllare» e allora accade che «la cosiddetta sovranità popolare si riduce in tal guisa ancora più a una finzione. […] La sovranità reale passa alla burocrazia, che per definizione è anonima e irresponsabile […]. Alla decadenza della funzione legislativa corrisponde fatalmente la caduta del livello morale degli eletti. I deputati non si curano che della propria rielezione».

Proliferando i poteri dello Stato democratico con relativa destinazione di fondi ai vari settori in cui essi vengono esercitandosi, «il bilancio dello Stato medesimo assume proporzioni mostruose indecifrabili per gli stessi specialisti. La sovranità reale passa alla burocrazia, che per definizione è anonima e irresponsabile, mentre i corpi legislativi fanno la figura di assemblee di chiacchieroni che si accapigliano su questioni secondarie», per cui «alla decadenza della funzione legislativa corrisponde fatalmente la caduta del livello morale medio degli eletti». Infatti,«per poter servire i gruppi di pressione che facilitano» la decadenza del potere legislativo, «essi stessi», cioè gli eletti, «hanno bisogno di benevolenza dell’amministrazione» ovvero degli apparati e dei poteri centrali dello Stato.

Va da sé che la forte egemonia statuale conseguita dalle élites di potere in seno alla società e sulla stessa società, costituisca «la premessa per ogni dittatura, anzi è essa stessa già dittatura». Queste élites tendono ad opacizzarsi sempre più rispetto ai bisogni reali della gente e a fare sostanzialmente tutto quello che vogliono, usando a proprio piacimento e in modo del tutto strumentale gli stessi meccanismi della vita democratica come le libere elezioni, il parlamento, il rispetto formale delle norme costituzionali, le libertà civili, in ciò enormemente aiutate dall’enorme diffusione dei cosiddetti massmedia, che concorrono enormemente ad «uniformare il modo di sentire degli individui e a distrarli da ogni pensiero autentico».

Proprio in situazioni di questo tipo, peraltro, vengono attecchendo movimenti impetuosi di protesta che non tanto alla loro base quanto ai loro vertici, sia pure nel nome delle idealità costituzionali e democratiche, il più delle volte vengono in realtà perseguendo obiettivi di violento e radicale rovesciamento dell’ordinamento democratico per sostituirlo al momento opportuno con un regime dispotico o dittatoriale. Anche questi movimenti formalmente non ideologici e solo alimentati in apparenza da una condizione generalizzata di malessere economico e sociale, tendono ad enfatizzare molto il concetto di maggioranza popolare e il diritto di quest’ultima ad esercitare una democrazia diretta, sino ad identificare il «governo della maggioranza del popolo», posto che di oggettiva maggioranza numerica si tratti e non di un consistente ma pur sempre limitato consenso elettorale manifestato a loro favore, con la «democrazia» tout court: equazione, questa, che Ignazio Silone contesta decisamente quando scrive che «il numero, senza la coscienza, è zavorra servibile a tutti gli usi».

Un governo democratico, al contrario, non è solo questione di natura numerica ma anche e soprattutto questione di natura culturale e morale: sulla scena politica italiana quante volte si sono alternati governi numericamente maggioritari ma privi di quella conoscenza e di quelle competenze, di quella determinazione a risolvere i problemi economici e sociali più urgenti dei cittadini e più segnatamente di quelli più disagiati, e di quella volontà etico-politica di tutelare i legittimi interessi del proprio popolo rispetto ad indebite o illecite ingerenze e prevaricazioni di gruppi finanziari nazionali e internazionali di potere? Sono le conoscenze, le competenze, le capacità intellettuali, non propagandisticamente sbandierate ai quattro venti ma oggettive ed incontrovertibili, insieme ad una coscienza morale capace di resistere a qualsiasi condizionamento di parte e di recepire le più profonde istanze del popolo e della nazione rappresentati senza mai indietreggiare rispetto alle molteplici pressioni di “poteri forti”, a dare vera sostanza alla democrazia e alle sue finalità generali di buon governo.

Negli ultimi vent’anni, in Italia, abbiamo avuto delle maggioranze numeriche che, salvo poche eccezioni individuali, proprio in virtù di un acritico numero maggioritario hanno finito per giustificare, con mille sotterfugi e motivazioni risibili, scelte politiche importanti ma compiute non nel rispetto bensí nella palese violazione di quella stessa volontà maggioritaria da esse paradossalmente invocata a sostegno delle proprie attività governative. «Siamo la maggioranza» è stato forse il leit-motiv più pressante, l’argomento buono per zittire il dissenso, arrivando spesso ad esiti paradossali appunto perché contrari alla stragrande maggioranza popolare. Forze di governo, forze di opposizione, forze parlamentari, forze extraparlamentari, farebbero bene a ricordarsene per evitare di reiterare in modo indeterminato una siffatta operazione truffaldina ai danni del popolo.

Ha scritto significativamente un’insigne accademica e studiosa brasiliana del pensiero siloniano come Doris Nàtia Cavaliari che «l’opera siloniana sarebbe “poco utile” in un mondo dove non vi fossero contadini senza terra per coltivare, dove non esistessero ingiustizie sociali e neanche politici corrotti, in un mondo che non fosse controllato dai mass media, dove i ricchi signori e i ricchi paesi non opprimessero i poveri e non comandassero il loro destino; un mondo del genere sarebbe senza guerre, senza armi e senza nessun tipo di dittatura, compresa quella che tante volte si traveste sotto il nome di democrazia, e non sarebbe necessario lottare per la libertà. Giudichi allora il lettore se valga la pena conoscere l’opera letteraria di Ignazio Silone».

Ma vale qui la pena di citare altri due giudizi. Il primo è dello scrittore francese Gilbert Sigaux: «La rivoluzione di Silone è la rivoluzione degli uomini nudi. Nudi, non soltanto nel senso di sprovveduti ma, più profondamente, nel senso di uomini soli, solamente uomini. Uomini che conoscono la loro solitudine e si sforzano perpetuamente di spezzarla con la fiducia e con le opere di misericordia: dar da bere agli assetati, nutrire gli ignudi, guarire gli ammalati». Il secondo è di Sandro Pertini, un uomo e un politico molto caro ad un “rivoluzionario” di questi tempi come Beppe Grillo e a molti attivisti del movimento 5 Stelle: «Silone era un uomo dal cuore puro, un intellettuale onesto. Di Silone c’è una frase che ho sentito di recente: “Gli schiamazzi della folla non possono far tacere la voce della coscienza”. C’era tutto Silone in quella frase». Sarebbe bello se il leader genovese e almeno una parte consistente di suoi seguaci condividessero almeno quest’ultimo giudizio e si sforzassero di fare propria l’esemplare e non comune sensibilità etico-civile di Ignazio Silone.

Sarebbe bello soprattutto perché, per quanto moralmente infervorati e politicamente determinati possano essere, talvolta sembra potersi loro applicare lo stesso giudizio che Silone esprimeva sui bolscevichi russi, a cominciare da Lenin, appena saliti al potere: «Ciò che mi colpí nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile» (citato in I. Montanelli, I protagonisti, Rizzoli Editori, Milano 1976, p.183).

Quale etica cattolica?

Un’etica cattolica integrale, non integralista ma integrale, ovvero non un’etica cattolica parziale o incompleta, basata solo su alcuni aspetti della concezione cattolica della vita e del mondo ma non su tutti i suoi aspetti globalmente considerati e dottrinariamente inscindibili gli uni dagli altri, è un’etica fondata sulla verità rivelata da Cristo e quindi anche e principalmente sulla morte sacrificale e sulla gloriosa risurrezione di Gesù, figlio unigenito di Dio. Certo, se per integralista s’intende un cattolicesimo che testimonia, in modo composto ma fermo, contro l’ammissibilità del divorzio, dell’aborto, dell’omosessualità nel novero delle cose “normali”, e delle pratiche omosessuali o dei cosiddetti matrimoni omosessuali o ancora di certe pratiche eutanasiche nel novero dei “diritti civili”, un’etica cattolica integrale, che come tale è tenuta ad ascoltare e a valorizzare prontamente anche i possibili contributi di verità e di umanità contenuti in posizioni ed esperienze di vita non richiamantesi a credi religiosi, non potrà non essere costitutivamente anche un’etica “integralista”, ma il punto che qui merita pregiudizialmente di essere precisato è soprattutto che mai un’etica cattolica, intesa appunto nella sua interezza e quindi nell’insieme dei suoi richiami e dei suoi valori spirituali e religiosi, possa essere assimilata ad una semplice religione civile, ad una delle tante etiche esistenti al mondo, ad un complesso di princípi e norme codificate secondo criteri di razionalità puramente storici ed immanenti.

L’etica della Chiesa e dei credenti cattolici è ben riassunta da san Paolo: “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria. Fate dunque morire ciò che in voi è terreno: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e cupidigia, che è idolatria. Per queste cose viene l’ira di Dio [sui figli ribelli]” (Colossesi 3, 1-6). E’ dunque un’etica chiamata a costruire “le cose di lassù” già su questa terra attraverso un continuo esercizio di rimozione o di annientamento spirituale delle tante iniquità che sono o possono in ogni momento insorgere dentro ognuno di noi e che appartengono in generale alla complessiva realtà mondana segnata dal peccato.

E’ di conseguenza anche un’etica che, pur mai implicando forme ossessive e violente di opposizione al male del mondo, ivi comprese le sue molteplici ed inique strutture di peccato politico e sociale, implica una instancabile ricerca di comportamenti virtuosi e santi, nel vincolo d’amore a Cristo, e un concreto  appassionato e caritatevole impegno a favore del prossimo qui e ora bisognoso e di una società retta da vincoli morali e spirituali prima e oltre che da vincoli contrattuali ed economici.

Un’etica cattolica integrale comporta una rivoluzione permanente delle coscienze, persino al di là di ineccepibili abitudini di vita, e una perenne volontà di trasfigurazione spirituale delle strutture mondane di potere, ben oltre le molteplici e variegate contingenze storiche o storico-politiche e culturali a cui il cristiano eticamente impegnato non può certo mostrarsi indifferente ma a cui in ogni caso la sua fede non potrà mai essere totalmente ridotta. Sí, perché un’etica cattolica, che è un’etica d’amore o meglio l’etica per eccellenza dell’amore gratuito e disinteressato, non è una semplice etica filantropica, compassionevole e solidaristica, non è né un’etica sociale né  un’etica di servizio sempre e comunque condiscendente rispetto a qualsivoglia genere di istanze o di presunte esigenze antropologiche ed umane, né un’etica senza verità, ma è un’etica che ha il suo fulcro e la sua unica giustificazione nella verità stessa che è Cristo e quindi nella Parola e nei precetti di Dio correttamente intesi oltre ogni pur possibile fraintendimento o mistificazione teologica e religiosa.

Ma quest’amore cristocentrico, quest’amore della grazia (perché l’amore nel cui nome il cristiano è tenuto a pensare e a vivere è dono divino e, appunto, grazia), quest’amore della fede (in quanto la sua sostanza e la sua cifra più alta sono costituite dalla fede e da una fede rocciosa nel Logos incarnato), da cui l’etica cattolica non può prescindere, non di rado è stato in passato e continua ancor oggi ad essere equivocato o malamente usato nelle stesse comunità cristiane e cattoliche.

Infatti, pur potendosi facilmente presumere che quest’ultime ben conoscano la meravigliosa e perfetta descrizione che dell’amore cristiano ha fatto san Paolo, non di rado accade che in esse se ne faccia un uso piuttosto banale e strumentale: basta pensare a tutte le volte in cui credenti del clero e credenti laici ricordano che la carità è paziente e benigna solo perché spiritualmente incapaci di stare veramente vicino a chi abbia subíto una qualche grave prepotenza o sia stata vittima di atti crudeli o malvagi; che la carità non è invidiosa, non si vanta, non cerca il suo interesse, non si adira né tiene conto del male ricevuto, omettendo tuttavia di aggiungere e di precisare che la carità non gode dell’ingiustizia e non si compiace affatto dei torti e delle sofferenze che un modo ingiusto di agire procura a tanti esseri umani ma si compiace solo della verità predisponendosi esclusivamente in funzione di essa a tutto coprire, tutto credere, tutto sperare, tutto sopportare (1Corinzi 13, 4-7).

Solo chi sa e vuole intendere correttamente la Parola di Dio, sforzandosi di non darne mai per scontati e di approfondirne continuamente lo spirito e il senso oltre che la lettera, solo chi agli insegnamenti di Cristo si accosta senza inconscia saccenteria e senza nascosta ipocrisia, solo chi coltiva la fede senza astuti sdoppiamenti di personalità e senza comode o complicate razionalizzazioni dialettiche, può alla fine sperare di amare realmente secondo l’amore di Dio, sino al punto di poter amare persino i suoi nemici e di predisporsi a fare del bene addirittura a coloro da cui è odiato, a pregare anzi per essi e a benedirli. Ecco: è solo a chi è capace di tanto che l’apostolo Giovanni si riferisce quando scrive:  “Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore”. (Gv 4,7-8).

In altri termini, un’etica cattolica, pensata e vissuta alla luce di tutto il messaggio e dell’opera stessa di Cristo, non genera né paternalismo religioso, né spiritualismo a buon mercato, né astratto e aprioristico giustificazionismo teologico. Cosí come un’etica cattolica degna di questo nome non può generare moralismo ma solo e sempre moralità. Moralistica, infatti, è la fede che rinvia al “regno di Dio” come a qualcosa che è semplicemente di là da venire, sempre oltre la storia che sta divenendo in questo momento e sotto i nostri occhi, e quindi nella sua statica ed assoluta contrapposizione al mondo e a questo specifico e determinato mondo storico della politica, del diritto, dell’economia e della cultura in senso lato.

Espressione di profonda e rigorosa moralità è invece la fede che non separa drasticamente il “regno di Dio” dal “regno degli uomini”, allontanando sistematicamente il primo dalle specifiche e drammatiche contingenze di individui-persone storicamente determinati, ma lo considera come realmente e sia pure misteriosamente presente ad essi e tra essi e come immanente alle loro esperienze e al loro agire.

In una concezione etica di tipo moralistico il “regno di Dio” ha una funzione meramente evasiva o elusiva e semplicemente consolatoria rispetto a condizioni storico-umane manifestamente inique di esistenza personale e collettiva, mentre un’etica cattolica della moralità non solo viene riconoscendo in esso un pur agognato e reale punto di approdo metastorico della vita  personale e collettiva di uomini e donne ma ad esso viene assegnando un ruolo propulsivo già nel quadro di questa esistenza storico-mondana e una concreta funzione di sprone e di liberazione rispetto ad una molteplicità di reali e possibili angustie esistenziali di qualsivoglia natura, che trovano il loro invalicabile limite nella morte e che il mondo, pur con le sue leggi, i suoi ordinamenti, le sue istituzioni e i suoi stessi “godimenti” di natura ludica o estetica o genericamente spirituali, è impossibilitato a superare. Il “regno di Dio” è in mezzo a noi tutti, nel senso che Dio è con noi e che noi cooperiamo con Dio alla costruzione del suo regno.  

In questo senso, pure, l’etica cattolica, pur presupponendo che Dio giudica le sue creature più sulla base della sincerità e dell’onestà delle loro intenzioni che non sulla base del fatto che quest’ultime siano o non siano coronate da successo, non è un’etica della pura intenzione, del puro dover essere (nel senso di quelle effimere o ipocrite “buone intenzioni” di cui, come si sa, “è lastricata la via dell’inferno”), cui corrisponde quasi sempre da una parte il moralistico e sprezzante giudizio dell’“anima bella” ovvero di chi predica dall’alto o nel chiuso di una aristocratica e orgogliosa torre d’avorio  e dall’altra un gretto conservatorismo politico-sociale o forme immature e irrazionali di ribellismo individuale o collettivo, ma è un’etica realistica della responsabilità antitetica all’etica retorica e disimpegnata dell’anima bella e profondamente funzionale ad un coraggioso e fattivo impegno evangelico contro tutte le forme di schiavitù e di iniquità che si annidano nella coscienza personale e nelle pratiche oggettive ed interpersonali degli uomini, della cui complessità e drammaticità occorre tuttavia essere ben consapevoli cercando ogni volta di entrare in solidale e amorevole comunione fraterna con tutti coloro che ne siano particolarmente afflitti e tra cui fra l’altro potremmo esserci trovati o potremmo trovarci noi stessi.

L’etica cattolica, infine, pur aperta ad un serio e costruttivo confronto con un’etica laica, non può tuttavia non differenziarsi profondamente e, alla fine, irrimediabilmente da essa. Il laico, non il laico credente ma il laico non credente o ateo, infatti, è colui che agisce senza operare alcun esplicito riferimento a Dio, che non si sente limitato da niente e che conta o confida esclusivamente su se stesso e sulle sue forze. Il cristiano, invece, è colui che pone o si sforza di porre ogni suo pensiero ed atto in relazione a Dio e ai suoi insegnamenti, colui che pertanto ha sempre ben presente il senso del limite e del peccato e che proprio per questo, quale che possa essere il grado della sua integrità morale e spirituale, non confida in se stesso ma esclusivamente nella misericordia di Dio. Il laico ritiene che, operando secondo razionalità e princípi etici universalmente riconosciuti, non si possa che perseguire il bene proprio e il bene altrui o bene comune, mentre il cristiano crede che, senza l’aiuto e senza la grazia di Dio, nessuno sforzo e nessuna opera umana siano suscettibili di produrre frutti buoni e duraturi.

Una volta il cardinale Joseph Ratzinger scrisse che «il problema soggiacente a tutta la morale cristiana è di capire come l’agire umano e l’agire divino collaborano», e in questo stretto nesso tra volontà umana e grazia divina è appunto il senso complessivo dell’etica cattolica. Però non bisogna pensare che questa differenza tra il confidare in Dio-Cristo e il confidare in se stessi divida uomini e donne in due categorie distinte e separate di persone, perché in realtà essa agisce all’interno di ogni soggetto e degli stessi soggetti che professano una fede cattolica.

Può infatti capitare che un laico non credente riesca ad esprimere nel corso della sua vita una spiritualità più sincera e generosa seppur non dichiaratamente religiosa, e per questo più gradita a Dio, di quella dichiaratamente religiosa di un credente cattolico sempre preoccupato e inquieto che agisce e vive come se Dio non ci fosse, e che per contro un credente cattolico, in aperto contrasto con la sua professione di fede e pur partecipando e accostandosi assiduamente alla santa messa e alla santa eucaristia, si lasci tuttavia andare ad atteggiamenti mentali e pratici simili a quelli di chi tende a deprimersi quando vede che le cose non vanno secondo le sue aspettative o i suoi desideri.

E’ proprio cosí: non è infrequente il caso in cui un cattolico si senta depresso o frustrato perché certe sue aspettative non siano state soddisfatte. Questo concetto è espresso nel vangelo di Luca, ove si racconta della pesca miracolosa. Dopo una notte infruttuosa nel corso della quale non è riuscito a pescare niente, Pietro, dopo aver fidato solo sulle sue forze e in evidente crisi di fede, appare sconfortato e sull’orlo della depressione. Depressione che supera non appena torna a riporre la sua incondizionata fiducia in Cristo Signore e Salvatore. La notte infruttuosa rappresenta i momenti in cui persino il credente più affezionato e più fedele a Dio si sente improvvisamente solo, abbandonato da lui o comunque da lui lontano, e cede alla tentazione di pensare che le cose della sua vita debba affrontarle e risolverle fidando solo sulle sue forze. Tale atteggiamento però è frustrante perché Pietro scopre abbastanza presto che senza Cristo non può fare nulla, e, nel caso specifico, non può pescare nulla pur impegnandosi strenuamente per moltissimo tempo: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5, 5), sono le sue parole.

Ecco: a volte anche il cattolico più sperimentato può agire come il laico non credente che pensa e vive senza percepire la concreta presenza di Dio nella sua esistenza, che pensa e vive senza più affidarsi alla “parola di Cristo”, e fidando presuntuosamente o disperatamente solo su se stesso. Ma può anche accadere che, nell’usufruire di condizioni di vita materiale e spirituale abbastanza lineari e gratificanti o addirittura lussureggianti, ci si senta indotti a presumere stoltamente di avere Dio a portata di mano (si veda l’episodio evangelico del giovane ricco), oppure che, al contrario, pur avendo sempre vissuto in modo trasgressivo e irreligioso, ci si possa sentire improvvisamente e irresistibilmente attratti, proprio nei frangenti più terribili e dolorosi della propria esistenza, dall’amore misericordioso di un Dio pronto a morire come noi e per noi sulla croce della vita (si pensi ad uno dei due malfattori crocifissi accanto a Gesù). 

L’etica cattolica è un’etica rigorosa anche in questo senso: che nessuno mai, sino alla fine della sua esperienza terrena, possa considerarsi assolutamente salvo o dannato.

I cattolici e il movimento 5 Stelle

Beppe Grillo e il movimento 5 Stelle avrebbero potuto trarre degli enormi vantaggi politici dalla débâcle di una classe politica, comprensiva di partiti quali Popolo delle libertà, Partito democratico e Scelta civica, manifestamente affetta da un cronico deficit di credibilità. Avrebbero potuto portare una ventata di pulizia e di svecchiamento politico-istituzionale unitamente ad una fresca e volitiva capacità di incidere concretamente anche sul piano parlamentare e legislativo. Avrebbero potuto inaugurare una stagione di seria dedizione al bene comune e di provvedimenti necessari ad una ripresa della complessiva vita economica nazionale, dando cosí adeguata risposta alle legittime e indifferibili aspettative di moltissimi cittadini. Avrebbero potuto contribuire davvero a ringiovanire l’Italia liberandola forse non completamente da ogni genere di meschino interesse personale o di gruppo ma almeno da un passato e da un presente segnati da ottusa e tirannica inconcludenza politica.

Cosí però non è stato, pur avendo essi avuto la concreta opportunità di trattare più ragionevolmente ed utilmente di quanto non abbiano saputo e voluto fare con il segretario politico del PD e di favorire quindi un governo PD-5Stelle certo suscettibile di produrre inediti e fecondi risultati sul piano economico-sociale e politico-istituzionale, checché ne vada adesso dicendo il troppo logorroico leader genovese, cui non si può certo disconoscere il merito di aver saputo creare le condizioni politiche per una necessaria disarticolazione di un incancrenito e inefficiente sistema italiano di potere, ma che, fidando più su presunte doti profetico-apocalittiche che non su una effettiva capacità di analisi e di utilizzazione delle oggettive possibilità tattico-strategiche delineatesi alla luce dei pur convulsi avvenimenti politico-parlamentari postelettorali, ha finito per favorire un’opera di restaurazione più che di cambiamento. Almeno per ora.

E’ un peccato che, pur potendo avvalersi di un consenso elettorale molto ampio di cui è parte integrante un considerevole numero di voti cattolici (come risulta anche da un recente sondaggio effettuato dal settimanale “Famiglia cristiana”), il movimento di Grillo non abbia saputo fin qui farne tesoro pensando forse di poter ulteriormente accrescere la sua forza elettorale più attraverso una reiterazione della sua funzione critico-contestativa nei confronti del sistema partitico di potere che non attraverso una immediata assunzione di responsabilità in ordine a pur impellenti necessità di attività governativa.

Ma questo calcolo, a meno di un rapido ripensamento sulla linea politica da adottare, non potrà che rivelarsi non solo sbagliato ma anche e soprattutto dannoso al fine di porre prontamente rimedio alla situazione emergenziale in cui versa sempre più agonicamente l’Italia: anche perché, per quanto riguarda i cattolici (tra cui anche chi scrive) che l’hanno votato in senso nobilmente strumentale ovvero più per disarticolare un sistema nazionale di potere ormai moralmente screditato e politicamente deprimente che non per sottoscriverne ogni punto programmatico, essi non potranno a lungo sostenere un movimento politico di tipo perennemente padronale e autoritario, e sia pure efficace in termini di momentanea contrapposizione e  rottura rispetto all’establishment dato, la cui democraticità e la cui capacità progettuale ed operativa siano a diversi livelli più ostentate che reali e in cui talune spinte meramente trasgressive sul terreno dei “diritti civili” (si pensi a proposte di legge “grilline”contro la cosiddetta omofobia, transfobia e a perverse amenità di questo genere) cominciano ad emergere sorprendentemente come punti qualificanti del programma politico “stellato” dei quali molti cattolici non avevano trovato e non trovano traccia tra i suoi tanto propagandati 20 punti.

Non che i cattolici ignorassero le critiche di Grillo alla Chiesa cattolica, ma non era parso che egli volesse indulgere su tematiche non accoglibili non solo per motivi religiosi ma anche per ragioni di puro e semplice buon senso. E francamente vedere che i senatori “grillini” si siano precipitati a presentare proposte di legge su questi temi, non può non turbare profondamente la coscienza cattolica, anche se i parlamentari cattolici del 5 Stelle fingano nel frattempo di non sapere e di non vedere.

Per cui, anche ma non solo per questo, «la domanda sorge spontanea: cosa faranno, adesso, i cattolici? Rimarranno divisi o cercheranno una strada per uscire dall’impasse e, soprattutto, nell’irrilevanza nella quale sono finiti? Come evidenziato dal vaticanista de La Repubblica Paolo Rodari “i leader delle associazioni cattoliche e dei movimenti ecclesiali che nei mesi scorsi si sono radunati a Todi non hanno dubbi: occorre ricominciare da zero”. E’ l’ora, quindi, scrive Rodari, “di un movimento che dal basso, come fu nel 1943 quando cinquanta esponenti cattolici stilarono a Camaldoli un documento programmatico che serví da linea guida decisiva per la costruzione dell’Italia, lavori alla ricomposizione del Paese”. Un nuovo movimento, quindi, che dia vita “a una nuova stagione nella quale a decidere linee e strategie saranno i laici e non più le gerarchie”. E’ finito, secondo Rodari, “il tempo della Chiesa ingerente in politica attraverso le lobby sponsorizzate dalla Cei”. Non è quindi un caso se qualche giorno fa il cardinale Bagnasco abbia aperto il consiglio permanente della Cei senza tenere, per la prima volta da anni, una prolusione» (F. Anselmo, Grillo visto dai cattolici, in blog “Formiche”, 21 marzo 2013).

Vero: occorrerebbero anche oggi almeno 50 esponenti cattolici, non necessariamente di chiara fama ma lucidi intellettualmente, integri moralmente, e dotati di una fede e di una spiritualità evangeliche adamantine, per sperare di poter introdurre nella vita politica italiana inediti e intransigenti testimoni della verità e della giustizia cristiane. Anche perché, a ben vedere, nel movimento di Grillo c’è tutto e il contrario di tutto: dal classico cittadino autoritario o reazionario al più accanito e fanatico ribellista di destra e di sinistra, dal più bieco e cinico titolare di ricchezza personale all’ultimo pezzente della scala economica e sociale, dal più raffinato cultore del sapere critico al più rozzo e scalmanato esponente di un becero senso comune, dal cattolico devoto all’ateo più viscerale.

Non è possibile che, alla lunga, tutta questa congerie di elementi eterogenei possa stare insieme per configurarsi non solo come forza tumultuosa e travolgente di discontinuità politica rispetto al passato ma anche e soprattutto come forza organizzata e propositiva di cambiamento secondo reali finalità di libertà personale e di convivenza civile, di uguaglianza giuridica e di giustizia  sociale, sia pure in un quadro di ragionevole sostenibilità economica e finanziaria. Non è possibile anche perché, in relazione al programma politico del movimento 5 Stelle, accanto a punti programmatici certo meritevoli di essere condivisi e sostenuti, figurano punti programmatici molto più irrealistici quali il reddito minimo di cittadinanza, vigente in paesi occidentali che se lo possono permettere, l’istituzione di un politometro, la cui funzione sarebbe comunque nulla senza l’attività giudicante della magistratura, la non pignorabilità della prima casa, alla quale ovviamente le banche erogatrici di mutuo non potrebbero mai rinunciare in modo assoluto, e molto più discutibili o pericolosi come il referendum propositivo e senza quorum, l’abolizione di qualsiasi tipo di finanziamento pubblico a partiti e a giornali.

E infine non è possibile che il calderone grillino di ribollenti pulsioni antistituzionali possa assurgere ad autorevole e credibile forza politica di cambiamento anche perché i cattolici sanno bene che nessun movimento rivoluzionario è stato e sarà mai capace di produrre un mutamento qualitativamente alto e scevro da contraddizioni o contrasti più o meno insanabili laddove almeno “un piccolo resto” di cattolici non abbia provato o non provi, con la sua testimonianza e la sua stessa vita, a fare di Cristo il cuore del mondo anche nel quadro dell’attività politico-legislativa.

I cattolici non possono rinunciare a testimoniare concretamente Cristo anche nella vita pubblica e politica, perché la loro stessa fede li porta a credere e ad essere testimoni di Cristo non solo tra le mura domestiche o le mura parrocchiali ma anche, e con pari energia spirituale, tra le mura del mondo e dello stesso mondo politico. In questo senso non è accettabile che il voto cattolico, come numerosi sondaggi di parte cattolica starebbero a dimostrare, non sia più decisivo per la vita politica del nostro Paese, in quanto i cattolici ritengano ormai di poter votare senza condizionamenti ecclesiastici di sorta in ordine sparso e un po’ in tutti i partiti politici.

Certo, nessuno potrà mai coartare le particolari sensibilità politiche dei cattolici che, entro certi limiti e specialmente in momenti di grave turbolenza economico-sociale e politico-istituzionale, possono risultare variamente e legittimamente motivate. Ma non c’è dubbio che un nuovo partito cattolico, non basato su pregiudiziali di natura classista o interclassista, libero da “poteri forti” di qualsivoglia natura, privo di tradizionali e troppo ingombranti apparati burocratici, fedele al magistero della Chiesa ma totalmente autonomo da poteri e condizionamenti ecclesiastici nell’esercizio dell’attività politica, e soprattutto determinato a perseguire politicamente obiettivi e finalità coerenti con i valori evangelici di verità, giustizia, carità, libertà e pace sociale, non svuotati del loro effettivo e santo significato, in un quadro complessivo in cui la sintesi della valorizzazione delle capacità e dei meriti personali con uno spirito fortemente comunitario e solidaristico costituisca il vero motore del benessere economico e sociale, sarebbe altamente auspicabile per la società italiana e non solo italiana del terzo millennio.

Auspicabile e forse anche necessario sarebbe ormai un nuovo partito cattolico diretto e animato da “uomini liberi e forti”, per riprendere la celebre espressione sturziana del 1919, capaci di non assolutizzare alcuna teoria economica ma di evitare in ogni caso che l’economia prenda il sopravvento sulla politica e che la finanza prenda il sopravvento sull’economia, di non sottostare a dogmatiche teorizzazioni di illusorie “crescite indefinite” o di mitici “sviluppi illimitati” ma di coniugare sempre e comunque il capitale disponibile con una domanda oggettiva di lavoro prima e oltre che con la legge del profitto, di rovesciare tendenzialmente ma radicalmente la strategia politica e la prospettiva storica degli ultimi decenni non assecondando e non rassicurando più i mercati finanziari nazionali ed internazionali con misure politiche volte a fare “macelleria sociale” ma opponendosi fieramente agli smisurati e illeciti (perché immorali e antisociali oltre che antinazionali) interessi finanziari dei grandi potentati mondiali, della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale, di ridiscutere criticamente e responsabilmente trattati e vincoli europei ed internazionali di qualsivoglia natura che mettano a repentaglio la sovranità nazionale, la democrazia popolare, la dignità e la vita stessa dei cittadini e in modo particolare di quelli più disagiati.

I cattolici sono chiamati dalla loro stessa fede a compiere la loro missione evangelizzatrice anche sul piano politico, e anche nella missione politica del cattolico dovrà riflettersi, come scriveva don Luigi sturzo nel 1956, il senso del divino, senza cui «tutto si deturpa: la politica diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa». Quali cattolici oggi, anche alla luce di queste considerazioni, proveranno coraggiosamente e disinteressatamente a rinfrescare e rigenerare l’aria mefitica della vita politica italiana?

Svergognati d’Italia!

Poco fa, Giorgio Napolitano, nel suo discorso parlamentare di reinsediamento in veste di confermato Presidente della Repubblica italiana, ha detto: «il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti». Che è un ragionamento formalmente ineccepibile ma, alla luce di vent’anni di prassi politica e parlamentare scorretta e inconcludente, ancora una volta ambiguo sotto il profilo morale, insufficiente sotto il profilo sociale, e sostanzialmente inefficace e inaccoglibile sotto il profilo politico se non da parte di forze parlamentari ormai arroccate da tempo attorno ad una concezione farisaica ed eteronoma dell’impegno politico in quanto incapace quest’ultimo di esplicarsi autonomamente rispetto ad istanze politico-finanziarie internazionali non solo estranee ma sempre più antitetiche ad istanze nazionali di riorganizzazione e di ripresa del complessivo quadro economico e sociale. 

Allora vediamo di poter rimettere a fuoco alcuni concetti semplici ma essenziali per una vita realmente e non retoricamente democratica del Paese Italia. La democrazia storicamente non è nata come ricerca di consenso ma come metodo per risolvere quanto più pacificamente possibile i dissensi e quindi le stesse contraddizioni che attraversano la società, per cui può accadere, e oggi accade molto frequentemente, che tutto il consenso ricevuto dai partiti non sia ancora condizione sufficiente perché uno Stato e una nazione occidentali possano meritare di essere definiti e qualificati come democratici. Se contraddizioni e conflitti inerenti il corpo sociale non possono esprimersi né nel quadro istituzionale, a cominciare dalla istituzione parlamentare, né per le strade o nelle piazze, è del tutto evidente che viene a mancare lo spazio vitale di espressione e di denuncia che è assolutamente necessario alla vita democratica.

Se la democrazia non riesce di fatto a costituirsi quale “strumento di liberazione e di lotta”, secondo la definizione di Jean Jaurès, essa viene meno al suo compito principale che è quello di migliorare non tanto formalmente quanto sostanzialmente la complessiva condizione di vita dei cittadini e innanzitutto e soprattutto dei cittadini più disagiati.

E’ inutile girare attorno alla questione: la democrazia è essenzialmente questo e se questo essa non è capace di essere non è più democrazia ma al più un truffaldino surrogato della democrazia che potrebbe comportare alla lunga pericolosissime convulsioni sociali di natura eversiva o rivoluzionaria.

Una società non è democratica semplicemente perché fondata sul suffragio universale e su un parlamento liberamente eletto ma è democratica solo se essa dispone di procedure che garantiscano la non eludibilità delle principali questioni economiche e sociali emergenti dalla complessiva volontà elettorale dei cittadini, e di regole o meccanismi preposti inderogabilmente a salvaguardia di un libero parlamento in cui non abbiano possibilità di accesso in qualità di rappresentanti della nazione non solo i cosiddetti incensurati ma anche i titolari di redditi esorbitanti: questo, evidentemente, per evitare che la democrazia, di cui tutti si sciacquano copiosamente la bocca, da “potere del popolo” non venga trasformandosi o non rischi continuamente di trasformarsi, a causa della sua pur necessaria mediazione della rappresentanza indiretta, in “potere dei ricchi” o “per i ricchi” o, che è lo stesso, dei furbi e per i furbi.

La democrazia si autodivora ove venga usata come strumento di potere fine a se stesso (ed è il caso dell’Italia) e non come strumento di servizio finalizzato a soddisfare domande oggettive e pressanti di eguaglianza e giustizia. Né sussistono ragioni particolari che oggi, nell’epoca della globalizzazione economica e finanziaria, possano giustificare il progressivo snaturamento della democrazia occidentale rispetto al suo originario e fondativo significato, a meno che non si voglia apertamente sostenere che, dati i tempi e la particolare emergenza economica mondiale ed europea, essa non sia praticabile integralmente, e che quindi paradossalmente democrazia possa esserci non già in tempo di crisi e di discordia ma solo in tempi di prosperità e di concordia sociale. Laddove invece la democrazia è proprio intrinsecamente antitetica non solo all’idea di una possibile e sia pure momentanea sospensione del libero esercizio della volontà popolare ma anche alla stessa possibilità che quest’ultimo possa essere minimamente condizionato da ingerenze internazionali “esterne”.

La sua peculiare funzione è infatti quella di impedire ingerenze o sopraffazioni dirette o indirette, interne o esterne, di qualsivoglia natura, e di contrapporsi a forme virtuali di “dittatura finanziaria” che possono attecchire storicamente solo in presenza di democrazie molto deboli o puramente formali. Occorre stare perciò molto attenti oggi a tutti quei politici e a quegli osservatori nazionali ed internazionali che agitano continuamente lo spauracchio dei nazionalismi e dei populismi proprio perché ideologicamente portati, nel nome e per conto degli ingentissimi interessi di alcune potenti oligarchie finanziarie, a contrastare l’oggettivo pericolo di un’opposizione democratica popolare troppo forte e determinata alle logiche arbitrarie e vessatorie, di matrice europeistica ed euromonetaria, che puntano ormai a consegnare a pochi gruppi privilegiati i destini del mondo e dei popoli.

Che una vera democrazia sia solo quella in cui si registrano convergenze politico-programmatiche di forze parlamentari diverse o opposte o in cui non si danno mai veri e propri conflitti in funzione di una generica ed astatta pace sociale, è una semplice e banale mistificazione sostenuta tra gli altri dal rieletto presidente della repubblica italiana Giorgio Napolitano, rispetto al quale anche una parte del mondo cattolico non sente di potersi associare alle parole augurali a lui indirizzate da papa Francesco, ovvero «di continuare la sua azione illuminata e saggia e di essere sostenuto dalla responsabile cooperazione di tutti» (20 aprile 2013).               

In particolare proprio i cattolici, il cui incondizionato amore per la verità dovrebbe essere scontato, non devono lasciarsi ingannare da concezioni o interpretazioni farsesche e farisaiche della democrazia, ed è per questo che essi, lungi dal voler evitare o nascondere i conflitti, devono capirli e tentare di risolverli con l’impegno quotidiano e con la preghiera. Consci di essere “agnelli in mezzo ai lupi”, non devono avere paura dei lupi ed indietreggiare pavidamente ma affrontarli con coraggio e determinazione evangelica perché possano nuocere il meno possibile e perché non passi come ovvia e ineluttabile verità quella convinzione, fallace ma ormai comune alla quasi totalità delle formazioni governative e spesso anche non governative, per cui in democrazia tutto si possa fare ma pur sempre in un rapporto di compatibilità con quelle che sarebbero le immutabili leggi del mercato e dell’economia.

E’ forse il caso di ricordare che monsignor Oscar Romero, una grande personalità del mondo cattolico alla quale la Chiesa non ha ancora tributato tutti gli onori che meriterebbe, riteneva che il capitalismo complessivamente considerato, sia pure nella differenza delle forme e dei modi in cui viene attuandosi nelle diverse aree del pianeta, fosse una controreligione assoluta, una mentalità ateistica particolarmente pericolosa per la Chiesa cattolica perché facilmente e subdolamente suscettibile di infiltrarsi nella sua stessa coscienza religiosa chiamata a discernere e ad operare in un mondo per l’appunto capitalistico in cui troppo spesso di fatto «i beni materiali si erigono a idoli e sostituiscono Dio» e in cui parole evangeliche eterne come quelle di giustizia, uguaglianza, libertà in senso ampio, e quindi anche di condivisione personale e comunitaria dei beni materiali e spirituali, sembra debbano venire adattandosi alle meschine e inique dinamiche dei poteri del mondo. Non è cosí, non può essere cosí, perché è vero che Cristo non è venuto a salvare l’umanità semplicemente da un punto di vista politico ed economico ma è altrettanto vero che non potranno essere disattesi impunemente i suoi continui e minacciosi moniti a preoccuparsi degli ultimi, degli affamati, degli assetati, insomma degli indigenti e a fare di tutto per essere giusti agli occhi di Dio e degli uomini. Non ce ne dimentichiamo!

Come potrebbero oggi i cattolici dissentire da una diagnosi quale quella formulata da Zygmund Bauman, il quale, parlando di un “capitalismo parassitario”, ha mostrato come, per precisi motivi di evoluzione storica, gli unici “ospiti” attuali di cui il capitalismo può nutrirsi, spolpandone avidamente le residue risorse, siano «gli stessi cittadini degli Stati ad economia capitalistica», i quali vengono sfruttati attraverso il loro assoggettamento al pagamento di interessi sempre più arbitrariamente alti sul debito contratto con banche e istituti finanziari, e come le politiche degli Stati capitalisti “democratici” o “dittatoriali” (come la Cina) vengano costruite e condotte non contro l’interesse ma nell’interesse dei mercati. Un tempo gli Stati proteggevano l’accumulazione di capitale attraverso lo sfruttamento della manodopera operaia, oggi assolvono tale funzione attraverso lo “sfruttamento dei consumatori”.

Se le cose stanno cosí, ci si deve chiedere seriamente per quale motivo ci si debba continuare ad indebitare, chiedendo credito e rifinanziamento del debito stesso, e si debba continuare a sottostare alle criminali ingiunzioni di mercanti e banchieri usurai. L’occidente cristiano non può consegnarsi mani e piedi, corpo e anima, a quei lupi famelici che sono chiamati mercati e che tendono a far strage di tutto, oltre ogni più elementare considerazione di ordine umano e morale, e a divorare tutto pur di ingrassare se stessi. Non è possibile né in senso laico, né in senso evangelico. Cristiani e non credenti non possono vivere in funzione di una “democrazia eterodiretta” e di una meccanica crescita a dismisura di mostruosi leviatani politico-finanziari che condannano un numero sempre più grande di persone ad uno stato di schiavitù.

E’ anche e soprattutto in questo senso che la patetica rielezione di Napolitano a Capo dello Stato non può non turbare profondamente l’animo della stragrande maggioranza del popolo italiano. Infatti, Napolitano, socio dell’Aspen Institute e dei più esclusivi clubs finanziari internazionali, è tra i massimi portavoce della grande finanza mondiale e di una politica europea che più che a migliorare le condizioni di vita dei popoli appare diretta ad opprimerli con pesanti trattati economici internazionali e asfissianti politiche fiscali.

Dove è del tutto chiaro che i partiti italiani che oggi hanno voluto rieleggerlo, e solo per motivi di convenienza o di bottega, non potranno domani dar vita ad un governo che non abbia al centro della sua agenda politica, sia pure forse con formulazioni leggermente attenuate, l’idea fissa del “mondialista” Giorgio Napolitano, ovvero l’Europa a tutti i costi, la necessità di onorare a tutti i costi i trattati internazionali e i patti di stabilità sottoscritti anche dallo Stato italiano, l’impossibilità di sottrarsi al dovere di continuare a pagare il debito pubblico, e, dulcis in fundo, proprio al fine di varare un programma cosí impegnativo ma cosí poco democratico, l’obbligo di un governo unitario di tutte le forze che, nel conferirgli il secondo mandato, hanno implicitamente accettato di sottoporsi ai suoi diktat.

In effetti, Beppe Grillo, benché il suo movimento non sia affatto privo di contraddizioni e ambiguità, non è andato molto lontano dal vero nel parlare di “piccolo golpe” in occasione della rielezione presidenziale del “migliorista” Napolitano, giacché la democrazia anche in questo caso è stata rispettata solo di striscio, solo ipocritamente e avendo in animo propositi assolutamente antidemocratici. Già, perché i vari Marini, Prodi, Amato, D’Alema, lo stesso Napolitano et similia, quanti voti avrebbero preso se agli italiani fosse stato consentito di votare e di eleggere direttamente il Capo dello Stato? Questi nomi, ha osservato una coraggiosa intellettuale italiana come Ida Magli, «vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia, che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro-finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale», né mancano buoni motivi per sospettare che «la presidenza della repubblica italiana» sia «appaltata al Bilderberg» (Il Bilderberg nomina il presidente della Repubblica italiana, dal blog “Italiani Liberi” del 21 marzo 2013).

Per questo, l’elezione di Napolitano non solo costituisce un atto di arroganza perché in palese contrasto con la domanda di rinnovamento e con la gran parte delle aspettative popolari emerse dalle ultime e recenti elezioni politiche, ma anche e soprattutto una inequivocabile dimostrazione di spudoratezza politica ed umana che non può non indurre persino i cittadini più civili e pacifici di questo nostro infelice Paese a qualificare gli artefici di una siffatta operazione e in particolare i “grandi elettori” del PD, di sicuro colpevoli di perpetuare un’oscena alleanza con Berlusconi e Monti, come puri e semplici svergognati: svergognati d’Italia!

Fede e criminalità finanziaria

In data 7 marzo 2013, all’indomani dei travolgenti risultati elettorali italiani del 24 e 25 febbraio 2013, che hanno segnato la sensazionale affermazione del movimento 5Stelle di Beppe Grillo, Mario Draghi a Francoforte dichiarava con apparente imperturbabilità: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Come dire: Grillo e il suo populismo antieuropeo o euroscettico hanno vinto, ma questo non è certo un problema né per i mercati né per l’Unione Europea che sanno bene come la democrazia sia un elemento costitutivo ed ineliminabile dello scenario in cui operano.

Ma Draghi, in realtà, nell’esprimersi in questi termini, intendeva veicolare un concetto ben più perfido di quel che molti hanno percepito: quello per cui la democrazia, pur cosí “cara” ai mercati finanziari e ai banchieri europei e mondiali, non può impedire che la finanza continui ad avere le sue dure necessità e ad imporre severe direttive soprattutto ai paesi debitori, per cui Grillo o non Grillo, niente e nessuno potranno impedire che le politiche europee dell’austerità facciano il loro corso sino al completo conseguimento degli obiettivi fissati.

Come ha brillantemente chiosato Barbara Spinelli, per Draghi l’austerità non potrà essere intralciata da eventuali dubbi e ripensamenti dei governi europei, essendo essa «divinamente indifferente a quel che mugghia nei bassi mondi. In altre parole: la democrazia può emettere le sentenze che vuole, ma nelle chiome dell’Unione e dei mercati se ne udirà appena l’alito» (Il pilota automatico nei palazzi del potere, in “La Repubblica” del 13 marzo 2013). Ma su che cosa Draghi basa questa certezza? Sul fatto, egli ha detto esplicitamente sempre in quel di Francoforte, che «gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico» e questo ben garantisce che «l’unità d’intenti dei governi» europei non sarà minimamente scalfita. Il “pilota automatico”: ovvero gli impegni precisi che sono stati già assunti e sottoscritti, e che dovranno per forza essere onorati, anche e principalmente da quei governi europei che, come Grecia, Cipro, Portogallo, Spagna e Italia, hanno già conosciuto un terribile tracollo economico-finanziario o rischiano di scivolarvi in tempi molto brevi.

Draghi, pertanto, pensa cinicamente che, quale che sia l’indicazione o la reazione democratica dei popoli, i patti sono patti, o per meglio dire i contratti sono contratti, e non possono in ogni caso essere disattesi. Per lui, il pilota automatico o autopilota «è il dispositivo che fa avanzare il veicolo senza assistenza umana. E’ impersonale, non si cura del singolo e degli elettorati, ed è il contrario della democrazia» (ivi), ed è come se il presidente della BCE, nel farsi garante dei mercati, avesse detto di voler rispettare formalmente la democrazia ma dichiarando sostanzialmente che i trattati economici, le regole finanziarie e le stesse penalità previste in caso di infrazione, tutte cose custodite e garantite gelosamente dagli inflessibili organi di controllo della stessa Unione Europea, non possono essere violate impunemente da nessuno dei Paesi membri.

Ciò significa che, per quanto ci riguarda, secondo Draghi «l’Italia è già commissariata, dunque calma e gesso, fatti giunco, la tempesta passerà. Dice passerà: non come, né se sarebbe forse meglio sostituire al dispositivo un governo fatto di uomini, e avere statisti europei con carisma non solo alla Bce» (ivi). Ora, a parte il fatto che la tracotanza di un Draghi, curiosamente cosí osannato dai media delle democrazie occidentali, può durare sino a quando i popoli se ne stiano fondamentalmente muti e passivi e non passino a concrete e convincenti vie di fatto, prese di posizione cosí ostentatamente autoritarie e cosí povere di sensibilità sociale possono essere assunte solo in un’Europa economico-finanziaria priva, e non a caso, di un’Europa politica. E’ per questo, per gli automatismi finanziari europei, che, nota ancora Barbara Spinelli, «ogni Stato diventa una specie di rione municipale, dove le più varie sperimentazioni (buone e non) diventano possibili: il pilota automatico le incanalerà. Il potere vero ha cambiato sede ed è una virtual machine che simula il politico» (ivi).

Ora, basterebbe solo riflettere sull’indecenza del modo di ragionare e di esprimersi di un esponente autorevolissimo del mondo finanziario internazionale qual è certamente Draghi per decidersi non solo a replicare duramente che il concetto di pilota automatico è un’offesa all’intelligenza di chi lo pronuncia e un insulto sprezzante per i popoli e gli Stati cui è destinato, ma anche e soprattutto a sostituire radicalmente i ceti politici governativi di tutta Europa, complessivamente e sostanzialmente proni alle continue ossessive ingiunzioni finanziarie degli organismi decisionali della UE, con uomini e donne capaci di rappresentare nelle sedi decisionali preposte le reali necessità economiche delle proprie comunità nazionali e di farsi portatori di istanze politiche che riflettano non già o non più astratti quanto corposi interessi di determinate oligarchie finanziarie ma concreti, stringenti e diffusi bisogni sociali di vita, e quindi di occupazione, di lavoro, di coesione comunitaria e di dignità personale, dove solo in funzione di tali bisogni, e non a prescindere da essi, sia possibile discutere di finanza, di unione europea, di cooperazione internazionale e di quant’altro viene generalmente utilizzato in modo strumentale e mistificante e quindi non a fini di servizio ma di potere o di dominio.

E’ tempo che il “pilota automatico” venga sostituito con la guida di persone serie, coraggiose e responsabili, capaci di rovesciare con tutte le forze i piani economico-finanziari che spiriti perversi ed irrazionali hanno concepito ed intendono porre in essere non per lavorare all’emancipazione della civiltà europea e mondiale ma alla desertificazione materiale e spirituale dell’umanità. Ed è tempo che quel pilota venga quindi trasformato prestissimo in sovranità del popolo europeo se si vuole evitare che esso «ci bombardi come un drone».

Sta accadendo davvero qualcosa di assurdo: l’Unione Europea, nata per rendere più forti e sicuri tutti i popoli del vecchio continente, sta producendo irresponsabilmente, con la diretta o indiretta complicità di molti governi nazionali, una tale serie di disastri da mettere in serissimo pericolo non solo la civiltà europea ma la stessa sopravvivenza materiale di interi popoli: si pensi emblematicamente alla tragedia greca. Ma che senso ha, a questo punto, una politica europeistica che, lungi dal garantire un buon governo ai popoli, ne favorisca lo sfascio e la irreversibile decadenza? Che senso ha rimanere in Europa se ogni popolo in casa propria non è più libero di decidere il proprio futuro e il proprio destino? E perché mai bisognerebbe rimanere legati all’euro se il mantenimento di questa moneta è funzionale alle esigenze dei mercati e agli interessi finanziari di Paesi come Germania e Francia o Stati Uniti ma non indistintamente alle necessità di sviluppo economico di tutti gli Stati membri della UE? Perché ogni Stato dovrebbe uniformare la sua politica a scelte decise sempre da altri sia pure in nome di una molto astratta ed equivoca unità europea?

L’umanità europea e mondiale non ha bisogno affatto di governi automatici e impersonali ma di governi di uomini seri e responsabili che siano capaci di dare luogo a un governo di leggi finalizzate alla risoluzione di gravi problemi economici reali, ovvero non creati ad arte da attività o giochi speculativi sfuggenti ad ogni controllo politico, e al soddisfacimento almeno parziale e moralmente accettabile di non solo legittime ma doverose e non più prorogabili aspettative di redenzione umana, morale, economica e sociale. E’ tempo che l’etica e la politica abbiano un soprassalto di dignità perché nel codice etico-spirituale dell’umanità non è affatto previsto che ciò che è mezzo di vita per tutti, ovvero il denaro, possa o debba trasformarsi in fine primario di alcuni fondato sulla forzata privazione di molti. Perché è verissimo ciò che scriveva Giorgio Agamben, poco più di un anno fa: «se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese. Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’ archeologia – non la futurologia – è la sola via di accesso al presente» (Se la feroce religione del denaro divora il futuro, in “La Repubblica” del 16 febbraio 2012).

E insomma, per dirla in termini comprensibili in relazione all’Italia, il nostro debito pubblico è talmente patologico che la terapia da cavallo ad essa imposta dalla Troika non è sostenibile e quindi non deve essere sostenuta, perché se pareggio di bilancio e fiscal compact vengono di fatto implicando non solo l’immiserimento delle generali condizioni di vita della nostra nazione ma la persistenza di una disoccupazione giovanile galoppante e persino la non sopravvivenza fisica di migliaia o di centinaia di migliaia di persone, se quindi le perdite sono di gran lunga superiori ai vantaggi, non si capisce proprio per quale motivo si dovrebbe ottemperare senza batter ciglio ai vergognosi diktat usurai europei. Una politica finanziaria quale quella richiesta dall’Unione Europea non consentirebbe alcuna riduzione della pressione fiscale né riaprirebbe la strada ad interventi espansivi per esempio nell’ambito delle politiche industriali. Già essa ha provocato una fase di recessione, cui è seguita l’attuale fase di depressione, cui ineluttabilmente seguirebbe, se continuassimo ad assecondarla, una fase di vera e propria e definitiva disperazione.        

Certo, non ci si può illudere che la politica economica europea possa essere cambiata facilmente non solo perché le forze semiocculte che la sostengono fanno molto pesare i loro ricatti estorsivi sui popoli ma anche perché al momento non tutti i paesi stanno subendo i pessimi effetti dell’austerità e anzi alcuni se ne stanno ora avvantaggiando, pur senza capire che di questo passo non possono non venir compromessi e distrutti due beni fondamentali della civiltà europea, ovvero la democrazia e la pace. I fatti però sono quelli che sono e, se proprio bisogna litigare per cambiare le cose, è molto meglio farlo subito che non quando sia troppo tardi.

   Il punto di vista cattolico su questa materia è stato espresso efficacemente dall’economista Carmine Tabarro (Ridurre l’austerità e ripartire con la crescita, in “Zenit” del 24 marzo 2013), il quale ha osservato che «essere custodi della creazione», come si è espresso papa Francesco, «significa stare accanto agli altri con attenzione responsabilità e amore, prevedendo, provvedendo, farsi fratello dei più deboli, avere come meta il bene comune alla luce di Cristo. Questo concetto di custodire l’altro, di generosa responsabilità, sembra smarrito almeno in certi ambiti bancari e politici dell’Europa», per cui è probabile che la Chiesa sia sul punto di non considerarsi più “Chiesa europea” per riassumere e riaffermare la sua antica funzione di “Chiesa universale”.

Visto che le austere politiche economiche europee stanno producendo disastri in modo reiterato mettendo in pericolo la stabilità e il futuro dell’euro e le stesse democrazie europee, è evidente che all’Unione Europea manchi una visione d’insieme e che, ne sia o meno consapevole, essa stia portando avanti semplicemente un piano usuraio e criminale di prelievo sistematico di denaro e di prosciugamento di tutte le risorse economiche disponibili sul vecchio continente, operando significativamente delle discriminazioni tra paese e paese: e per esempio, tra l’Italia che dovrebbe rispettare i patti fiscali entro e non oltre il 2013 e la Francia che, pur avendo un deficit ben superiore ai parametri del patto di stabilità, si è vista concedere la possibilità di pareggiare il suo bilancio interno solo a partire dal 2017. 

Non solo la carità cristiana ma la stessa logica, argomenta giustamente Tabarro, vorrebbe che l’attuale superiorità economica di cui oggi dispongono, per effetto dell’andamento dei mercati, i Paesi nordici su quelli mediterranei si traducesse in una disponibilità dei primi a prestare denaro a un bassissimo tasso d’interesse ai secondi per rilevanti investimenti industriali e finanziari di cui quest’ultimi appunto hanno un’assoluta necessità. Anche perché, se andrà crescendo sempre più un sentimento di ostilità fra nord e sud d’Europa, non si rischierà forse di precipitare in una situazione storico-politica simile, se non analoga, a certe situazioni del recente passato da cui sono scaturite guerre fratricide tra i popoli europei?

Non è che ci si possa limitare a condannare i crescenti populismi ed estremismi europei, che sono peraltro il fedele riflesso del bisogno oggettivo dei popoli di difendersi dalla politica criminale che stanno subendo, ma almeno come cristiani non ci si può non domandare «se abbia ancora senso un’Europa aggrappata soltanto alla moneta che non sa più guardare avanti, mentre una parte importante del continente sta vivendo una decrescita sempre più infelice. Come cristiani non possiamo non essere preoccupati della crisi sistemica che stiamo attraversando; inoltre siamo, per le nostre radici sostenitori dell’Europa, intesa come progetto a un tempo civile, valoriale e culturale che va oltre l’utilitarismo economicista. Un’Europa come l’attuale, politicamente frammentata, economicamente squilibrata, culturalmente segnata dal ritorno degli egoismi, dei particolarismi regionali e linguistici, poco attenta ai valori dell’etica del bene comune, sembra destinata a cercare di gestire una lenta e buia decadenza» (ivi).

Per i cristiani non esistono ragioni al mondo per le quali si possa concepire un’economia che non abbia al suo centro l’uomo e uomini specifici e concreti e in cui il denaro non sia funzionale al benessere di tutti e principalmente al benessere dei soggetti economicamente e socialmente più svantaggiati. Motivazioni del tipo: bisogna pagare il debito, bisogna onorare i patti, bisogna osservare gli accordi fiscali, bisogna pagare le multe in caso di infrazione, per i cristiani non hanno e non possono avere un valore assoluto e certamente non hanno alcun valore e alcun carattere di vincolo morale oltre che politico se o quando esse contravvengano ai precetti evangelici di fraterna condivisione, di uguaglianza, di giustizia anche e non solo sociale. 

Perciò, se l’economia viene realmente assolvendo la funzione di contribuire al bene comune sia nelle sue forme materiali che in quelle immateriali, essa potrà essere e sarà probabilmente ancora imperfetta ma pur sempre suscettibile di essere accolta e riconosciuta come un’economia sana e utile; altrimenti non potrà essere che malata e, com’è noto, se non ci si allontana o non si guarisce dalle cose malate si va incontro alla morte.

E’ in un’ottica del genere che banche e finanza dovrebbero trovare la loro giusta collocazione, come sottolinea ancora Tabarro in un suo recente volume (Dalla società del rischio all’economia civile, Pardes 2010), e svolgere un ruolo importante come quello svolto storicamente dai Monti di Pietà dei francescani che furono il primo esempio di banca popolare. L’economia dev’essere civile e a fondamento di un’economia civile «vi sono la reciprocità e la felicità relazionale, ovvero la felicità che può essere goduta solo con gli altri e insieme agli altri» (ivi), ciò che comporta una notevole distanza rispetto a logiche puramente strumentali e a teorizzazioni pseudoeconomiche che, per lungo tempo applicate, hanno riconosciuto «ai manager d’impresa l’unica responsabilità di far guadagnare quanto più possibile agli azionisti, sviluppando un sistema fondato sulla crescita esponenziale delle disuguaglianze, fra persone e fra popoli» (ivi). I cristiani non possono aderire a modelli di agire economico che non presentino un chiaro ed inequivocabile valore sociale. Se l’economia, anziché rendere prospera la vita sociale, la inaridisce e la distrugge, vuol dire che ha incorporato in sé qualcosa che non ha a che fare con l’economia correttamente intesa quale servizio sociale ma solo con una forma deteriore di economia qual è quella che punta non a servire ma a dominare sulla società.

Se è vero che nel mondo globalizzato non può darsi etica senza economia è altrettanto vero che in esso non può darsi economia senza etica e senza un’etica quanto più possibile comunitaria e giusta. Questo è l’unico parametro da cui i cristiani e i cattolici non possono e non devono mai derogare.

Economisti italiani “non allineati” su euro e debito pubblico

Pare che non tutti gli economisti italiani abbiano creduto o continuino a credere nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea e della moneta unica su cui essa si fonda, ovvero l’euro. Dico “pare”, un po’ seriamente e un po’ sarcasticamente, perché a dire il vero, specialmente nell’ultimo biennio, i media hanno veicolato ossessivamente quella che è stata presentata come la tesi di gran lunga maggioritaria della scienza economica più accreditata sul piano internazionale e consistente nel ritenere che non ci fossero alternative possibili o realmente desiderabili né all’Unione Europea né all’euro né alle politiche europee di austerità. Ora invece, dinanzi all’emergere sempre più chiaro di nodi molto ingarbugliati della politica finanziaria europea e dei disastri economico-finanziari sempre più gravi che, dal punto di vista del “sociale” e dei processi produttivi, le severe ma insensate direttive di Bruxelles continuano a provocare, molti economisti italiani cominciano a rivedere le proprie posizioni, ad essere meno dogmatici, a ridiscutere il concetto di Unione Europea, battendo più sul tasto del rilancio dell’economia e della cosiddetta crescita con l’auspicata apertura dei rigidi rubinetti finanziari della BCE e della Commissione europea a favore degli Stati più “virtuosi” o più “disciplinati”, che non su quello del rigore e della necessità di mettere completamente a posto i bilanci statali dei vari partners.  

Però, a parte i tanti pentiti dell’ultima ora che si danno da fare per dimostrare che essi in fondo anche prima qualche dubbio l’avevano sempre avuto e che le cose non si sono svolte esattamente secondo i loro schemi interpretativi, vi sono economisti che, da parecchio tempo a questa parte, hanno mostrato di non apprezzare il modo in cui è stata costruita l’Unione Europea, e di non fidarsi né dell’euro, né delle conseguenti e sempre più esasperate politiche di austerità imposte a tutti gli Stati membri. Solo per fare dei nomi tra i più prestigiosi: Giulio Sapelli, che è tra l’altro professore ordinario di storia economica presso l’università degli studi di Milano; Bruno Amoroso, italiano naturalizzato danese e allievo dell’economista di fede keynesiana Federico Caffè; Alberto Bagnai professore di politica economica a Pescara e in Francia.

Sapelli, nel corso di un’intervista rilasciata il 19 dicembre 2012 ad “Abruzzoweb” e intitolata “Andiamo incontro all’Iceberg. L’euro è una pazzia”, demoliva letteralmente la prosopopea europeistica ed euromonetaristica con argomentazioni chiare e rigorose. Quelli che seguono sono alcuni dei passaggi più significativi del suo ragionamento: «L’euro è una pazzia, non esiste nella storia dell’umanità una moneta creata prima dello Stato. Nel nostro caso, la moneta unica è affidata a meccanismi di regolazione incompiuti e di bassissima competenza tecnica. Fin quando abbiamo avuto una crescita, la debolezza dell’euro era attenuata, ma dall’arrivo della crisi e a causa delle differenze di produttività del lavoro e delle differenze delle bilance commerciali tra Paesi come la Germania in surplus commerciali e altri in deficit come Italia, Francia, Spagna, sono emersi tutti i limiti di questo esperimento mal riuscito. Non potendo più controbilanciare i limiti in un regime di cambi flessibili, come capita in tutto il mondo e come capitava all’Italia con la lira, perché bloccati nel regime di cambi fissi, ecco che ci troviamo in guai molto grossi. In definitiva, l’euro non doveva essere creato…Siamo sull’orlo del baratro, il Titanic continua ad andare contro l’iceberg. E le sterzate decisive sono state evitate. È mancato, per esempio, un regolamento bancario transatlantico, quindi euro-americano…. Ai tedeschi andava bene, gli italiani invece non se ne sono occupati, ma adesso in Germania si accorgono che un controllo bancario unificato farebbe scoprire le immense quantità di asset tossici contenute nelle banche tedesche. Secondo alcuni studi, nell’elenco delle banche più a rischio, la prima al mondo è la Deutsche Bank, laddove la statunitense J.P. Morgan è tredicesima. Con lo scoppio dei nazionalismi e in un clima molto teso, pieno di difficoltà economiche ed elettorali di grande portata, non si riesce a fare ciò che va fatto: riformare la Banca centrale europea, che si ostina a portare avanti una debolissima politica antideflattiva. E la crisi industriale è appena cominciata».

Certo, bisognerebbe riformare la BCE, ma bisognerebbe riformarla non con dei semplici correttivi o aggiustamenti bensí radicalmente, ovvero inglobandola in uno Stato europeo che le detti legge e non che si faccia da essa dettar legge. Tale Banca infatti è nata da un errore madornale originario che sconfina nella pura e semplice criminalità, vale a dire il consentire che essa nascesse come un’istituzione di diritto pubblico (e quindi con funzione pubblica) ma costituita da istituti bancari privati, detenuta da banche private (perché anche le Banche Centrali di ogni Paese membro dell’UE, pur essendo pubbliche, sono a larghissima partecipazione privata), comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all’euro. LA BCE, in sostanza, ha la struttura di una società per azioni, che come ogni società per azioni mira a massimizzare i profitti degli azionisti e non certo i benefici dei o per i cittadini, e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica.

Tale colossale società per azioni ha tutto l’interesse, in vero, a creare “debito pubblico” perché maggiore è il debito, maggiore è il profitto, e appaiono del tutto giustificati i rilievi che faceva qualche tempo fa Cristiano Magdi Allam: «Questa “fabbrica del debito” si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati il 19 luglio dal nostro Parlamento: cosí ci siamo ormai autocondannati ad essere indebitati a vita. Ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l’Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili. D’ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale.
Siamo ad un bivio epocale: salvare l’euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la “fabbrica del debito”, emessa a parità di cambio con l’euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena dritta».

         Tuttavia, benché la creazione dell’euro, per i modi in cui è avvenuta, si sia rivelata, a parte la Germania e qualche nazione nordeuropea, una iattura per gli Stati e i popoli europei, Sapelli ammonisce a non sottovalutare le conseguenze catastrofiche di una possibile uscita dall’euro, perché in effetti «uscire dall’euro sarebbe una catastrofe per le classi più basse, come gli operai e in generale chi vive con un reddito da lavoro. Forse, i commercianti riusciranno a salvarsi fin quando troveranno qualcuno disposto a comprare un prodotto pagandolo cinque volte di più del prezzo reale, ma gli altri annegheranno. Se guardiamo alla Grecia, possiamo affermare con certezza che è di fatto crollata, è come se fosse già uscita. Ecco perché per salvare il sistema va riformata innanzitutto la Banca centrale europea, cambiandola sul modello della Federal Reserve degli Usa. E poi, riformare anche il parlamento che sicuramente sconfiggerebbe la politica della signora Angela Merkel, anche se non credo si farà in tempo. Molti anni fa, purtroppo, i cambiamenti arrivavano dalle guerre. Oggi non più. Allora, si deve sperare di riuscire a cambiare senza traumi. Mi fa ridere chi oggi parla di un parlamento europeo che non conta niente. Dove sarebbe la novità? Si accorgono soltanto adesso che le leggi in parlamento vengono approvate da una commissione piena di commissari e ambasciatori non eletti? Gli Usa e l’Inghilterra lo sapevano, per questo non si fidano più di un continente ormai privo di democrazia».

E, per quanto riguarda in particolare l’Italia, come dovrebbe comportarsi, dopo le elezioni del febbraio scorso, il nuovo governo, alla luce del fallimento del governo Monti? Questi i suggerimenti dell’economista piemontese: «Dopo Monti non cambierà nulla. Certo, tutto può rivelarsi migliore di Monti, ma è necessario un governo di unità nazionale che si impegni a iniziare una politica anti-deflattiva che comprenda una piccola inflazione capace di tirarci fuori dal debito, perché il debito non è il nostro problema, ma l’unico modo che abbiamo per salvarci. E, puntando all’Europa, legarsi bene al Ppe e al Pse».

Anche sul famigerato “debito pubblico” Sapelli viene proponendo un’analisi molto diversa da quella solitamente propagandata dai media. Dopo aver premesso che le tasse patrimoniali, pur necessarie e da applicare secondo criteri di progressività, non dovrebbero sfondare livelli di moderazione per evitare che i capitali scappino via laddove l’Italia «ha un gran bisogno di capitali», egli contesta che sia giusto considerare il debito pubblico «come la peste»: «Non scherziamo. L’oligopolio finanziario mondiale non colpisce il debito pubblico, ma l’assenza di crescita. Il Giappone ha il 280 per cento di debito pubblico, la Spagna del default il 75,8 per cento. Vogliono farci credere agli spauracchi, questa è la verità». Per Sapelli, dunque, la soluzione sarebbe nella ripresa della tanto invocata seppur in vero molto problematica “crescita”, che può essere favorita soltanto tornando a fare investimenti pubblici e privati, riaprendo i rubinetti bancari per la concessione di crediti necessari in particolar modo a piccole e medie aziende e alle famiglie, e riattivando i processi produttivi ora pressoché fermi sia per tornare a creare la ricchezza nazionale sia per far ripartire il consumo senza il quale non è possibile produrre se non in misura molto modesta.

Anche il professor Bruno Amoroso prende di mira l’euro e il governo Monti. In un’intervista pubblicata in “Focus” in data 4 dicembre 2012 e intitolata “La nostra rovina: l’euro”, egli, riproponendo posizioni critiche maturate all’indomani della UE, è tornato a schierarsi nettamente contro l’Europa della moneta unica: «L’Euro è un’idea folle che sta portando povertà su larga scala. Il rischio di rivolte sociali è molto elevato, se non si cambia rotta si può finire male». Dopo aver ricordato che l’euro fu istituito non già per motivi economici ma per motivi politici o meglio per «uno scambio politico», e più esattamente «per l’insistenza dei francesi che preoccupati per la riunificazione tedesca pensavano di poterne controllare il peso e il ruolo con una moneta unica», mentre dal canto loro «i tedeschi accettarono la moneta unica come forma di scambio per ottenere il consenso francese e degli altri paesi alla loro annessione della Germania Orientale dentro il sistema dell’Unione Europa», egli ha osservato che tuttavia proprio «i nodi di questa azzardata operazione, ossia una moneta senza uno Stato o istituzioni comuni adeguate al compito, sono venuti al pettine. L’insufficienza dell’euro rispetto alle speculazioni finanziarie dalle quali ci doveva proteggere è oggi evidente. La protezione si è trasformata in trappola e la speculazione, associata al potere economico assunto dalla Germania, che non è un partner cooperativo come immaginato dai padri dell’Europa, ma un soggetto competitivo e aggressivo, sta strangolando i Paesi dell’Europa del Sud e del Mediterraneo».

In effetti, la funzione dell’euro di proteggere dalle turbolenze delle speculazioni finanziarie si è rivelata molto più teorica di quanto pensassero gli economisti che hanno lavorato alla sua introduzione. Come ha ancora osservato Amoroso: «La cosa…non poteva durare. Oggi le crisi finanziarie mettono a nudo l’insufficienza di uno strumento che è diventato un mezzo di controllo delle economie. Lo strangolamento dei Paesi del sud, non solo d’Europa, è sotto gli occhi di tutti. Quello che oggi si sta avverando è il compimento di un piano di ‘apartheid globale’ messo in opera dal 1971 con l’avvio della Globalizzazione e del quale Mario Monti in Italia e Mario Draghi in Germania sono gli esecutori testamentari per le nostre economie. Quello a cui stiamo assistendo non è il fallimento della Globalizzazione, delle politiche neoliberiste e della finanza, bensí il loro realizzarsi nella forma più piena e più bieca. Anche le guerre in corso sono espressione di questo potere per disciplinare, oltre all’Europa e agli Stati Uniti, anche le economie asiatiche, africane e latioamericane. Ma la vittoria in casa si scontra sempre di più con i fatti oggettivi e le resistenze fuori casa, ed è l’espansione di queste aree e Paesi che possono far fallire questi nuovi piani di colonizzazione delle risorse mondiali».

Sarebbe stato del tutto normale ipotizzare che l’introduzione della moneta unica non preceduta dalla costruzione di istituzioni comuni e di un governo europeo avrebbe finito per determinare squilibri favorendo qualche nazione a danno di altre. Perché tale ipotesi non sia stata presa in attenta e seria considerazione, resta a dir poco un mistero: «più che nel paradosso, siamo nel mondo dell`assurdo: l’Europa ha pensato di avere una moneta e al posto del governo ha messo una banca. Governare 27 paesi europei mediante una banca, se non è uno scherzo, è una follia. Neanche la stessa moneta sembra funzionare bene. Basti pensare che i titoli in Euro dei paesi membri non hanno lo stesso valore sui mercati esteri. Di fatto funziona come se esistesse l’Euro-italiano, l’Euro-greco, l’Euro Tedesco e via discorrendo. Questi, però, hanno prezzi diversi. Non c`è quindi il rischio di tornare alle valute nazionali, ma di fatto questo avviene oggi quando si stima il valore delle valute mentre si insiste nella retorica della moneta comune e nel togliere ai vari paesi la sovranità sulle proprie politiche economiche».

Ogni politica e scelta economiche non possono funzionare se non in un rapporto serio e responsabile al problema dell’occupazione e delle concrete condizioni sociali di vita delle popolazioni e dei cittadini. In questo senso, la soluzione più intelligente e realistica sembra essere quella legata al «modello keynesiano di monete nazionali raccordate da rapporti di cambio flessibili concordati e da un patto di solidarietà che riequilibri i Paesi con un eccesso di surplus e quelli con un deficit forte. Io concordo con questa proposta», ha osservato Amoroso pur rilevando che «però il suo presupposto è l`esistenza di un accordo tra tutti i Paesi europei e dei rispettivi governi e questo mi sembra oggi alquanto difficile. Dieci anni di euro pesano», per cui adesso bisogna trovare «il modo di regolare l’economia per riequilibrare le forze in campo. Poiché i problemi sono stati creati nella zona Euro, è dentro questa che si deve trovare una soluzione di riequilibrio, creando due Euro (nord e sud) raccordati tra loro da un un rapporto di cambio fisso e un patto di solidarietà come sopra. Se non si fa questo, il rischio di grossi conflitti sociali è elevatissimo».

Ma non è affatto questa la soluzione e la prospettiva dei burocrati e degli esperti finanziari di Bruxelles e di tutti quei politici e media europei che continuano a spacciarne come vere e indispensabili le terapie fondate sostanzialmente su prelievi fiscali e finanziari ingenti e sistematici dalle economie nazionali europee più povere o segnate da un maggior grado di criticità. Costoro, infatti, continuano ad agitare il debito pubblico dei greci, degli italiani o di altri popoli dell’Europa meridionale, come la vera causa della crisi in atto, reiterando nei loro confronti l’accusa di «essere spendaccioni e altre sciocchezze. Le soluzioni, al contrario, esistono. A meno che non si voglia arrivare al disastro che si abbatterà sui nostri ceti medi, destinati all’ulteriore impoverimento, e al peggioramento delle condizioni di chi è già povero. L’esperienza insegna che quando i ceti medi si sentono aggrediti nella loro sopravvivenza, hanno una reazione violenta e si scatenano contro gli strati sociali più deboli come gli immigrati, il barista che non emette lo scontrino, i fannulloni. Una reazione alimentata dalle misure prese dal governo che fa della lotta all’evasione la caccia ai gruppi più deboli per sollevare il polverone che permette tranquillità ai ladri e ai veri speculatori, quelli della finanza e i loro portaborse della politica, invisibili. Mario Draghi, a capo della Banca centrale europea», questo è il giudizio impietoso ma obiettivo di Amoroso, «ha un ruolo ben definito. Mario Monti in Italia segue la sua linea».

In effetti, «Mario Draghi, che non fa mai errori di calcolo, è stato messo lí, come nelle cariche precedenti che ha ricoperto al Tesoro italiano e alla Banca d’Italia, perché è un collaboratore della Goldman Sachs, una banca che ha rovinato milioni di persone. Da Draghi al premier italiano Mario Monti c’è un disegno preciso: andare a pescare nei risparmi degli italiani e impoverire il sud dell’Europa per conto di speculatori finanziari e vari gruppi di potere. Negli ultimi trent’anni hanno contribuito a privatizzare tutto. Pensare che dobbiamo convincerli a far bene è ingenuo, non lavorano per le popolazioni, ma contro. D’altronde, le politiche che Draghi sta perseguendo, ossia distribuire fondi ai suoi amici delle grandi banche invece di riattivare i flussi del credito produttivo per imprenditori e famiglie, sta lì a dimostrarlo.

Molti italiani ancora sbraitano contro l’ex premier Silvio Berlusconi. Benedicono lo stile-Monti, sobrio e concreto. In piazza si festeggiava la cacciata del primo, in realtà voluta dai mercati, senza conoscere ciò che avrebbe fatto il secondo, messo a capo del governo con uno scopo ben preciso. I veri potenti sono aiutati dai mass media nella gestione del caos politico ed economico. Federico Caffè, nel lontano 1972 in un piccolo saggio parlò di ‘strategia dell’allarmismo economico’. La crescente concentrazione finanziaria che stava nascendo negli Usa era evidente, lo stesso Caffè diceva che la concentrazione di potere sarebbe stata legittimata dall’allarmismo economico creato ad arte. Negli ultimi dieci anni i polveroni politici in Italia ci sono stati, alcuni hanno anche un fondo di verità, ma per il resto sono stati ingigantiti e sfruttati per nascondere e fare ben altro.

Appare strano che dopo le gigantesche speculazioni e gli arricchimenti illeciti a cui abbiamo assistito, nessuno sia stato indagato. Il conflitto di interessi riguarda veramente solo Berlusconi? Certo, qualche reazione, anche se isolata, c`è stata, ma è poca cosa: un giudice di Trani…, ha aperto un procedimento contro una società di rating, mentre il Tribunale di Pescara ha invece condannato per frode Mario Draghi in quanto dirigente della Goldman Sachs per l’Europa. Draghi, per la cronaca, ha patteggiato. A parte questi casi isolati, però, nessuno si è sognato e si sogna di toccare i veri responsabili di quello che accade».

Questa è la realtà. E continuare a ragionare come se invece la verità fosse altra e diversa può solo aggravare la situazione economica dei paesi in difficoltà ed accrescere dovunque la conflittualità sociale suscettibile di esplodere prima o poi in forme di violenza popolare che non potranno più essere arginate dalla martellante ed ipocrita campagna dei media contro la violenza e finalizzata a garantire la cosiddetta unità nazionale degli Stati che, a quel punto però, sarebbe unità di cittadini-schiavi e incapaci di reagire alla dittatura planetaria della finanza internazionale sempre più gonfia di interessi illeciti e di attività delittuose. 

Tali analisi sono condivise dal terzo economista, di cui qui ci si vuole occupare, ovvero il professor Alberto Bagnai che però, diversamente da Sapelli e Amoroso, propende decisamente per una uscita preparata per tempo dell’Italia dall’euro. Sulla base di alcune importanti indicazioni di importanti economisti come Krugman e De Growe, egli riteneva già molti mesi or sono che l’Italia avrebbe dovuto decidere di lasciare la moneta unica prima che fossero i mercati a imporglielo  [Il teorico (serio) del partito antieuro: “Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile, in “Il Fatto Quotidiano” del 18 giugno 2012]. Proprio per salvare l’Europa e non per distruggerla, egli diceva, occorre sbarazzarsi dell’euro. A coloro che si ostinano a ripetere che l’euro non c’entra e che tutti i nostri guai sono dovuti alla crisi dei debiti sovrani, egli ha replicato cosí: « I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano cosí. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Gli squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla moneta unica, cosa ormai riconosciuta anche dal Fmi, che hanno portato all’accumulazione di debito privato».

Ma perché debito privato, gli è stato chiesto; non è di debito pubblico che si tratta? La risposta è la seguente: «Spiego: se un paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta cosí a debiti verso l’estero, prevalentemente privati. Ma perché il resto del mondo continua a far credito? Semplice: per finanziare la vendita delle proprie merci. E’ banalmente il meccanismo in atto tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso i paesi periferici. Certo, a valle il problema è costituito dai debiti pubblici. Ma a monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie, per via della storia del too big to fail. E ora il debito è pubblico». E a chi gli ha fatto osservare che economisti come Giavazzi e Alesina abbiano rilevato che però la colpa di quel che è successo sarebbe pur sempre nostra per non aver fatto le necessarie riforme, Bagnai replica: «Forse potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, però è anche vero che nei primi anni il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, ci sottraeva domanda estera: se avessimo diminuito anche quella pubblica saremmo cresciuti ancora di meno».

Ma non è forse vero che in Germania, dove le riforme sono state fatte, va tutto bene e riesce a vendere anche in Cina? Anche a questa obiezione Bagnai risponde che «intanto non è vero, perché la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Invece è migliorata coi paesi dell’Eurozona, con noi. Questo perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, quella che oggi viene chiesta a noi: non va dimenticato, però, che la Germania per assorbirne il costo sociale fu costretta a violare per prima il Patto di stabilità, sussidiando una pletora di sottoccupati (e quindi, indirettamente, il suo sistema industriale). Ma ora a noi chiede austerità, mentre occorrerebbero politiche di rilancio dell’economia, come riconosce anche l’International Labour Office delle Nazioni Unite».

Ma come sarebbe a dire che le riforme in Germania si sarebbero tradotte alla fine in una compressione dei salari, visto che l’operaio tedesco guadagna il doppio dell’operaio italiano? «In Germania», è la risposta, «non c’è solo l’operaio strutturato e non c’è solo la Wolkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job… Risultato: dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5%». Ed è del tutto evidente, per tutto ciò che è stato detto sopra, che l’euro favorisce solo o principalmente la Germania e i paesi del nord-Europa che anzi resteranno strenui paladini della moneta unica sino a che le regole monetarie non cambino nei rapporti complessivi tra gli Stati europei. Per cui, per quanto doloroso, sarà inevitabile che l’Italia esca dall’euro e sarebbe preferibile gestire questo processo anziché subirlo. Sarebbe un grave errore identificare l’Europa con l’euro perché l’euro «è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà anche dopo».

A chi, come per esempio Pier Luigi Bersani, teme che questa prospettiva sia catastrofica e che, con il ritorno alla lira e la sua svalutazione, la nostra antica moneta nazionale sarebbe cartastraccia, Bagnai ancora una volta risponde: «Si fa molto terrorismo, ma di fatto nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Cosí è successo in Argentina, cosí successe anche all’Italia quando uscí dallo Sme nel 1992. Nel caso attuale, la svalutazione sarebbe attorno al 20%», anche se questo non implica necessariamente che, nel caso in cui uscissimo dall’euro, ci troveremmo con un 20% in più di inflazione, dal momento che «tutti gli studi negano ci sia un rapporto diretto tra svalutazione e inflazione: sempre a stare agli studi scientifici, è lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti (non certo 20!)…è bene ricordare che nel ’92, dopo una svalutazione del 20%, l’inflazione scese dal 5 al 4%».

Purtroppo, ha dichiarato Bagnai dopo aver visto all’opera per alcuni mesi il governo Monti, questo governo compie «delle scelte tecnicamente sbagliate, che mettono in visibile difficoltà il paese, applicando a noi le ricette che non hanno funzionato in America Latina negli anni ’80 e ’90», là dove il PD è complice diretto di questi errori benché ipocritamente dica di volersi battere per introdurre elementi di maggiore equità sociale nelle leggi del governo: «La fiducia nel mercato di certa sinistra è commovente: nessuno sfrenato pensatore liberale e liberista ne ha altrettanta. Però quando la sinistra aderisce a politiche di forte destra, alla fine succede solo una cosa: vince la destra». E infatti, proprio per evitare che vincesse la destra finanziaria e burocratica della Unione Europea, il popolo italiano, alle ultime elezioni politiche del 2013 ha votato soprattutto a favore del Movimento 5Stelle.

Ma, se gli economisti che sono stati passati in rassegna non sono “allineati”, nel senso che essi sono venuti elaborando delle diagnosi molto più problematiche e dubbiose di quelle sbandierate all’insegna di un apparente ottimismo dagli apologeti del sistema europeo e della sua moneta unica, va notato che anche prima dell’inizio degli anni 2000 non erano mancati economisti che, senza essere profeti, avevano saputo vedere i pericoli sottostanti alla decisione politica dei governi, non adeguatamente sottoposta al vaglio pubblico dei cittadini, di costruire una Unione Europea, con la sua Banca Centrale e la sua moneta unica, senza che essa fosse preceduta da un vero e proprio Stato europeo dotato dei pesi e dei contrappesi di cui ogni Stato democratico e parlamentare deve poter disporre.

Guido Carli aveva detto: «Il perseguimento dell’unione monetaria con forte anticipo sull’integrazione delle economie può danneggiare alcune di esse e non consente una distribuzione fra i paesi membri dei vantaggi e degli svantaggi connessi con il processo di unificazione. L’integrazione riguarda i fattori produttivi, le istituzioni in cui tali fattori sono organizzati, le norme che ne regolano e ne promuovono la circolazione, i prelievi fiscali e previdenziali, i trasferimenti di reddito compensativi. Senza l’integrazione delle economie, la rinuncia dei paesi membri all’uso autonomo del tasso di cambio e degli altri strumenti di politica monetaria può danneggiare alcuni di essi» (Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, 1971).

Il noto economista del Massachusetts Institute of Technology di Boston, Rudiger Dornbusch, osservava: «La critica più seria all’Unione monetaria è che, abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio, trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi (…) Diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia», e poi: «Una volta entrata, l’Italia, con una valuta sopravvalutata , si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira» (Foreign Affairs, 1996), mentre il liberista Martin Feldstein, professore ad Harvard, pronosticava realisticamente che «invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa»,  non senza notare che «una caratteristica particolarmente critica dell’Unione monetaria europea è che non c’è alcun modo legittimo per i paesi membri di ritirarsi: l’esperienza americana durante la Guerra di secessione del Sud fornisce alcune lezioni sui pericoli di un trattato che non offre via d’uscita. Le aspirazioni francesi all’uguaglianza e quelle tedesche all’egemonia non sono compatibili: gli effetti economici avversi di una moneta unica controbilancerebbero abbondantemente qualsiasi guadagno che si otterrebbe dalla facilitazione del commercio» (Foreign Affairs, 1997).

D’altra parte, Dominick Salvatore, economista della Fordham University di New York, rilevava che «muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’Unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale e l’atteggiamento della Bce, che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri» (American economic review, 1997). E addirittura profetico era il giudizio di Paul Krugman, professore a Princeton, premio Nobel per l’economia: «l’Unione monetaria», diceva, «non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania, per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro» (Fortune, 1998).

Ma, fra i critici più lungimiranti dell’Unione Europea e della moneta unica, va incluso anche quel Bettino Craxi, che per quanto politicamente e umanamente sfortunato, aveva intuito, come risulta da un’intervista del 1997, che «si presenta l’Europa come una sorta di paradiso terrestre, ma per noi nella migliore delle ipotesi sarà un limbo e nella peggiore un inferno. Bisogna riflettere su ciò che si sta facendo: la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht». Proprio cosí: bisognerebbe rinegoziare, quanto meno, non solo i parametri di Maastricht ma anche il trattato di Lisbona in vigore dal 2009 e l’intera costruzione europea.

Mattia Lanternino Scolopio

Il popolo greco e noi

Circa due settimane or sono un noto accademico italiano descriveva la crisi economica della Grecia definendola senza mezzi termini come una vera e propria “crisi umanitaria” ed esprimendo giustamente un severo giudizio sull’indifferenza europea alle sofferenze del popolo greco (E. Galli della Loggia, La Grecia allo stremo in un’Europa indifferente, in “Corriere della Sera” del 2 febbraio 2013). Egli non mancava di sottolineare che quella crisi era stata determinata in notevole misura dall’irresponsabilità della classe dirigente greca: «per la corruzione, gli sperperi, l’evasione fiscale, l’inefficienza dello Stato, il clientelismo, che essa ha favorito e di cui ha goduto», benché gran parte della popolazione ne fosse stata complice traendone dei vantaggi. Ma subito dopo concentrava la sua attenzione sullo stato attuale della popolazione greca e scriveva: «questa popolazione sta precipitando in uno stato di disagio, spesso di vera e propria miseria, che sembra riportarci drammaticamente indietro nel tempo. Il 50 per cento dei cittadini greci vive sulla soglia della povertà o al di sotto di essa. Si calcola che 9 greci su 10 abbiano ormai cancellato le spese per il vestiario e le calzature». Il prezzo del combustibile, cosí continuava la sua descrizione, è salito alle stelle con la conseguenza che moltissimi impianti di riscaldamento non possono più essere accesi, i generi alimentari scarseggiano e possono essere acquistati a prezzi altissimi, l’acquisto del latte per i bambini è sempre più problematico e non è un caso che di tutti i paesi dell’Ocse la Grecia sia al primo posto per quanto riguarda il numero di bambini sottopeso, i greci infine rischiano letteralmente di morire a causa di tagli inimmaginabili e assurdi praticati sul sistema sanitario.

Tutto questo succede non «in una remota contrada dell’Africa o dell’Asia» ma «nella nostra cara Unione europea». Ed è qui che l’accademico citato lanciava il suo appassionato e sdegnato j’accuse: «ma che razza di unione è quella i cui membri, in gran parte, assistono nella più totale indifferenza alla sorte sciagurata che sta toccando ad un’altra e sia pur minore parte? Capisco il fiscal compact, infatti, la troika, e tutto il resto, capisco gli strettissimi vincoli che Bruxelles ha imposto al bilancio greco per tenerlo in carreggiata, ma è possibile che l’Europa cristiana e socialdemocratica — compassionevole e solidale come si conviene a chi si dice tale — che l’Europa cristiana e socialdemocratica i cui rosei e ben curati volti, le cui eleganti flanelle e i cui inappuntabili gessati ci allietano ogni sera alla Tv in presa diretta da qualche Commissione o da qualche Eurogruppo, non abbia da dire (e fare) nulla? Chessò: lanciare una campagna di raccolta fondi tra i cittadini dell’Unione, un invito alle organizzazioni umanitarie, alle Croci Rosse del continente perché mandino aiuti ad Atene, decidere una decurtazione del dieci per cento degli stipendi degli alti euroburocrati della durata di tre mesi per acquistare un po’ di latte, insomma qualcosa? Possibile che centinaia di milioni di europei gonfi di cibo assistano imperturbabili allo spettacolo di pochi milioni di greci sull’orlo della fame? Lo ripeto: che razza di Unione europea è mai questa? Ed è ammissibile che a porre un tale interrogativo debba essere un giornale, solo un giornale?» (Ivi).

E’ una protesta sacrosanta, giustissima, doverosa. E’ grave che l’Europa cristiana e socialdemocratica cui si fa riferimento non avverta la necessità di mobilitarsi concretamente, in base a princípi di fraternità e solidarietà, a favore del popolo greco, anche se proprio tale immobilismo etico e politico denota forse un evidente deficit di fede cristiana e di sensibilità socialdemocratica e quindi un’esistenza puramente nominale di un’Europa cristiana e probabilmente nominale di un’Europa socialdemocratica. E non è certo ammissibile che sia solo un giornale, quello su cui scrive Galli della Loggia, a porre la domanda:  “che razza di Unione europea è mai questa?”.

Solo che la domanda non solo è retorica in sé ma è originata da un pensare e da un sentire puramente retorici, ovvero piuttosto deboli sotto il profilo logico e storico-politico, dal momento che, come si è visto, nonostante il grande slancio solidaristico, Galli della Loggia dice comunque di capire «il fiscal compact, la troika, e tutto il resto», ivi compresi «gli strettissimi vincoli che Bruxelles ha imposto al bilancio greco per tenerlo in carreggiata», vale a dire tutto quello che in realtà costituisce la principale causa della condizione di disgrazia e di miseria in cui è precipitato il popolo greco.

Bisogna certo aiutare chi è in difficoltà ma non si può aiutarlo solo pietisticamente bensí sforzandosi di sradicare le cause reali che hanno prodotto il suo stato di miseria e di asservimento. Sí, perché un popolo è certamente dissennato se spende e spande, se sperpera la sua ricchezza e i suoi beni, ma in nessun caso e per nessun motivo giuridico, economico, finanziario e politico, è lecito concedere che esso possa essere condannato nella sua interezza alla miseria, alla fame, al deperimento fisico-organico dei suoi membri, alla perdita della sua sovranità e della sua dignità: sia perché in realtà non è mai tutto un popolo che attua pratiche politiche, economiche e sociali dissipatrici e autodistruttive, ma solo piccoli gruppi élitari ai quali soltanto, per quanto eletti in rappresentanza di interessi sociali più diffusi, bisognerebbe chiedere conto del loro operato e comminare eventualmente pene adeguate, sia perché non è logicamente, moralmente e giuridicamente concepibile, se logica etica e diritto devono essere espressione di razionalità, che i criteri di calcolo, adottati da determinate oligarchie finanziarie internazionali per quantificare e fissare l’ammontare del debito pubblico di un popolo, possano essere cosí discrezionali e arbitrari da provocare addirittura l’inizio di una crisi umanitaria ancora più grave della precedente crisi economica e, per cosí dire, la progressiva decimazione di un popolo a cominciare dai suoi elementi più deboli.

Ora, se uno (come Galli della Loggia) accetta l’Europa dittatoriale della finanza e degli istituti bancari internazionali, l’Europa feticisticamente attaccata alla moneta unica o euro, l’Europa formalmente comunitaria ma sostanzialmente egoistica degli Stati nazionali, ha veramente senso sdegnarsi per il fatto che oggi in Europa non si parli della Grecia allo stremo delle forze quasi a volerla rimuovere dalla coscienza politica europea? Se non ci si rende conto che delle oscure ma concrete potenze sovranazionali stanno tramando sempre più spregiudicatamente contro la libertà, il benessere e la sovranità di interi popoli, pur forse colpevoli di non aver saputo vigilare per tempo sull’uso e sull’amministrazione del denaro pubblico e su scelte governative reiteratamente funzionali al soddisfacimento di interessi non generali ma particolaristici, l’appello ad una mobilitazione cristiana e cattolica non rischia di trasformarsi in un appello troppo genericamente paternalistico, troppo sterilmente moralistico, troppo astrattamente umanitaristico, per poter incidere non tanto sulla sfera emozionale e sentimentale dei singoli o di ristretti gruppi di individui quanto proprio sui meccanismi oggettivi dei processi di espropriazione di massa oggi in atto, in misura sia pure diversa, in tutti gli Stati europei?

Certo che, nel frattempo, bisogna aiutare i greci a non morire, ma pensando al tempo stesso non solo ad assisterli bensí anche a liberarli (liberando contemporaneamente e preventivamente tanti altri popoli che potrebbero fare la stessa fine) dalla violenza di mercanti e banchieri internazionali senza scrupoli con annesse legioni di cortigiani e sostenitori specializzati. La fede cristiana produce necessariamente opere di carità ma le opere di carità sono efficaci e realmente gradite al Signore solo se compiute in uno spirito di radicale verità e quindi di radicale smascheramento del male e per fini sostanziali e non meramente propagandistici di giustizia. L’usura è immorale, è un reato, è un delitto? Se lo è, anche l’usura praticata da gruppi finanziari, banche, multinazionali e quant’altro, lo è, e non può né deve essere consentita. Questo il cristiano-cattolico ancor più del socialdemocratico non può non sapere e non può disattendere.

Sul web trovavo qualche giorno fa un articolo dal titolo significativo: L’Europa della vergogna nasconde la crisi umanitaria in Grecia. E’ forse utile citarne qualche brano: «L’Europa tace. Non vuole assolutamente riconoscere la crisi umanitaria greca causata dalle ricette che ha imposto ad Atene, come ad altri Paesi e perciò fa di tutto perché su questa storica vergogna cali il silenzio: i media in gran parte in mano a quei gruppi di interessi che hanno creato questa situazione si adeguano e danno versione ambigue ed edulcorate della situazione.

In Italia dove si vede chiaramente il risultato dell’applicazione delle medesime ricette imposte ad Atene, proprio non se ne parla, forse per non turbare la campagna elettorale a colpi di bugie e cagnetti di Scelta civica, un nome che grida vendetta già in sé. Anzi l’esecutore europeo per l’Italia, Monti, accusa Grillo di trascinare l’Italia verso la Grecia e fa finta di non vedere i guai che ha causato, compreso il calo ufficiale del Pil: un -2,7% nel 2012». A sua volta Grillo, che, benché fortemente limitato sul piano etico-culturale, ha saputo dare voce alle preoccupazioni e alle giuste proteste di buona parte del popolo italiano contro un’Europa economica e finanziaria che viene sempre più manifestandosi come inedito, terribile e vorace Leviatano mai pago di divorare le risorse economiche di individui e popoli, replica che è proprio un uomo come Monti ad aver già cominciato a trascinare l’Italia verso la Grecia, posto che l’attuale destino di stenti di questa grande e civile nazione resti comunque intollerabile, per mezzo di “manovre” tanto rigide ed irrazionali quanto dannose ai fini di una ripresa dello sviluppo economico e dell’occupazione giovanile nel nostro Paese.

La verità, per quanto non ammessa o non riconosciuta da soggetti come Monti e tutti i cosiddetti “bocconiani” che a lui fanno capo o si riconoscono sostanzialmente nelle sue posizioni, è che questi economisti di molto incerto valore scientifico coltivano l’intimo ed inconfessato convincimento che un punto di vista economico oggettivo e rigoroso possa anche giustificare il fatto che milioni e milioni di persone possano essere tartassate e spremuti a dovere da riforme economiche e fiscali particolarmente severe e pressoché insostenibili, quali quelle che già si sono tradotte e continuano a tradursi inesorabilmente nello smantellamento dello stato sociale e nella precarietà generalizzata, al fine di favorire il benessere senza limiti di determinate minoranze. Ma a rendere più pericolosa l’azione di questi signori, molto più attenti alle teorie economiche che non all’economia e alla vita reali delle persone, è l’insperato appoggio che, sia pure tra distinguo e precisazioni non sempre chiare e comprensibili, essi stanno ricevendo proprio alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 da parte del leader del partito democratico italiano.

Bersani, infatti, riferendosi polemicamente alle proposte di Grillo, ha dichiarato quanto segue: «Io temo che il disagio possa portare al disastro. Su di lui si sta convogliando il voto di quanti sentono disagio di fronte alla politica», ma le proposte di Grillo che «dice di voler uscire fuori dall’euro, di non voler pagare il debito pubblico, di lavorare venti ore alla settimana, non portano da nessuna parte» (in “Il Messaggero” del 22 febbraio 2013). Non portano da nessuna parte come se le sue proposte invece, intellegibili solo per pochi, portassero da qualche parte! E poi, rivolgendosi a esponenti e militanti del Movimento 5Stelle, li ha invitati a preoccuparsi della democrazia, ivi compresa quella interna al loro movimento, definito sprezzantemente ora antidemocratico, ora fascista, ora populista, ora velleitario e privo di esperienza politica, quasi che lui, con quella caricatura di “primarie” effettuate mesi or sono in casa PD e consentite proprio allo scopo di poterle utilizzare poi strumentalmente e demagogicamente, costituisse un inequivocabile e degnissimo esempio di spirito democratico!

Dall’alto della sua molto presunta sapienza democratica, egli ha infatti parlato in questi termini: «date un occhio alla democrazia, perchè c’è morta la gente per difenderla; se non c’è democrazia è un guaio e lí dentro non c’è un sistema democratico», dove però non si può non osservare che, pur volendo concedere in via ipotetica che nel movimento nascente di Grillo la democrazia non sia ancora perfettamente praticata, la gente, a dire il vero, è morta anche per difendere tante conquiste civili, economiche e sociali, senza cui non si dà vera democrazia, che proprio il PD, in virtù della sua ancora in atto e ambigua “modernizzazione”, ha contribuito vergognosamente nell’ultimo quindicennio ad annullare o a depotenziare.

Né appare più convincente Bersani quando afferma che il problema della democrazia interna non possa essere risolto in un rapporto diretto tra Grillo e la piazza: «La piazza è ambivalente. La democrazia è il confronto diretto e aver deviato da questo meccanismo, con Berlusconi che è inamovibile, ci ha portato nel baratro. Per questo voglio fare una legge sui partiti e su questo non pensiate che il Pd molli di un millimetro» (ivi). Frasi che, a prescindere dalla consueta enfasi demagogica e dalla gratuità del paragone di Berlusconi con Grillo, si dicono quando la piazza viene stabilmente occupata dagli avversari e se ne resta sempre più fuori!

Noi cattolici ci dobbiamo svegliare e, come testimoni della fede in Cristo e quindi anche in una società fondata sulla condivisione dei beni morali e materiali, non possiamo più dare il nostro sostegno a forze e a soggetti politici che si dichiarano sempre dalla parte del popolo proponendo però politiche ingannevoli e vessatorie finalizzate di fatto al potenziamento del grande capitale finanziario e al soddisfacimento di interessi privati sempre più ristretti ed esclusivi. Certo, domani il movimento di Grillo potrebbe deludere, ma oggi, anche per la ventata di entusiasmo e di speranza che è stato capace di portare nelle masse giovanili e in categorie più attempate di persone, è l’unica alternativa seria all’ineluttabile declino del nostro Paese e della stessa Europa. Vale forse la pena di fidarsi, sempre pronti domani a criticarne errori e prevaricazioni e a cercare, in Cristo, nuove e più genuine vie politiche di liberazione.

I cattolici si guardino da banchieri e mercanti!

Citazione

I «poteri forti» sarebbero il frutto di un’invenzione ossessiva che attraversa i secoli, almeno a partire dalla rivoluzione francese, e giunge sino a noi. Quindi, non è recentissima l’idea che “complotti” e “burattinai” decidano il destino di tutti gli altri mortali. Questo sosteneva Vittorio Messori in un’intervista rilasciata poco più di un anno fa («Non credono al Diavolo ma credono ai diavoli. Ridicolo!», Intervista di Alberto Di Majo a Vittorio Messori su “Il Tempo” del 21 novembre 2011): «La gente», egli diceva, «non crede più al diavolo ma ai diavoli. L`ossessione complottista, la ricerca ossessiva di chi sta dietro è un modo per compensare il bisogno istintivo di attribuire il male a qualcuno». L’ossessione dei “poteri forti” riempie sempre quel vuoto che si crea tutte le volte che una società viene coinvolta da una crisi strutturale particolarmente dura e devastante di cui non si riesce ad individuare perfettamente le cause: «E’ dalla caduta della societas cristiana che si va alla ricerca dei responsabili del male. Ovviamente vengono identificati i grandi colpevoli ma anche i piccoli, una sottospecie di colpevoli, come i massoni, i banchieri o l’Opus Dei». L’intellettuale cattolico si mostrava pertanto certo del fatto che quella dei “poteri forti” sarebbe una semplice fantasia popolare, una leggenda con cui si cerca di spiegare tutto quello che contrasta sistematicamente con i desideri e con i bisogni della gente e della società.

Ma che ci siano luoghi, salotti, abitazioni residenziali lussuose e appartate, in cui alcuni potenti del mondo si riuniscono periodicamente e segretamente per confabulare, ordire piani o tramare per il perseguimento di precisi interessi politici e finanziari, è vero o non è vero? Secondo Messori, anche questo è solo un “mito”, nel senso che i «salotti sono finiti negli anni ‘20-‘30. La storia è sempre la stessa: c’è un bisogno di oscuro, di diabolico» (Ivi). La Chiesa in generale probabilmente, come sostiene Messori, non è un “potere forte”, ma ciò significa forse che non possano esservi cardinali ed alti prelati che gravitano attorno a quei clubs esclusivi di rilievo nazionale e internazionale in cui si esprimono giudizi e si prendono spesso decisioni molto importanti per il destino stesso dei popoli? Ma, al di là del possibile coinvolgimento di uomini di Chiesa nei cosiddetti “poteri forti”, questi poteri esistono o non esistono oggettivamente?

Per esempio, dietro il governo Monti, se non la massoneria e il Vaticano, non ci sono quanto meno i grandi banchieri, gli attori della finanza che conta? La risposta è stupefacente: «Sa che le dico, magari fosse cosí. Questa crisi economica è stata certamente provocata dalle banche e da una finanza allegra o, direi meglio, irresponsabile. Allora a questo punto mi augurerei che dietro a Monti e ai ministri ci fossero quella grande finanza e quelle banche che hanno perso moltissimo in questi mesi. Se fosse vero, risolvendo la crisi per loro ne avremmo vantaggi anche noi» (Ivi).

Messori evidentemente non si rende conto di quello che dice: pensa che il punto decisivo di risoluzione della crisi siano ancora, malgrado tutto, la grande finanza e le banche, ovvero il grande capitalismo finanziario! Messori dimentica tra l’altro che la Chiesa cattolica, almeno sino all’età moderna, ha sempre denunciato l’usura, fondamento del capitalismo e degli istituti finanziari contemporanei, come pratica peccaminosa e peccaminosa non in quanto prestito a un tasso troppo elevato di interesse ma già in quanto prestito ad un interesse sia pure minimo. Oggi anche la Chiesa ha mitigato il suo giudizio sull’usura praticata da banchieri e mercanti di varia stazza, ma essa ovviamente non può e non potrà mai prescindere dalle inequivocabili condanne evangeliche e paoline dell’accumulo di ricchezze.

Quasi tutti i Padri della Chiesa e molti santi hanno giudicato illecito e immorale qualsiasi prestito ad interesse ritenendo che, per chi può, il prestito ai bisognosi sia nient’altro che un dovere evangelico. Il precetto evangelico è infatti: “prestate senza sperare di ricevere” (Lc 6, 35), il cui scopo tuttavia non sta tanto nel vietare di esigere un interesse proporzionato alle reali possibilità economiche di chi riceve quanto quello di stimolare la disinteressata spontaneità nel dare. Gesù non intendeva dire che il denaro non debba fruttare o che non ci si debba preoccupare di ricavarne degli interessi (si vede la parabola dei talenti) ma che esso debba essere prestato al bisognoso non per rovinarlo con interessi che non potrà pagare ma per aiutarlo a superare le sue difficoltà applicando interessi che sarà in grado di restituire con la somma ricevuta.

La Chiesa viene mitigando storicamente il suo giudizio sull’usura appunto perché essa viene approfondendo e acquisendo nel tempo, anche attraverso le sollecitazioni critiche della imperfetta ma importante riflessione calvinista sui concetti di usura e usuraio, il più profondo significato della lezione evangelica. E tuttavia, a parte la parentesi in vero abbastanza prolungata del “mecenatismo” pontificio (allorché i papi nel periodo rinascimentale non esitavano a farsi prestare denaro e a farsi quindi finanziare dai grandi mercanti usurai dell’epoca), durante la quale la condanna ecclesiastica e pontificia su usura e usurai venne non poco affievolendosi, non c’è dubbio che la Chiesa su tale tematica, preoccupandosi di tutelare più il povero o comunque chiunque fosse costretto a chiedere un prestito che non i ricchi possidenti che lo concedessero, avrebbe sempre mantenuto una posizione molto chiara e precisa: ancora nel 1745, con la enciclica “Vix pervenit”, Benedetto XIV ribadiva la condanna morale dell’usura, e da allora ad oggi, nonostante talune aperture o parziali aggiornamenti suggeriti dalla estrema complessità del mondo economico e finanziario contemporaneo, non si può certo dire che il magistero della Chiesa sia venuto mutando dal punto di vista rigorosamente dottrinario.

Oggi come ieri, per la Chiesa non è lecito né lasciare morire di fame il povero o il non abbiente (o lo stesso ricco che si trovi in un momento di grave difficoltà) né pretendere che l’uno e l’altro possano chiedere e ottenere un aiuto finanziario solo a condizione di assumersi l’onere di restituire il denaro ricevuto con l’aggiunta di interessi assolutamente insostenibili. Ecco perché non può non destare sorpresa e sconcerto che oggi una buona parte del mondo cattolico e della gerarchia ecclesiastica sia tentata di continuare a sostenere con un certo entusiasmo il governo di Mario Monti anche per la prossima legislatura. Possibile, è la domanda doverosa che occorre farsi, che l’autorevole esponente di clubs politico-finanziari cosí esclusivi quali la Trilateral Commission o il Gruppo Bilderberg, e influente consulente di potenti istituti bancari e compagnie multinazionali quali la Goldmann-Sachs e Coca-Cola Company, ispiri a tante anime dell’universo cattolico ancora più fiducia di quanta ne ispirasse il ricchissimo Silvio Berlusconi che, essendo iscritto alla più modesta Loggia massonica P2, aveva indubbiamente credenziali meno importanti di quelle di cui dispone l’accademico bocconiano? Possibile cioè che ricchi e potenti siano spesso percepiti ancora oggi dalla Chiesa come soggetti degni di fiducia e meritevoli di essere sostenuti in quanto candidati a ricoprire le più alte cariche di governo?

I cattolici “progressisti” delle Acli, i cattolici di “Comunione e Liberazione”, molti ex democristiani dell’Azione Cattolica, per non parlare della Comunità di Sant’Egidio del ministro Riccardi, e di importanti organi cattolici di stampa quali L’Osservatore Romano, Avvenire, persino Famiglia Cristiana, di solito più attento alle questioni economiche e sociali, che si sono praticamente allineati a giornali laici o laicisti e soprattutto sostenuti dal grande capitale finanziario come “Corriere della Sera”, “La Repubblica”, “La Stampa”: tutti hanno dato e sembra che vogliano continuare a dare un convinto sostegno a Monti e al suo possibile futuro governo. Poi, certo, ci sono anche i tradizionalisti cattolici, quelli che secondo un diffuso luogo comune sarebbero più vicini allo spirito del vangelo e alla vera e grande tradizione della Chiesa, ma costoro scuotono il capo solo temendo che il cattolico Monti sia in realtà un massone; per il resto se ne stanno zitti, completamente chiusi o indifferenti ai drammi del mondo e della famiglia umana: per loro è come se a contare fosse solo Cristo a prescindere dalle tragedie dell’umanità e dalle sue incombenti gravissime necessità di ordine materiale e spirituale. Il loro Cristo è esclusivamente il Cristo della sana ortodossia cattolica, della solenne liturgia canonica, della intransigente condanna della modernità, come se Cristo ancora oggi non operasse per salvare proprio la mondanità e la modernità dalle sue perversioni o degenerazioni.

Sta di fatto che il governo dei banchieri, imposto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale Europea oltre che dai mercati internazionali dominati dalle più potenti multinazionali, e pur avendo sin qui prodotto solo un peggioramento delle complessive condizioni economiche e sociali della nazione, continua ad essere molto gradito, sia pure tra qualche dubbio e perplessità, a molti cattolici ivi comprese le gerarchie ecclesiastiche: segno che il giudizio, sopra riportato, di Vittorio Messori è fondamentalmente condiviso dalla comunità cattolica. Eppure, per la parte migliore della sua stessa storia oltre che per un’immutabile esigenza di rigorosa fedeltà a Cristo, la Chiesa dovrebbe guardarsi dal sostenere esattori delle tasse, mercanti, banchieri.

Si dirà che Monti non è un banchiere in senso proprio, non è cioè un capitalista della finanza o proprietario di una banca, come lo è per esempio Mario Draghi (uno dei proprietari della Banca d’Italia), altro personaggio oggi osannato anche in sede politica. Tuttavia, egli, come è stato scritto, è «un tecnico dell’economia che gestisce i capitali finanziari ed è strettamente legato ai principali e spesso occulti centri mondiali della finanza e delle multinazionali, come testimoniano i suoi ruoli di dirigenza negli organismi politico-finanziari sopra indicati. E’ perciò un uomo del grande capitale, che senz’altro condivide il progetto di un unico governo mondiale dell’economia, preposto a favorire, se attuato, l’espansione totale e pressoché dirigistica del capitalismo dei consumi e del capitalismo finanziario a tutto il globo, cioè il trionfo completo della globalizzazione, con una conseguente accelerazione della tendenza alla massificazione completa dell’umanità, alla distruzione sistematica di tutte le differenze, le tradizioni culturali e le identità collettive, all’omologazione di uomini e popoli in tutti i posti della terra, allo sradicamento infine da ogni appartenenza che non sia quella del denaro e della merce. Naturalmente si tratta di un piano folle, perché si bassa sull’implicita convinzione che vi possa essere una crescita infinita in un mondo finito, e questo, con buona pace del grande capitale e dei suoi servi stolti, non è possibile».

E’ consapevole la Chiesa dei pericoli che essa contribuirebbe a far correre non solo al popolo italiano ma all’intera umanità qualora perseverasse nel diabolico errore, magari anche semplicemente con un atteggiamento ambiguo e ipocrita, di sostenere un altro esecutivo guidato da Monti? Com’è possibile che la Chiesa non abbia ancora compreso perfettamente che per soggetti umani come Monti solo l’economia o meglio una certa economia, e anzi la finanza più dell’economia, ha importanza? Uno che abbia la mentalità e la formazione prettamente teoricistica ed intellettualistica di Monti non potrà mai ritenere che la società possa funzionare e sia governabile attraverso un drastico ridimensionamento o una radicale regolamentazione di banche, borse, mercati, agenzie di rating e via dicendo. Uno come lui è troppo innamorato delle proprie teorie scientifiche per poter capire che la realtà è un’altra cosa e non si lascia comprimere in esse.

Uno come lui, inoltre, potrà sentirsi soggettivamente cattolico ma non potrà mai essere oggettivamente cattolico, giacché nel suo mondo la parola cristiana può solo assolvere il ruolo subalterno di assistere socialmente i “perdenti” del sistema, ovvero barboni, tossicomani, handicappati e disabili di ogni genere, disoccupati, vecchi improduttivi, extracomunitari senza lavoro. La Chiesa perciò si allontana dal suo stesso magistero se, lasciandosi tentare da calcoli di natura politica più che evangelica ed apostolica, tarda a capire che Monti, sia pure con i suoi modi apparentemente educati e gentili di comunicare e con quell’aria di persona dedita al bene esclusivo della propria patria, in realtà rappresenta Mammona.

Certo, c’è un problema: che, se la Chiesa comincia a predicare seriamente e con toni appropriati contro Mammona, rischia di vedersi togliere il microfono molto più bruscamente di come le viene tolto quando parla di bioetica, di eutanasia, aborto, divorzio, omosessualità. Ma è un rischio che rientra completamente nella sua missione che non consiste nell’annunciare cose “politicamente corrette” ma, il più delle volte, cose “politicamente scorrette”, perché le cose giuste e sante di Dio turbano profondamente uomini e donne che non abbiano fatto o non facciano esperienza spirituale di quella tagliente lama che è la Parola di Dio.

Il mondo, il mondo di destra, di sinistra o di centro, è disposto non solo ad accettare ma persino a valorizzare la Chiesa se dice cose gradevoli o non troppo traumatiche, come quando afferma in modo pseudosalomonico che bisogna stare vicini ai poveri ma al tempo stesso non bisogna invidiare i ricchi, che bisogna perseguire la giustizia sociale ma in forme che non spiacciano alla giustizia divina, che Dio è dalla parte degli oppressi pur essendo misericordioso verso tutti. La Chiesa invece è tenuta a far capire bene i suoi valori, a comunicare non retoricamente ma logicamente il significato e il peso specifico delle sue idealità e dei suoi insegnamenti. La Chiesa non deve preoccuparsi di essere tenuta in considerazione dal mondo e non deve temere di poter essere ricacciata nelle catacombe qualora si discosti eccessivamente da certe logiche mondane, tra cui certamente quelle che si pongono al servizio della sacralità del denaro, dell’individualismo libertario a sfondo edonistico o di un egualitarismo volgare e di maniera.

La Chiesa è luce del mondo se la sua luce abbaglia le consolidate certezze del mondo sino a farle vacillare, ed è sale della terra se il suo sale, e dunque anche il suo stesso modo e la sua volontà di comunicare, rende realmente appetibili ed entusiasmanti le prospettive della fede. Per essere “sale della terra” i cattolici non possono e non devono essere culturalmente subalterni. Comincino dunque a non lasciarsi sedurre dai seguaci di Mammona e dell’usura. Un allarme in tal senso era già stato dato tredici anni or sono dal cardinale Joseph Ratzinger: «C’è qualcuno che sta progettando un sistema rigido e inattaccabile per governare lo sviluppo del mondo. Organismi internazionali dall’indiscutibile autorità (Organizzazione Mondiale della Sanità, Banca Mondiale, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, UNICEF e altri) hanno messo a punto un nuovo paradigma che misura il valore delle persone in anni di aspettativa di vita, invalidità, morbilità al fine di valutare le priorità e mettere in atto, oppure no, i piani di aiuto in tutto il mondo. Applicando questi “nuovi criteri” si scopre che tutto diventa una questione di costo-rischio-beneficio. Perciò, chi è povero e malato riceverà meno aiuti; chi è ricco e sano riceverà maggiori cure. Per questo motivo, a questo punto dello sviluppo della nuova immagine di un mondo nuovo, il cristiano – non solo lui, ma comunque lui prima di altri – ha il dovere di protestare e di denunciare coraggiosamente la “grande trappola” per i poveri del mondo e la nuova schiavitù al servizio degli imperativi della mondializzazione e della globalizzazione» (“Presentazione” al volume di Michel Schooyans, Nuovo disordine mondiale, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000).

Già, perché la globalizzazione voluta dai “poteri forti” (che esistono realmente, con buona pace di Messori, e che tuttavia non potrebbero imporre i propri disegni se i popoli si ribellassero energicamente) produce modelli sociali esattamente antitetici a quelli che possono ricavarsi dalle parole di Gesù : «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». (Lc, 6, 20-21). E: «Guai a voi, ricchi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6, 24-25), dove è evidente che povertà e ricchezza si configurano come un problema di fede in quanto Gesù non volle vivere né nell’indigenza né tanto meno nella ricchezza ma in una condizione di povertà che è una condizione di vita in cui non si vive in modo agiato ma in cui si può vivere in modo dignitoso e che è diversa dalla condizione estrema dell’indigenza in cui si muore di stenti e spesso di disperazione.

Con Gesù non si scherza: chi vuole sperare di entrare nel suo regno deve imitare il ricco Zaccheo che non promise al Maestro di fare beneficenza ai poveri ma di volersi privare di metà delle sue ricchezze e di non voler più esercitare, a danno dei poveri, un’attività usuraia.

Ora, con un invito cosí autorevole e convincente come quello del cardinale Ratzinger, oggi pontefice della Chiesa cattolica, i cattolici oggi non dovrebbero avere difficoltà a negare il loro sostegno a banchieri e a mercanti, gli stessi che poi operano nell’ombra dietro i famigerati mercati, e ai loro delegati che vorrebbero attuarne in sede politica i piani costosi e sinistri per le popolazioni di tutto il mondo. Non dovrebbero avere difficoltà ma poiché, al contrario, di difficoltà ce ne sono tante, dobbiamo pregare ogni giorno il Signore affinché ai suoi fedeli dia la forza di tradurre in atti quotidiani il versetto del “Pater”: “sia fatta la tua volontà come in cielo cosí in terra”.

Le carceri, l’Europa e i cattolici

L’Italia ormai sembra destinata a perdere completamente la sua significanza statuale, la sua sovranità nazionale, la sua autonomia politica e governativa, la sua capacità di decidere nel rispetto e nei limiti della volontà espressa democraticamente dal suo popolo. Tutti sanno infatti che dal punto di vista economico- finanziario e fiscale la politica italiana è ormai da tempo al traino di quello che viene decidendosi altrove, in Europa e nel mondo Continua a leggere

Quale politica oggi per i cattolici?

Le cose scritte recentemente sul rapporto tra cattolici e politica da padre Paolo Scarafoni, rettore della Università Europea di Roma, sono in parte sensate e condivisibili, in parte quanto meno discutibili (I cattolici e la politica, Iª parte, in “Zenit” del 13-09-2012). E’ senz’altro giusto affermare che non sempre nella politica italiana in genere e in quella cattolica in modo particolare abbia prevalso «la mentalità della corsa alla carica politica», anche se subito dopo lo studioso cattolico si lascia andare ad affermazioni troppo apodittiche: «La riflessione parte necessariamente dal bilancio positivo di un grande ciclo, di una grande esperienza del cattolicesimo politico: l’eredità da non perdere della grande cultura della mediazione politica cristiana. È importante riconoscere il livello della “grande politica” che si è riusciti a concepire e attuare (ricostruzione nazionale e non di parte; idea dell’Europa; idea della cassa del mezzogiorno; programmazione democratica). È stata messa in atto una grande operazione dello stato. I cristiani hanno fatto bene».

Soprattutto la certezza che «i cristiani abbiano fatto bene», che non abbiano fatto anche male o che i loro eventuali errori non abbiano preparato il terreno allo squallido scenario politico degli ultimi vent’anni, sembra francamente eccessiva rispetto alla realtà dei fatti, anche perché i tratti immorali di una certa mentalità che ha dominato in Italia a cavallo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI non sono nati nella mente del predecessore dell’attuale presidente del consiglio ma piuttosto nella società italiana governata per lungo tempo e prevalentemente da cattolici benché Berlusconi, lungi dal contrastare quei tratti, li abbia ampiamente rappresentati e legittimati con la sua lunga e teatrale attività politica.

Ai cristiani comunque va certo riconosciuta tra gli anni ’50 e gli anni ’80 una effettiva e ammirevole capacità di mediazione politica; tuttavia, osserva giustamente Scarafoni, «i cristiani anche in Italia dagli anni 80-90 in poi non si sono organizzati bene, non hanno saputo rispondere bene alla vittoria del liberalismo nel mondo. Hanno lasciato penetrare la mentalità egoistica nell’organizzazione sociale e politica e nella vita quotidiana delle famiglie; hanno perso la battaglia nel campo educativo», sebbene «a difendere i poveri» sia rimasta solo la Chiesa (Ivi, 2ª parte del 20-09-2012).

Infatti, egli rileva in modo ineccepibile, «anche la sinistra europea ha ceduto al liberalismo e si è limitata a difendere i privilegi di alcuni gruppi, ma non ha difeso i poveri nel mondo, pensando anch’essa che lo sviluppo sarebbe venuto soltanto dal capitalismo liberale. Di fatto la sinistra ormai ha perso il contatto vero con il popolo. Si è buttata sulle battaglie minoritarie, per lo più contro natura, e per lo più frutto di gruppi di pressione e di élites culturali nei confronti delle quali si è messa in atteggiamento di soggezione e dipendenza culturale (fecondazione artificiale, questioni di genere e matrimoni omosessuali, ecc.). Queste questioni in Italia sono state messe alla prova popolare per la prima volta con il referendum sulla legge 40 e la sinistra è stata battuta, dimostrando di essere ormai lontano dal sentire popolare, perché il popolo non va contro natura in genere» (ivi).

E’ proprio cosí: la cosiddetta “sinistra” non “sente” più le reali esigenze dei popoli coincidenti innanzitutto con l’assoluta necessità etico-politica di essere adeguatamente difesi dai “poteri forti” del mondo sempre più disinvoltamente impegnati ad affermare la propria egemonia finanziaria e culturale non più solo come in passato sulle aree sottosviluppate del pianeta ma in tutte le aree più progredite del mondo occidentale. Ed è in parte vero che in tutte le parti del mondo la Chiesa cattolica sia «rimasta l’unica voce in difesa dei poveri e dei più deboli», laddove specialmente i cristiani laici, presenti in ogni ambito della vita civile e culturale, non «debbono permettere che la crisi delle democrazie occidentali degenerate in oligarchie diventi la crisi definitiva degli ideali democratici» (ivi). Cosa denota l’attuale crisi internazionale se non il fallimento di un sistema economico, di un modello sociale, di una visione antropologica dell’uomo e più esattamente di quella visione antropologica che è stata storicamente veicolata dal capitalismo occidentale?

I cristiani più avveduti hanno compreso che la produttività industriale non può essere illimitata e indiscriminata, che la crescita della ricchezza non può essere assicurata aprioristicamente e indipendentemente dalle variabili dei processi economici e dalle “dure repliche della storia”, per usare un’espressione hegeliana, che oltre un certo livello di guardia un modo arbitrario ed iniquo di perseguire il profitto e di distribuire la stessa ricchezza non può che frenare o impedire del tutto il consumo, che concepire esseri umani e società in funzione dell’economia e non viceversa comporta alla lunga una innaturale violazione delle stesse finalità naturali e morali della prassi economica sia pure nella possibile molteplicità e varietà delle sue opzioni. A tutto questo i cristiani devono ormai opporsi risolutamente per mettere al centro di qualsivoglia dibattito su economia e finanza, su sviluppo e produttività, su distribuzione e consumo di beni, su riforme sociali e modernizzazione della politica, su riforma dello Stato e nuovi istituti sociali, l’autonomia e la libertà personali «nella verità e nella relazionalità» (ivi, 3ª parte del 27-09-2012), perché «se non c’è questo gli uomini si trasformano in mezzi per una certa idea di progresso che favorisce alcuni; e quindi vengono negate le libertà, e c’è l’asservimento di molti a pochi che conoscono tutto e decidono tutto. Sono caduti in questa tentazione perfino gli americani. Sono le così dette lobby e potentati economici e finanziari transnazionali che “possiedono le soluzioni per tutto”. Normalmente queste ideologie e organizzazioni interpretano le situazioni di sottosviluppo come necessità storiche e strutturali per i loro fini. Anche a livello sociale ora incolpano, per esempio, le aspirazioni delle classi popolari a dare ai propri figli l’opportunità di un livello più alto, come un errore storico contro le leggi economiche, che causa la difficoltà attuale del capitalismo nei paesi sviluppati. Si tratta di interpretazioni tendenziose…La tendenza all’unificazione del genere umano non deve significare un asservimento, una diminuzione della libertà e dell’autonomia. Abbiamo avuto esperienze molto negative, ma la tentazione continua ad essere forte con altri strumenti, specialmente con la comunicazione e l’appiattimento culturale, che sopprime perfino le espressioni autentiche della natura umana» (ivi).

I cristiani non possono accettare questa realtà, o meglio devono accettarla solo per denunciarla e cambiarla in funzione delle specifiche e universali esigenze di tutta l’umanità. Non è possibile continuare ad assecondare disegni di gruppi privati che perseguono per sé fini di benessere, di potere e di felicità, senza preoccuparsi se non retoricamente e demagogicamente del “bene comune”. E la forza evangelica del Cristianesimo dovrebbe indurre i cristiani a compiere scelte “radicali” su tutte quelle questioni dalle quali dipende direttamente la tutela o la violazione dei diritti storico-naturali della dignità della persona e della comunità (ivi, 4ª parte del 4-10-2012).

Perfetto. Ma, per quanto lodevoli, né la critica antiliberista, né il rifiuto di una globalizzazione spersonalizzante attuata nel nome dei mercati e di reali ma sconosciute potenze finanziarie mosse da un’ambigua e pericolosa ideologia “mondialista”, né il forte richiamo al bene comune che, in quanto tale, non può essere meramente edonistico, utilitaristico e mercantile, sembrano sufficienti per organizzare una nuova strategia di impegno o di lotta politica volta a ridimensionare drasticamente il primato dell’economico e del finanziario e a rilanciare il primato dell’etico e del politico depurati da ogni reale o possibile mistificazione. Perché? Perché per lavorare realisticamente e concretamente e non genericamente e astrattamente al recupero della persona e insieme della società, della persona libera e responsabile all’interno di una società più giusta di quella odierna, non bastano analisi pure profonde e acute di natura prevalentemente morale ma si rendono necessarie analisi sociali più spregiudicate, più specifiche, più “scientifiche”, analisi capaci di produrre diagnosi più precise, di individuare i punti morti del sistema e di sostituirli con nuovi meccanismi, regole, procedure, più funzionali ad uno sviluppo economico sostenibile e ad istanze sociali forse da verificare e da correggere ma non indefinitamente rinviabili di difesa e valorizzazione delle diverse forme di lavoro già esistenti.

L’anticapitalismo cattolico (o almeno l’anticapitalismo di certi settori di cattolicesimo avanzato), proprio per questo difetto di criticità razionale o di “scientificità”, resta piuttosto utopico, nel senso che alla fine sembra orientarsi più verso un tradizionale ripiegamento su valori pure necessari di responsabilità personale e sociale che non verso una ricerca rigorosa di inediti e originali valori di liberazione personale e sociale. Come osservava giustamente molti anni or sono un filosofo marxista italiano sempre molto attento alle vicende e alle problematiche del cattolicesimo contemporaneo, con un anticapitalismo cattolico cosí sentito ma anche cosí vago e generico, e che nelle sue espressioni più alte e consapevoli ha certamente il merito di non accettare la complessiva realtà storica esistente, cosa si può costruire? «Come spostare davvero, con esso, la coscienza sociale del paese? Una maggiore familiarità con il sapere scientifico consentirebbe, non dico di elaborare, cosa cui forse una Chiesa non è tenuta, ma di segnalare progetti di cambiamento meno esclusivamente morali, meno appellantisi soltanto a una ristrutturazione delle coscienze morali, insomma più determinatamente critici. Se conosco scientificamente il mondo, le sue strutture, le sue condizioni, posso fare ipotesi di cambiamento che siano non di criticismo assoluto e radicale», e quindi ipotesi destinate a prospettare pur sempre forme utopiche di cambiamento, «ma, appunto, di criticismo possibile, fattibile» (A. Zanardo, La sfida morale. Intervista di A. M. Baggio con Aldo Zanardo, in “Nuova Umanità”, 1989, n. 62, 2, pp. 65-66).

Sono osservazioni legittime che i cristiani, specie se “intellettuali”, non possono non raccogliere e non utilizzare nei modi più opportuni. In caso contrario, e fatta salva sia la buona fede sia una non occasionale onestà di intenti quali quelli manifestati dal rettore dell’Università Europea, non si rischia di rimanere nei confini di un moralismo cattolico che, per quanto utile e generoso, non appaia mai suscettibile di trasformarsi in un’etica pubblica realmente corrosiva della corruzione e del malaffare di cui oggi più che mai si nutre la prassi politica in generale?

E, in questo senso, può ritenersi frutto di uno studio profondo e di riflessioni esaustive il ritenere che Marx abbia «fallito sull’uomo» in modo totale (I cattolici e la politica, 4ª parte, cit.)? Non è anche per questo che poi si incorre in una sorta di incongruenza logica che non può non appannare il vigore stesso della protesta morale e religiosa, allorché si dichiara che il bene comune, in quanto esso «richiede di promuovere ciò che favorisce tutti», potrebbe per ciò stesso «non essere immediatamente favorevole al singolo» (parte 3ª, cit.).

Cosa significa un’affermazione del genere? Che anche nel caso in cui per molti decenni il bene comune in un determinato paese non abbia coinciso almeno tendenzialmente con «ciò che favorisce tutti» ma solo con ciò che favorisce la parte economica e sociale già più ricca, ci si troverebbe di nuovo costretti a non battere ciglio di fronte all’ennesima politica governativa rigorosamente orientata al bene comune che proprio per questo potrebbe «non essere immediatamente favorevole» a tutti quei singoli che erano già stati sfavoriti, per lo stesso motivo nominale, in tutte le precedenti tornate governative? Chi sono questi “tutti”? Chi è questo “singolo”? Vogliamo uscire dalle astrazioni o dobbiamo far finta come cattolici di essere ammirati per un ragionamento pieno di apparente passione evangelica ma privo di conclusioni sufficientemente chiare, pregnanti e coinvolgenti?

Certo, Marx ha fallito sull’uomo in quanto intendeva liberare l’uomo togliendogli la fede in Dio, sia pure alla luce di una stringente e non del tutto insignificante storicizzazione del fenomeno religioso e cristiano, ma per certi aspetti non inessenziali alla storia stessa dell’umanità egli non ha fallito, perché, studiando “scientificamente” gli specifici meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico e tutte le aberrazioni tipiche della società ad esso connessa, ha consentito ad ingenti masse popolari di lottare con precisa cognizione di causa per la loro liberazione storica e a molti cattolici di cogliere importanti implicazioni inespresse della loro stessa fede.

Marx ha fallito sull’uomo perché senza Dio e senza il Cristo del vangelo non c’è analisi scientifica o teoria della rivoluzione che possano liberare l’uomo dalle contraddizioni laceranti della sua finitezza storico-esistenziale, ma, forse suo malgrado, nel mettere a disposizione di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a cominciare dal popolo cattolico, preziosi strumenti di analisi e di azione che nulla aggiungono alla potenza della fede in Cristo ma che almeno i cattolici impegnati in politica sarebbero tenuti a conoscere (allo stesso modo di un cristiano che non può svolgere la professione medica solo in virtù della sua fede in Cristo) per evitare errori marchiani di valutazione e scelte economiche e politiche di fatto incompatibili sia con le idealità evangeliche sia con gli stessi ideali della democrazia e della giustizia tout court, egli fu un docile strumento nelle mani dello Spirito Santo, che, com’è noto, “soffia dove vuole”.