La crisi attuale tra critica e fede

L’economista ungherese Karl Polanyi contestava fortemente che la “società di mercato”, una società cioè contrassegnata dalla presenza di un’alta finanza e in cui tutto è mercato per cui non c’è nulla (natura, lavoro, denaro, cultura) che non sia oggetto di scambio e non sia ridotto a merce secondo regole molto fluttuanti e mutevoli, fosse un “prodotto naturale”. Essa, in realtà, era piuttosto da considerare come un’anomalia  intervenuta nel processo storico di sviluppo dell’umanità, dal momento che storicamente l’economia, solo in questi ultimi decenni a cavallo tra XX e XXI secolo, sarebbe venuta sempre più arbitrariamente riducendosi alla sua forma mercantile e affermandosi come realtà dotata di leggi indipendenti dal complessivo funzionamento e dalle specifiche problematiche della società umana, rispetto alla quale invece l’economia non può e non deve isolarsi potendosi giustificare la sua stessa esistenza solo in funzione della società e dei suoi bisogni oggettivi e di conseguenza solo se sia in essa integrata o radicata (embedded e non embeddedness).

Come sempre accade quando la realtà avanza per vie completamente diverse da quelle pronosticate dagli esperti, anche oggi, in presenza di una crisi economica che non accenna a regredire se non in misura del tutto irrilevante, nei confronti dell’establishment scientifico-economico mondiale cominciano ad essere mossi dubbi, critiche, riserve sulla scia dei severi rilievi espressi da alcuni nuovi economisti o economisti per cosí dire “alternativi” (tra cui Jean Paul Fitoussi, Paul Krugman,  Prem Shankar Jha o lo stesso fondatore della Nuova Sociologia Economica come Mark Granovetter), che, da sempre sensibili alla scienza economica polanyiana, concordano nel riconoscere che in epoche e società del passato la dimensione mercantile costituiva solo una componente, e spesso molto marginale, dell’attività economica, mentre oggi, a causa di processi storici del tutto irrazionali, essa è assurta ad un ruolo cosí dominante da rendere completamente subordinato a sé e alle esigenze dei mercati finanziari l’insieme delle attività sociali, benché non siano poche le forme di scambio “non economico” presenti nella società contemporanea tra cui figurano per esempio il volontariato, associazioni di beneficenza, le economie informali e specifici interventi dello Stato (Welfare State) volti a sostenere essenziali attività e realtà economiche di grande importanza sociale.

Per Polanyi, come per gli economisti che oggi a lui sembrano richiamarsi insistentemente, è assolutamente necessario ripensare l’economia e adottare paradigmi economici meno restrittivi e ben più funzionali alle cose reali della vita, a bisogni individuali e collettivi semplicemente necessari e vitali del mondo in cui viviamo: magari anche, come propone Polanyi, in direzione di un socialismo liberale in cui sia possibile rimodulare e rinnovare il rapporto tra produzione e consumo per mezzo di cooperative autonome capaci di organizzare il mercato senza intermediazioni. Altrimenti, volendosi ostinare a negare l’evidenza dei fatti e volendo perseverare nell’errore, scrive l’economista ungherese nei suoi inediti oggi raccolti nel volume “Per un nuovo Occidente” e curati da Giorgio Resta e Mariavittoria Catanzariti (Il Saggiatore, Milano 2013), «l’intero meccanismo è destinato ad incepparsi, ponendo l’umanità di fronte all’immediato pericolo della disoccupazione di massa, dell’interruzione della produzione, della perdita dei redditi e, conseguentemente, dell’anarchia sociale e del caos», che è esattamente la situazione verso cui stiamo precipitando a grande velocità.

Oggi, non molto dissimile per alcuni aspetti è la diagnosi di un filosofo marxista come Alain Badiou, il quale, pur richiamandosi non a Polanyi (che non era stato né liberista né marxista) ma al comunista Marx, osserva che, come aveva previsto quest’ultimo, ormai il capitalismo è sul punto di dispiegare integralmente tutte le sue (residue) virtualità irrazionali e catastrofiche, descrivendo il mondo attuale con estrema lucidità e precisione: «Il capitalismo affida il destino dei popoli agli appetiti finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo senso, è un regime di banditi. Come si può accettare che la legge del mondo si regga sugli spietati interessi di una cricca di eredi e di parvenus? Non possiamo forse a ragione chiamare “banditi” uomini il cui unico principio è il profitto? E che, solo per assecondare tale principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di persone? In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone dipenda dai calcoli di questi banditi è cosí palese e cosí lampante, che accettare questa “realtà”, come dicono i loro scribacchini, è qualcosa che sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante» [A. Badiou, Il capitalismo oggi (risposta a Tony Negri), in “Micromega” del 27 agosto 2013].

Polanyi, contro il mito di un mercato autoregolamentato, propendeva per un’economia regolamentata e guidata dall’alto, pur senza aderire agli esiti totalitari dell’esperienza russa. Da questo punto di vista non si può dire che Badiou sia molto distante da lui, anche se naturalmente sulla forma di Stato che dovrebbe provvedere a questa regolamentazione dall’alto le due posizioni cominciano ad essere probabilmente confliggenti. Ma è molto verosimile che anche per Polanyi, vissuto in un contesto economico pur sempre diverso dal nostro, sarebbe stato semplicemente spaventoso pensare che il “mercato” sia rappresentato da loschi figuri senza scrupoli, da avidi speculatori e cinici parassiti del mondo della proprietà e del patrimonio finanziario, e che intere popolazioni debbano attenersi senza poter battere ciglio alle loro immonde e reiterate pretese. E quali sono gli ordini diramati con ossessiva monotonia da questa cricca di criminali lasciati inspiegabilmente liberi di operare, quali sono gli ordini che milioni di persone dovranno eseguire per condannarsi alla propria rovina? Eccoli, scrive ancora Badiou:  «Privatizzate tutto. Eliminate ogni sostegno ai deboli, alle persone sole, ai malati, ai disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non alle banche. Non curate più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i salari dei poveri, ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino fino a novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto agli ideologi di servizio» (ivi). Sembra solo un brutto incubo ma purtroppo questa è già realtà.

Marx, nota Badiou, fu lungimirante in molte cose. Per esempio, egli definiva “procuratori del capitalismo” i governi reazionari europei tra il 1840 e il 1850 volti a privilegiare indecorosamente la ricchezza e a penalizzare altrettanto spudoratamente il lavoro, e questo ci consente di capire che, oggi come ieri, governanti e banditi della finanza fanno parte generalmente dello stesso mondo. Infatti, che differenza c’è anche oggi tra governi di destra (vedi Sarkozy o Merkel) e governi di sinistra (vedi Obama, Zapatero, Papandreu)? Tutti questi governi e governanti non sono forse anch’essi “procuratori del capitalismo”? Dall’800 ad oggi c’è stato tanto progresso, è vero; ma oggi non stiamo forse ritornando indietro, quasi che il presente e il futuro dell’umanità dovessero essere risucchiati dal passato e che tutti i processi storici pure reali di emancipazione umana dovessero essere miseramente vanificati?

Che cosa bisogna fare dunque per non sprofondare nella barbarie, per non perdere ogni speranza di poter ritornare a vivere? Sono ancora condivisibili le indicazioni di Badiou: «Non saranno di certo il capitalismo o la schiera dei suoi servi politici a risvegliare la Storia, se con “risvegliare” intendiamo l’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice, con lo scopo di uscire una volta per tutte dall’ordine stabilito… Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo nel carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza di un’Idea» (ivi).

Tace però il filosofo francese (almeno in questo articolo), come aveva taciuto lo stesso pur “profetico” Polanyi, sulle modalità in cui “la potenza di un’Idea”, di un’idea radicalmente nuova, dovrà venire radicandosi nell’iniziativa popolare (come dice Badiou) o in una nuova generazione di economisti orientati a ripensare altrettanto radicalmente la scienza economica non a prescindere dai bisogni vitali degli uomini ma esclusivamente a partire da essi e in funzione di un destino collettivo di vita e non di disperazione e morte (come probabilmente avrebbe desiderato Polanyi).

Noi cristiani sappiamo tuttavia che quelle “modalità” non potranno essere né violente, né semplicemente calate dall’alto dall’ennesima aristocrazia di dotti e saggi. Noi cristiani sappiamo che quelle “modalità” potranno e dovranno essere il frutto di un modo nuovo (non solo e non tanto di un nuovo modo ma di un modo nuovo ovvero inedito), e svincolato da meschini interessi particolaristici, di coinvolgere le masse popolari in un processo di partecipazione etico-politica favorito o sollecitato da un’opera totalmente limpida e onesta di evangelizzazione della vita politica e delle dinamiche economiche e finanziarie, in modo che “pane e dignità per tutti, a tutti i livelli” possa diventare finalmente lo slogan di una stagione storica in cui governare un popolo torni a significare governare realmente per il popolo, in funzione dei suoi reali interessi e nel nome di una condivisione sociale di risorse materiali e spirituali quanto più estesa e profonda possibile. Il che significa che, per noi, la potenza di quell’Idea che dovrà radicarsi nell’iniziativa popolare di domani non potrà non corrispondere alla potenza dell’idea cristiana di un bene comune perseguibile soltanto attraverso un’opera di servizio e non di comando o di dominio finalizzata a contrastare i “poteri forti” di qualsivoglia natura e a creare le condizioni per una società più libera, più eguale e più giusta nel segno della croce redentiva di Cristo.

Come ha giustamente osservato il teologo cattolico della liberazione Frei Betto, sono moltissimi i giovani che oggi non vogliono né dittatura, né disoccupazione, né limitazione dei diritti sociali, né aumento del costo della vita, né inquinamento e alterazione dell’ecosistema e dei processi naturali. Solo che non sanno a chi rivolgersi, non sanno che fare, dal momento che, per la corruzione dilagante nei partiti politici e per il potere di cooptazione che in esso esercita il capitale, sino al punto che la stessa sinistra risulta ormai invisibile in Europa, essi non trovano nei partiti canali capaci di rappresentare onestamente i veri interessi popolari e di creare alternative credibili al potere forte dei gruppi finanziari internazionali (F. Betto, Protesto! Ma che cosa propongo?, in “Koinonia” agosto 2013).

L’analisi di Betto è estremamente chiara almeno dal punto di vista descrittivo-diagnostico: «Come già aveva previsto Robert Michels nel 1911, i partiti progressisti facilmente si lasciano addomesticare dalle cortesie borghesi quando arrivano al governo. Cambiano il progetto dei paesi con il progetto del potere; si allontanano dai movimenti sociali e si avvicinano a quelli dei loro antichi avversari; tralasciano di mettere in discussione il capitalismo per proporre  soluzioni cosmetiche di miglioramento della vita dei  più poveri…..Il capitalismo in crisi cerca in tutti i modi possibili di moltiplicare le sette vite del gatto neoliberale. Disattende le raccomandazioni dell’ONU riguardo alla crisi finanziaria (come quella di chiudere i paradisi fiscali) e rifiuta di regolamentare il capitalismo speculativo. Nel suo sforzo di perpetuarsi, il sistema dell’idolatria del capitale propone rattoppi nuovi con toppe vecchie: propone un capitalismo verde;  combatte la povertà con programmi sociali compensativi (e non emancipativi); baratta le libertà individuali con la sicurezza; disprezza i movimenti sociali, criminalizza il malcontento popolare…Il sistema si rivela più distruttivo che creativo. Perfino i partiti progressisti, prima considerati di sinistra, non hanno più proposte alternative e quando arrivano al potere si limitano ad essere meri gestori della crisi economica» (ivi). Betto pensa per esempio al Brasile di Dilma Rousseff, incapace di attuare le riforme promesse al popolo prima di arrivare al potere, ma come negare che la sua critica calzi a pennello agli stessi uomini politici della sinistra europea ed italiana?

E conclude amaramente il teologo brasiliano: «Non basta denunciare i difetti e gli abusi del sistema, come è solita fare la Chiesa Cattolica. È necessario indicare le cause e le alternative. Altrimenti l’insoddisfazione dei giovani si trasforma in rivolta, e questa a sua volta in nido che accoglie l’uovo del serpente: il nazifascismo» (ivi). Certo, non basta denunciare i difetti e gli abusi del sistema, anche perché senza quei difetti e quegli abusi in realtà il sistema, che è sempre stato costruito storicamente sulla base dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non potrebbe sopravvivere. Solo una nuova generazione di cristiani assistiti dallo Spirito Santo, ormai, potrà indicare “cause e alternative”, anzi una sola alternativa: quella di un mondo sociale costruito su pratiche coerenti ed efficaci di condivisione e socializzazione, in cui la proprietà privata di qualunque bene materiale non abbia più un valore assoluto ma un valore relativo e funzionale ad una liberazione finalmente e non retoricamente integrale di uomini e donne.

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