Tra intellettualità laica e intellettualità cattolica

  1. Gli intellettuali e il rapporto disarmonico tra ceto ecclesiastico cattolico e messaggio evangelico.

Se la Chiesa cattolica, nel corso di due millenni di storia, ha subìto spesso giudizi e commenti critici abbastanza malevoli da parte di celebri intellettuali, ciò sarà accaduto probabilmente per qualche buona ragione, non certo per un semplice capriccio o per semplici bizzarrìe comportamentali. Se il messaggio evangelico ha sempre goduto di rispetto e venerazione, mentre le gerarchie ecclesiastiche sono state spesso oggetto di vituperio e feroce critica, è evidente che l’origine di ogni sospetto fatto cadere sulla Chiesa risiede verosimilmente nella percezione soggettiva ma ricorrente di molti osservatori di un rapporto non simbiotico ma piuttosto disarmonico tra ceto ecclesiastico e curiale e limpidezza originaria e costitutiva del messaggio evangelico.

In questo senso gli intellettuali di tutte le epoche storiche hanno molto contribuito ad evidenziare come le prime e più insidiose fonti del discredito gettato sulla “buona novella” siano interne e non esterne alla Chiesa. Preti, frati, vescovi, cardinali, prelati di qualunque categoria gerarchica, e anche papi, sono proprio essi che hanno concorso, spesso in modo irrimediabile, ad offuscarne l’attendibilità spirituale e a tradirne lo spirito delle origini: si può ben dire che Giuda, autoesclusosi dal gruppo apostolico dei dodici, sia però infelicemente sopravvissuto nella storia della Chiesa diventandone anzi col tempo una delle figure istituzionali più inquietanti, anche se fortunatamente accanto ad altre che avrebbero saputo limitarne i danni. Solo per rimanere qui all’elenco di intellettuali italiani una volta incisivamente stilato da uno studioso laico di problemi religiosi come Elio Rindone, ci si può rendere conto di come la loro critica implicita e più frequente alla Chiesa sia non già quella di essere un’istituzione abusiva sorta per ragioni non religiose ma ideologiche e di potere, ma quella di aver rinnegato non di rado il mandato ricevuto da Cristo di gelosa custode delle verità non solo da lui pensate e proclamate quanto soprattutto vissute e tradotte in potente e vitale fermento di vita.

Il mondo di ogni epoca storica è portato naturalmente a guardare sia i comportamenti virtuosi che viziosi degli uomini di Chiesa, in particolare quelli degli ecclesiastici più noti e influenti, per stabilire che cosa, quali tratti, quali esempi, potrebbero essere eventualmente trasferiti nella società civile per la sua stessa utilità oppure completamente banditi da qualsivoglia progetto di rigenerazione morale e spirituale del mondo laico. E, persino nelle critiche più preconcette, si nasconde forse il desiderio inespresso di trovare nella Chiesa, nella sua differenziata unità, fulgidi e nobili esempi di sapienza, di integrità morale, di lungimiranza politica e religiosa, da poter poi essere tradotti nella complessiva realtà storico-mondana come validi strumenti educativi e come spunti etico-deontologici di una pratica sociale di vita che tende periodicamente e inevitabilmente a ripiegarsi su se stessa, su modelli abitudinari e meccanici di condotta e su forme di rapporto interpersonale e di relazione sociale logore e invecchiate.

Certo, intellettuali cristiani come Dante Alighieri o Marsilio Ficino, Petrarca o Boccaccio, Savonarola e Ariosto, inveivano per amore filiale, e sia pure con accenti naturalmente diversi, contro una Chiesa corrotta, rapace e completamente disinteressata alla salute delle anime, e in un tempo in cui tuttavia la fede era molto sentita e il senso del sacro profondamente radicato non solo nell’ambito istituzionale religioso ma all’interno stesso delle strutture civili e delle istituzioni laiche. Ma anche spiriti più laici,  religiosamente più distaccati e tuttavia profondamente sensibili sotto il profilo etico, come Machiavelli e Guicciardini, non è che trovassero edificanti e salutari in relazione alla stessa pratica politica le molteplici e notevoli devianze religiose che venivano copiosamente alimentate da illustri esponenti delle gerarchie vaticane.

D’altra parte, non tutte le voci critiche cristiane che sarebbero venute esprimendosi contro il cristianesimo istituzionale e quindi contro la Chiesa possono essere incluse nella categoria delle voci critiche esercitate in spirito di carità, e mosse pertanto da un sentimento filiale di amore verso la Chiesa e verso una Chiesa così malata da richiedere l’affetto e le cure di tutti i suoi figli, non essendovi dubbio alcuno che, tra esse, alcune sarebbero parse, più che criticamente argomentate e comprensibili, arbitrariamente provocatorie, irriverenti, sciatte e volgari. Questo, per esempio, sarebbe accaduto con Giordano Bruno che, con tutto il rispetto per le sue geniali qualità immaginative, nessuno aveva costretto a farsi frate domenicano e che tuttavia, in tale stato religioso, avrebbe preteso di coinvolgere impunemente tutte le chiese cristiane, ivi compresa quella cattolica, in una serie di ingiuriose, beffarde, sarcastiche e, al tempo stesso, gratuite ed ingiustificate invettive decisamente irreligiose ed empie. Che senso mai poteva avere la polemica anticristiana bruniana a proposito del fatto che tutte le chiese cristiane esistenti fossero tutte ostili al libero pensiero nel nome di una fede dogmatica, e che, per questo motivo, fossero tutte indistintamente meritevoli di essere tacciate di “sant’ignoranza” e “sant’asinità”? Cosa avrebbero a che fare questi insulti, queste contumelie, questa incontrollata propensione al vilipendio e all’oltraggio non sorretta da serie o almeno plausibili argomentazioni di natura storica e teologica, con una posizione realmente critica e problematica di pensiero? Come si poteva esigere sic et simpliciter che un’istituzione religiosa come quella cristiana e cattolica, fondata essenzialmente sulla fede in Cristo e vocazionalmente preposta a custodirla e a trasmetterla nella sua originaria purezza, potesse consentire a chicchessia di discutere a modo proprio delle verità dogmatiche della fede, secondo un’immagine soggettiva e magari oltremodo distorta ed equivoca della razionalità, in un’epoca in cui peraltro non era ancora venuta alla luce, se non in modo embrionale, la moderna scienza galileiana? Un frate domenicano che, manco fosse un intellettuale di comprovata sensibilità laica e di orientamento ateistico dichiaratamente anticristiano, chiedeva un dibattito pubblico senza chiusure preconcette e posizioni precostituite sui dogmi della fede! Ancora oggi si ritiene che fosse questo un chiaro segno dell’autoritarismo e dell’intolleranza cristiano-cattolici, ma in realtà se la Chiesa avesse tollerato, fino a far finta di non ascoltarla, la scellerata protesta di quel suo frate nolano, avrebbe autorizzato la distruzione di se stessa come Chiesa di Cristo e come universale istituzione religiosa.

Più comprensibile e non priva di qualche fondamento storico sarebbe stata invece la critica mossa alla Chiesa dall’illuminista Pietro Giannone, critica legittima quando evidenzia le ragioni storiche, non certo divine, del potere politico o temporale a lungo esercitato dai papi, ma critica che tuttavia non potè non apparire anch’essa aprioristica e unilaterale là dove avrebbe preteso di ridurre lo stesso primato spirituale pontificio a semplici e del tutto accidentali contingenze storiche, dal momento che, come si evince dai testi evangelici in modo inequivocabile, la fonte di legittimità di quel potere è individuabile nella volontà stessa del Cristo e nelle celebri parole che egli rivolge a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 18-19), dove semmai si può discutere se il primato da Gesù conferito a Pietro possa intendersi come conferito implicitamente anche a tutti coloro che a lui sarebbero succeduti in qualità di pontefici o se invece esso debba intendersi evangelicamente legittimo solo in quanto affidato a coloro che, salendo al soglio pontificio, si fossero trovati a disporre della stessa fede rocciosa di Pietro. Come dire: tu sei Pietro e io, sulla tua fede rocciosa e su una fede rocciosa come la tua, costruisco la mia Chiesa e i suoi poteri spirituali, non già su forme incerte, ondivaghe, molli e inconsistenti di fede.  

D’altra parte, anche Vittorio Alfieri, un anarchico ante litteram, come in fondo lo avrebbe definito Piero Gobetti, per via della sua  «disperata necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti, le tirannie religiose e politiche», tra cui naturalmente quella cattolica, tende ad esasperare in chiave fortemente soggettivistica il suo astioso giudizio verso la Chiesa cattolica, la cui religiosità sarebbe addirittura «quasi incompatibile con il vivere civile» e condannerebbe all’ignoranza, alla cecità morale e alla schiavitù civile, i popoli che vi si sottopongono. Ben altra tempra etico-religiosa avrebbero dimostrato di possedere eccelse intelligenze della cultura italiana, come Giacomo Leopardi e Carlo Cattaneo, che avrebbero, sia pure in contesti politico-culturali diversi di riferimento, saputo cogliere quella che è la persistente contraddizione strutturale della realtà storica della Chiesa cattolica: tra l’essere al servizio di Cristo in senso confessionale e istituzionale senza saperlo servire e onorare in senso etico-esistenziale.

E’ da intellettuali laici, seri, rigorosi e non acrimoniosi come quelli appena citati, che si può apprendere a sceverare, nel quadro delle posizioni critiche verso la Chiesa, tra la menzogna e la verità, tra il pregiudizio e l’oggettività dei fatti; è da essi che i cattolici novecenteschi più avveduti avrebbero potuto ricavare validi indizi che consentissero di riconoscere che il mondo non potesse essere certo migliore di quanto non riuscisse alla Chiesa stessa di essere, alla Chiesa che è ad un tempo specchio e fucina spirituale del mondo, specchio dei suoi vizi e delle sue perversioni idolatriche e fucina di universali ed eterni valori di giustizia e amore,  non certo da intellettuali massoni come per esempio Luigi Settembrini, la cui aspra critica anticlericale muove non già da reali, oggettive e condivisibili motivazioni morali (la consapevolezza della funzione corrosiva che un eccessivo potere economico potesse esercitare sulla vita spirituale del clero), quanto dalla consapevolezza che, finché fosse esistito un ceto clericale tenuto istituzionalmente e vocazionalmente a fare di Cristo l’unica e salvifica divinità dell’universo, l’antico sogno massonico di un’alleanza organica tra le masse cattoliche e i quadri intellettuali e dirigenti della massoneria internazionale non si sarebbe mai potuto avverare, così come è auspicabile che mai si realizzi dal momento che, come ebbe a dire in modo categorico e lapidario ancora nel 2013 uno dei più grandi esperti del mondo dei rapporti tra chiesa cattolica e massoneria, padre Zbigniew Suchecki della Pontificia facoltà di san Bonaventura di Roma, pur consapevole dell’esistenza di abnormi fenomeni di contaminazione e coesistenza tra cattolici e massoni, «squadra e compasso sono del tutto incompatibili con la croce».

  1. Intellettuali e Chiesa: quale laicità?

D’altra parte, un’assoluta laicità dello Stato, dell’istruzione e dell’educazione statali, contro le storiche ingerenze ecclesiastiche della Chiesa cattolica in sede politica e scolastico-culturale, sarebbe stata energicamente rivendicata dal socialista Antonio Labriola, che non avrebbe però ritenuto di precisare che un vero Stato laico è quello che avrebbe dovuto comunque garantire anche ai cattolici di professare liberamente la propria fede nella società civile e nelle stesse istituzioni pubbliche, visto che in fin dei conti anche il liberale come il socialista, il repubblicano come il marxista o l’anarchico, rivendicano il diritto di manifestare liberamente e democraticamente le proprie idee non solo nell’ambito privato ma anche nella sfera pubblica. 

Nel ‘900, la Chiesa sarebbe stata presa di mira dai liberali come dai marxisti, da socialisti e comunisti, da tutto lo schieramento del laicismo ateistico come, di fatto, dal fascismo nazionalistico, nonostante il Concordato forse improvvido del ’29. Croce, Salvemini, Gramsci, sia pure in ottiche interpretative diverse, avrebbero criticato in modo martellante la natura anacronistica e reazionaria della religione e della cultura cattoliche senza però mai prendere in seria considerazione l’ipotesi di un mondo politico, giuridico e sociale, in cui fosse stato possibile praticare un sostanziale azzeramento delle idee e dei valori cattolici, anche se Antonio Gramsci non avrebbe mancato di rilevare che la cultura cattolica, per lunghi secoli egemonica nel quadro del divenire storico-sociale, fosse una cultura così compatta, solida, rocciosa e organica, anche nel senso di una coscienza collettiva delle masse dei fedeli profondamente organica e subordinata alle gerarchie ecclesiastiche della Chiesa e quindi alla concezione religiosa unitaria seppur articolata del mondo da esse promossa e legittimata, che sarebbe risultato molto arduo, per quanto necessario, lavorare, anche a lungo termine, ad un suo “superamento” e alla sua sostituzione egemonica con una concezione teorica ed etico-sociale di tipo immanentistico e più funzionale alle esigenze e alle tematiche sempre più complesse  e dinamiche del mondo moderno e contemporaneo.  

Ma alla luce delle critiche anticattoliche di questi pur autorevoli intellettuali laici del ‘900, sarebbe stato un mondo più civile o meno civile, più carico o meno carico di libertà e di eguaglianza, più ordinato e democratico o più caotico e regressivo, quello suscettibile di diventare orfano della Chiesa e della cultura cattoliche? E’ una domanda ancora attuale che nessuno si pone, anche se, in vero, nel frattempo e in tempi recenti la stessa Chiesa cattolica abbia cominciato a dare chiari e preoccupanti segni di involuzione dottrinaria e impoverimento spirituale.  

Ciò non toglie che ugualmente fondati ed efficaci si rivelassero i rilievi critici al cattolicesimo di alcuni intellettuali italiani non pregiudizialmente ostili, anche se esistenzialmente estranei, alla Chiesa cattolica. Penso, per esempio, al filosofo Piero Martinetti o al teorico della nonviolenza Aldo Capitini, per continuare a seguire l’elenco di intellettuali proposto da Rindone. Il primo avrebbe eccepito, in parte a giusta ragione, che la Chiesa cristiana nei secoli non di rado avrebbe deviato dall’originario insegnamento evangelico e che il cristianesimo storico non sarebbe la coerente continuazione dell’opera di Gesù ma, d’altra parte, il ritenere in modo aprioristico che il sovrannaturale, come tale, non avesse alcun possibile punto di contatto con la razionalità e con un sapere critico aperto tanto alla problematicità del reale quanto al mistero che vi è profondamente connaturato, rappresenta probabilmente, anche alla luce dell’odierna scienza della complessità, il limite più evidente della sua pur intensa e suggestiva, per quanto orgogliosissima, ricerca filosofica.

Quanto a Capitini, nel ’58 questi chiede al vescovo di Perugia di essere “sbattezzato”, cioè di essere escluso dal registro dei battezzati, a causa del fatto che il vescovo di Prato, dopo aver definito pubblicamente “concubini”, secondo quelle che allora erano peraltro sue legittime prerogative pastorali, un uomo e una donna che avevano deciso di sposarsi civilmente in Comune ma non in Chiesa, venisse persino assolto in tribunale dall’accusa di diffamazione, suscitando nel pensatore perugino una profonda indignazione e  inducendolo a scrivere al suddetto vescovo di Perugia, unitamente alla richiesta di cui sopra, che la Chiesa, già in precedenza compromessasi seriamente con il governo fascista, con uno scambio reciproco non occasionale di “favori” e di “elogi”, non avrebbe mai potuto contribuire né alla promozione umana della società, né ad una difesa evangelica di valori di libertà, giustizia e pace (A. Capitini, Lettera all’arcivescovo di Perugia, in R. Rossi, Nuove pagine anticlericali, Milano, Kaos, 2002, p. 345). Che, francamente, non pare costituiscano argomentazioni così solide e decisive da giustificare una richiesta di estromissione dalla lista dei battezzati in Cristo e da conferire un carattere di perentoria definitività ad un giudizio sulla presunta incapacità cattolica di cooperare al progresso morale e spirituale del genere umano.

Ancor meno persuasivo è l’anticattolice-simo, molto retorico e demagogico oltre che non di rado blasfemo, di un intellettuale più recente come Pier Paolo Pasolini, che a mio avviso è stato molto sopravvalutato, in sede critico-culturale, rispetto alle sue oggettive capacità di lettura demistificante dei significativi mutamenti della società italiana nei decenni seguiti al secondo dopoguerra, utilizzando il suo aleatorio e in realtà alquanto avventuroso e disorganizzato impegno teorico-politico più che altro come subdola copertura ideologica di una sua realtà intima e privata tutt’altro che libertaria ed emancipata e di una sua angusta e soffocante etica individualista e narcisista.

Né può prendersi in più seria considerazione il premio Nobel per la letteratura Dario Fo, teorico di una cultura popolare, più che colta, si potrebbe dire, populista e di facile consumo, dal momento che, non in modo cortigiano e tuttavia servile rispetto ad una cultura “progressista” sempre in auge anche se muta, l’attore comico citato avrebbe inteso veicolare con la sua opera essenzialmente un concetto tanto antico quanto banale e volgare: quello per cui si sarebbe potuto restituire dignità alla Chiesa di Cristo solo distruggendo la Chiesa di Roma, cioè non solo le sue mura, i suoi tetti, i suoi campanili, ma tutti quelli che la governano, e quindi i papi, i vescovi, i cardinali. Il premio Nobel, se non ricordo male, non includeva, bontà sua, in questo elenco di reprobi, solo i santi, i martiri e i mistici.

Peraltro, non è che una sensibilità per un sostanziale rinnovamento spirituale della Chiesa, per una immissione di un di più di eticità nelle sue pratiche liturgiche e pastorali e per un di più qualitativo di impegno critico nelle sue molteplici attività politico-culturali, svolte nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nei tribunali o nelle fabbriche, non sia stata un’esigenza sentita e diffusa tra le masse cattoliche:  ci sarà stata di certo tanta mediocrità che avrebbe poi prodotto pessimi frutti, dal un punto di vista intergenerazionale, in un successivo mancato ricambio di una classe dirigente cattolica, ma tentativi ammirevoli e degni di essere ancora ricordati non già di modernizzare il cattolicesimo, bensì di recuperarne e valorizzarne dimensioni antiche e ormai pressoché dimenticate, ci sarebbero stati, checché ne pensasse il papa della cultura laica, Benedetto Croce,  o un giornalista laico universalmente apprezzato come Indro Montanelli che definiva la cultura cattolica come “la cultura delle mummie”.

Sulla stessa lunghezza d’onda di queste voci laiche, si sarebbero sintonizzate anche quelle di alcuni intellettuali cattolici di spicco, come ad esempio Gaspare Barbiellini-Amidei, Carlo Bo, Vittore Branca e altri, che avrebbero sempre preso le distanze dalla facile tentazione di dare rappresentazioni strumentali di natura ideologica del cattolicesimo. Branca, in particolare, prima di morire, tenne a rivendicare come fondamento primario del suo impegno critico e della sua esistenza il «primato del messaggio evangelico della libertà come condizione di moralità», lasciando intendere che ogni essere umano è tenuto a rispondere moralmente dei suoi pensieri e delle sue scelte solo ove sia lasciato realmente libero  di esercitare gli uni e le altre, sebbene vera e ancor più profonda moralità possa ben considerarsi soprattutto quella che viene manifestandosi con la fedeltà a princìpi universali di verità, carità e giustizia, quando si sia sottoposti a condizioni repressive e costrittive particolarmente dure e persino disumane.

Purtroppo, anche la figura dell’intellettuale cattolico non partigiano ma che si sforza di comprendere e tollerare la partigianeria e la faziosità di interlocutori laici più o meno autorevoli, come sarebbe accaduto nel caso degli intellettuali cattolici appena citati, non è un sicuro segno di integrità intellettuale e di probità morale, in quanto è sempre gradevole, ma non sempre lecito e conveniente, ostentare, sia pure in buona fede, una sorta di benevolenza verso gli avversari la quale può portare tuttavia lustro alla propria persona, più che alla propria fede e alla causa della testimonianza cristiana. D’altra parte, a seconda della particolare temperie storica di una determinata epoca o di una determinata società, le modalità relazionali del cristiano e dello stesso intellettuale cattolico rispetto al mondo politico-istituzionale, ai propri interlocutori e agli stessi avversari di diverso orientamento etico e religioso, sono soggette a sensibili variazioni e a dinamiche interpersonali in continua e rapida trasformazione proprio a causa del fatto che se la fede è una e immutabile, quella cioè rivelata dal Cristo, si pone tuttavia ogni volta il problema della sua inculturazione, di come cioè tradurla quanto più fedelmente possibile nelle strutture culturali, nel linguaggio di un dato tempo, di un dato popolo, di una data civiltà. Da una parte, ci sono il dato rivelato,  le verità evangeliche, che non mutano, che sono eterni, in quanto espressioni dell’eterno Logos divino, dall’altra si dà il problema di come comunicare adeguatamente, senza tuttavia arbitrari semplificazioni e riduzionismi di sorta, la parola di Dio al suo popolo nelle diverse e mutevoli stagioni del suo peregrinare nella storia.

In questo senso, il ruolo dell’intellettuale cattolico può assumere una valenza educativa, formativa, spirituale di notevole importanza e, per certi aspetti, non secondaria ma decisamente complementare rispetto alla migliore prassi liturgico-pastorale possibile, qual è quella che viene fiduciosamente affidata al ceto presbiterale. Ma quel ruolo è molto delicato, in quanto da una parte presuppone e deve presupporre le origini non culturali della fede cristiana essendo esse extrastoriche in quanto interne alla rivelazione, dall’altra deve essere consapevole che quest’ultima può produrre, come spesso ha prodotto, una cultura cristiana capace di interrogarsi, in modo unitario e al tempo stesso differenziato, sulle possibili, legittime, necessarie implicazioni della fede in rapporto ad un suo specifico mondo storico-esistenziale, a particolari e mutevoli problematiche storico-economiche, storico-sociali, storico-intellettuali, a condizione che tale ruolo di elaborazione critico-formativa dei contenuti evangelici e dottrinari della “buona novella” non venga esercitandosi solo nell’ambito di interessi conoscitivi di natura specialistica e all’interno di ristretti gruppi di esperti, ma piuttosto nel quadro di una prospettiva paideutica, pedagogica, formativa, evangelizzatrice, di valenza largamente popolare e sociale, e quindi non mossa da anguste esigenze individualistiche di tipo teorico ma funzionale ad una istanza oggettiva di coinvolgimento conoscitivo e spirituale di massa.

  1. L’intellettuale tra fede nella cultura e cultura della fede nell’era della globalizzazione.

Da questo punto di vista, di socializzazione della fede religiosa, di democratizzazione della cultura biblico-evangelica, l’Italia, forse, non avrebbe avuto intellettuali cattolici di levatura pari a quella di altri intellettuali europei, in particolare di intellettuali francesi letteralmente divorati da un acceso zelo apostolico e da un grande impegno popolare e operaio come per esempio George Bernanos, François Mauriac, Charles Péguy,  Emmanuel Mounier. Non può essere dimenticato lo stesso Jacques Maritain, anche se le sue motivazioni apostoliche, rispetto a questi ultimi, vengono poi declinandosi, in sede politica, più nel contributo da lui dato al dibattito sulla democrazia e al tema di una democrazia personalistica e comunitaria che non in un vero e proprio spirito di lotta per l’emancipazione tanto economico-sociale quanto spirituale e religiosa delle masse lavoratrici e operaie francesi. 

Il “sentire” religioso dei cattolici in Italia, fatta eccezione per circuiti accademici e universitari che non sarebbero però riusciti mai a stabilire significativi punti di contatto e interdipendenza con le masse popolari, non avrebbe invece risentito di forme particolarmente impegnate di travaglio intellettuale extraecclesiastico ma sarebbe stato tutto interno ad una educazione prevalentemente catechistica d’intonazione clericale. Si sarebbero avuti in Italia importanti studiosi, ricercatori, uomini di scienza, come padre Agostino Gemelli, che molto avrebbe fatto per qualificare il cattolicesimo in sede culturale e universitaria mettendosi a capo di un nutrito gruppo di intellettuali cattolici che avrebbe poi lanciato in diversi atenei italiano, e più in là come Augusto Del Noce, Gabriele De Rosa, Pietro Scoppola, e ancora esponenti del progressismo cattolico come Raniero La Valle, Giulio Girardi, padre Ernesto Balducci, tutti alla ricerca di un dialogo e di collaborazione con le posizioni più aperte e propositive della sinistra socialista e comunista, ma in sostanza non ci fu niente di paragonabile allo sforzo dell’intellighenzia cattolica francese sopra ricordata di creare, accanto al linguaggio religioso per schemi e formule emanato dalle gerarchie ecclesiastiche, un linguaggio nuovo e originale che fosse in grado di attivare, almeno in prospettiva, la consapevolezza critica di masse di credenti intorno a nodi molto delicati e problematici relativi al rapporto tra i contenuti mai definitivamente acquisibili ma sempre da approfondire della fede e gli interrogativi sempre urgenti e basilari della vita e della storia.

Solo che il linguaggio nuovo e originale elaborato dal cattolicesimo critico francese non avrebbe comportato un rifiuto dei valori religiosi tradizionali dalle sfere della vita individuale e sociale ma piuttosto un loro ripensamento critico sí da poter essere reintegrati culturalmente ai fini di una comprensione quanto più esaustiva possibile della complessità della realtà contemporanea, mentre in Italia il passato, che non poteva essere ridotto ad un cumulo di falsità, anziché essere reso attuale attraverso un’opera di rinnovamento, troppo spesso sarebbe stato rifiutato, inducendo il cristiano ad assumere la mentalità idolatrica e paganeggiante della modernità (il mito del progresso indefinito e lineare, del potere tecnologico in molti ambiti dell’esistenza, e poi l’utopia di una società a misura d’uomo e destinata a diventare sempre più tollerante e meno repressiva, l’utopia multietnica e quella ecologica) e una condivisione inconsapevole ma non per questo meno pericolosa dello spirito del mondo.

Così, poco per volta, anche quello che in molti casi avrebbe costituito un punto fermo nel pur vivace, diversificato, animato e contrastato dibattito cattolico del ’900, ovvero la centralità del concetto-valore di persona, sarebbe venuto assottigliandosi o dissolvendosi per assumere un significato via via più prossimo a quello corrente e conformistico di individuo, tipico di un’ideologia capitalistico-borghese e inteso quale centro assoluto di ogni libertà e di ogni diritto, rispetto a cui almeno il miglior cattolicesimo francese aveva cercato di prendere per tempo le distanze. Di fatto però, a dispetto di ogni pur nobile tentativo di resistenza e resilienza etico-intellettuale, il cattolicesimo occidentale avrebbe finito per integrarsi quasi completamente nel sistema globalistico contemporaneo che tende ad imporre un “pensiero unico”, un modello culturale unidirezionale secondo cui non esiste più una coscienza storica delle differenze, delle diverse identità nazionali e storico-culturali, di esperienze soggettive e personali anche radicalmente alternative, e i possibili conflitti non possono che essere appianati nel nome e nel segno di un universale ma generico e astratto interesse transnazionale, per cui le distanze umane e sociali tendono forse a ridursi in senso ideologico senza che però una tale opportunità storica di avvicinamento tra diversi o forme anche radicali di alterità comporti mai la possibilità di concretizzarsi in un sentimento diffuso ma non demagogico di fraternità, nel senso specificamente cristiano del termine.

Sembra essersi ricostituito un impero di antica memoria in cui in apparenza vigono ancora leggi e tradizioni diverse ma in cui in realtà esiste e viene imposta una unica legge, una sola lingua, una sola cultura di comando e di potere, proprio mentre la globalizzazione lascia emergere le sue vere dinamiche di discriminazione e diseguaglianza: si pensi alla preoccupazione ossessiva di ridurre i costi del lavoro, di puntare sullo slogan del bene comune solo per ridurre i diritti e la dignità di molti, di inculcare uno spirito unitario, al di là di tutte le possibili differenze di qualsivoglia natura, solo per preservare e rafforzare un sistema di dominio e di capillare controllo sociale. La globalizzazione in atto si configura come un processo storico anonimo e impersonale, meccanico e autodiretto in virtù di meccanismi interni che si ritengono migliorabili ma insostituibili, un processo storico ormai sganciato da qualsiasi solido principio di verità, da qualsiasi spirito di disinteressata e caritatevole prossimità esistenziale, da qualunque apertura a un’idea di umanità altra, di umanità predisposta ad un diverso e meno turbolento o complicato genere di vita, ma poiché è anche una globalizzazione in cui continua ad esistere chi possiede di più e chi possiede di meno, chi coltiva in modo ossessivo e unilaterale un’ambizione di supremazia egemonica nella partecipazione al progetto globale di una condivisione teoricamente paritaria  di tutte le risorse del mondo, e chi invece, in modo forse non incolpevole, si trova a dover temere la particolare aggressività appunto di spregiudicati comprimari e a doversene difendere con mezzi non propriamente pacifici, sarà inevitabile prima o poi che questa globalizzazione imploda oppure venga distrutta da agenti esterni di formidabile potenza distruttiva (divieti economici, blocchi finanziari, embarghi incrociati, rappresaglie di tipo spionistico e terroristico, guerre parziali o totali).

Già oggi ci si può e ci si deve chiedere, e a maggior ragione bisognerà porsi la stessa domanda domani, che cosa significhino ormai espressioni o parole come democrazia, giustizia, libertà, unità, e se non siano piuttosto ampiamente manipolate e deformate a scopi di dominio sempre più totalizzante e buone per giustificare persino le azioni più inique ed infami. E forse i buoni intellettuali cattolici di domani, non meno dei più ispirati “uomini di Chiesa” loro contemporanei, dovranno tornare a ribadire con forza la superiorità del valore della persona sui valori economici e su pratiche mercantili di vita, perché la bontà di un progetto di governo si misura innanzitutto dalle opportunità da esso concesse alla persona, ad ogni singola persona, di soddisfare le sue esigenze materiali e spirituali di vita anche e soprattutto, non unicamente, alla luce delle sue opere e dei suoi meriti. Il valore della persona è, alla fine, il valore più alto annunciato da Cristo sia prima di salire sulla croce, sia anche quando sulla croce avrebbe esalato l’ultimo respiro, in quanto anche le masse stanche e disperse dei diversi scenari della storia umana non hanno mai potuto e mai potranno raggiungere obiettivi di reale e salvifica emancipazione senza il sacrificio volontario di persone singole, concrete, particolari, che, pur presupponendo una società comunitaria da non confondere con una società anonima di massa, né con una società totalitaria retta da un tirannico capo carismatico, né infine con una società contrattualistica che dovrebbe reggersi sull’equilibrio degli egoismi individuali, siano vocazionalmente predisposte ad offrire, nel nome di Cristo, in forme cruente o incruente, la propria vita per gli altri. 

  1. Il disimpegno religioso dei cattolici nella vita politica alla fine del secondo millennio nel giudizio di Raniero La Valle.

La resa a tutti i grandi processi di globalizzazione non regolamentata, indiscriminata o selvaggia, che sarebbero venuti caratterizzando i primi due decenni del terzo millennio con esiti di molto controversa interpretazione e di discutibile valore economico-sociale e politico-culturale, sarebbe stata anche figlia dei modi alquanto epidermici e generici in cui masse di cattolici di tutto il mondo, non adeguatamente assistiti dalla loro Chiesa universale che ha sede a Roma, avrebbero ritenuto di interagire con i disegni internazionali e transnazionali di potere dell’ultimo trentennio del secolo passato di conferire nuovi e sconvolgenti equilibri ai tradizionali assetti giuridico-finanziari ed economico-commerciali dei rapporti intercorrenti tra gli Stati dell’intero pianeta, e in particolare tra i diversi Stati europei e tra l’Unione cui essi avrebbero dato luogo e gli Stati di continenti extraeuropei.

In Italia, una descrizione accurata e convincente del disimpegno cattolico nella vita politica del periodo storico cui si è fatto riferimento, sarebbe stata proposta, tra gli altri, da uno degli intellettuali più chiari ma anche più ambigui e discutibili della cultura cattolica progressista contemporanea, ovvero Raniero La Valle, che avrebbe cercato di spiegare, a volte in modo convincente, altre volte in modo avventuroso e logicamente indisciplinato (dicotomia che rappresenta poi, a ben vedere, la malattia ricorrente del cattolicesimo moderno e postmoderno),  i motivi interni e le modalità del disimpegno religioso dei cattolici italiani nella vita politica nazionale. Egli lamentava, intanto, come la politica, a fronte di un presenzialismo forse doveroso ma talvolta discutibile o ambiguo della Chiesa gerarchica nelle vicende politiche del nostro paese, resti generalmente estranea agli interessi dei laici cattolici e come quindi essi appaiano colpevolmente silenti nella Chiesa come nella stessa vita pubblica italiana (Chiesa, che fare?, in I laici cattolici lontani dalla politica. I cattolici politici lontani dalla realtà, in “Koinonia”, 250, 13 marzo 2011). Il popolo cristiano cominciava a deresponsabilizzarsi sotto l’aspetto politico a partire dal venir meno della Democrazia Cristiana nel cui ambito per decenni erano venute coesistendo, pur tra contrapposizioni talvolta aspre, diverse sensibilità e opzioni politiche piuttosto variegate o eterogenee. Da allora i cattolici non hanno fatto più politica, semplicemente limitandosi a subirla e trasformandosi da soggetti in oggetti dell’agire politico. Ciò naturalmente non significa che i cattolici scomparissero dalla scena politica, perché si poteva facilmente constatare come persone di dichiarata fede cattolica fossero presenti in tutti i partiti politici e operassero in parlamento. Il fatto era però che della presunta ispirazione cristiana della loro vita e della loro attività politica poco o niente si manifestasse ormai nella vita pubblica e «in nessun modo il movente cristiano, nella laicità dell’agire politico», apparisse «produttivo di specifiche proposte e percepibili risultati» (ivi. Da qui in avanti tutte le frasi virgolettate sono da intendere come riferite all’articolo citato di La Valle).

Latitava nel loro modo di pensare, di essere e di agire, la fede nella sua accezione più rigorosamente evangelica; la fede non era più una forma mentis che creasse diversi casi di coscienza ponendo insanabilmente in conflitto con certe bassezze oggettive del mondo e obbligando a rinunciare persino a certe legittime aspirazioni ove il perseguimento di queste contrastasse con un sentire cristiano non annacquato, ma era solo un distintivo, un titolo o una qualifica richiesti da una diffusa concezione perbenistica ed opportunistica della vita e della stessa vita sociale, che induceva a razionalizzare persino i fatti più perversi ed infami e a giustificare nei modi più spericolati quella che in vero altro non era se non la rimozione da sé di ogni più elementare senso di moralità e di reale e responsabile partecipazione alla vita etica di un’intera nazione. La fede allora, stando cosí le cose, si trasformava o si capovolgeva in mero uso strumentale della fede stessa, in un clericalismo, molto spesso presente nella vita politica, il quale appariva volto non di rado a soddisfare desideri sempre meno evangelici e gli stessi ambigui desiderata della Chiesa istituzionale.

E si capisce allora che la fede non venisse più usata per servire Cristo e la sua Chiesa pensata e vissuta nella sua interezza e in tutta la profondità delle sue vere esigenze ecclesiali ma come paravento di malcelate e vicendevoli pratiche di baratto tese a garantire alle parti contraenti cospicui vantaggi di natura molto più politica ed economica che non realmente spirituale. D’altra parte, molti clericali erano anche tra i non cristiani: si pensi agli “atei devoti”, ai dirigenti pagani della Lega Nord e allo stesso Berlusconi «nonostante l’harem mantenuto a Milano». Ma, osservava amareggiato La Valle, «la cosa più grave è che nella situazione attuale, nonostante gli appelli per l’ingresso di una nuova generazione di cattolici nella politica, non si dà alcuna possibilità che si ripristini una tale presenza cristiana, fino a che non siano rimosse le cause che la impediscono».

Quali erano queste cause? E’ il caso di riportare integralmente il pensiero di La Valle: «1) La prima causa è il sistema di bipolarismo selvaggio che è stato introdotto in Italia, che trasforma il confronto politico in una lotta ad oltranza tra amico e nemico. Questo stile di lotta non si addice ai laici cristiani. Pensate a uomini come Sturzo, Moro, De Gasperi, Dossetti, La Pira, gettati nella fornace dell’attuale massacro televisivo che si ripete ogni sera; 2) la seconda causa che preclude un’efficace presenza dei cattolici è legata alla prima. Il sistema è fatto solo per chi sia o pretenda di essere maggioranza. Chi non ha una “vocazione maggioritaria”, come viene chiamata, ma ha uno spirito di profezia o una proposta politica che oggi è di minoranza ma che può diventare di maggioranza domani, è in via di principio escluso dal sistema. Il sistema bipolare e maggioritario esclude le minoranze o ne pretende l’assimilazione all’una o all’altra parte contendente. Ora è a tutti noto che i cristiani sono una minoranza. Lo erano anche ai tempi della Democrazia Cristiana, ma allora il sistema politico permetteva che essi, al di là della loro forza numerica, esercitassero un’egemonia o almeno un’influenza culturale e politica su molte altre componenti della società italiana, e perciò potevano governare. Oggi l’assimilazione dei cattolici nell’uno o nell’altro blocco non può avvenire che attraverso patti compromissori e subalterni, come furono il Patto Gentiloni nel 1913 e le alleanze clerico-moderate e clerico-fasciste dei primi decenni del Novecento, contro cui combatté con la tattica dell’“intransigenza” Luigi Sturzo, dando cosí un’identità politica all’elettorato popolare cattolico e dando inizio alla stagione del cattolicesimo politico democratico, oggi interrotta.

Perciò solo con il ritorno alla proporzionale ci può essere un ritorno dei cattolici alla politica, da realizzarsi attraverso l’autonomia di partiti laici in cui sia possibile elaborare e promuovere contenuti evangelici nelle scelte politiche, in dialogo con le proposte di altre culture e nel libero confronto con gli altri partiti».

Ma la presenza cristiana nella vita politica e sociale nazionali, scriveva l’intellettuale cattolico con grande franchezza evangelica, veniva impedita principalmente dalla stessa Chiesa istituzionale nonostante la ricorrente e paternalistica esortazione, da essa rivolta al mondo cattolico, a voler ricostituire un saldo nucleo di nuovi e giovani politici di sincera ispirazione cristiana che provvedano a rimettere ordine nelle vicende sempre più caotiche e deplorevoli della scena politica italiana e a conferire un senso autenticamente cristiano all’agire politico del presente e delle future generazioni. Infatti, spiegava La Valle, la verità è che quello che un tempo era stato il compito dei politici cattolici oggi «se lo è attribuito la stessa Chiesa, che tratta direttamente con lo Stato per ottenere ciò che giudica utile al bene comune e “non negoziabile” sul piano dei princípi. Ora, dove si esercita un potere diretto della Chiesa gerarchica, una “potestas indirecta”, come si diceva una volta, esercitata attraverso gli stessi poteri politici statali, non può esserci spazio per la mediazione di istanze laicali (come le ACLI, le Caritas, Pax Christi e simili), né può esserci spazio per una azione politica autonoma dei laici cristiani. E infatti se dei laici cristiani si dichiarano cattolici adulti, e dunque non soggetti in politica alle direttive ecclesiastiche, vengono considerati disobbedienti e abbandonati al loro destino. Per preservarsi l’autonomia di scelta politica, Sturzo avrebbe deciso che il Partito Popolare di tutto dovesse occuparsi tranne che della “questione romana”, perché di quella si occupava direttamente la Chiesa che rivendicava “i diritti imprescrittibili della Santa Sede”, e non avrebbe potuto un partito laico fatto da cattolici avere in materia alcuna autonomia politica.

Tuttavia, questa rinunzia non sarebbe bastata a salvare né Sturzo, né il suo partito, quando la Chiesa di allora tra lui e il fascismo avrebbe scelto la conciliazione col fascismo. Ma La Valle, e qui cominciavano a trasparire le ambiguità della sua stessa fede cattolica, avrebbe prevaricato nel ritenere che una situazione analoga potesse aversi anche sul finire del ‘900 quando la Chiesa dei vescovi e della Segreteria di Stato avrebbe pensato di rendere obbliganti per tutti, cattolici e non, le sue prese di posizione sui cosiddetti “principi non negoziabili”, anche se in realtà altro è un concordato politico che, dal punto di vista cattolico, si preoccupi di non esacerbare il rapporto già in sé conflittuale con uno Stato dittatoriale e lasci tuttavia impregiudicata la facoltà del singolo di aderire o non aderire ad un patto politico, altro è invece la legittima e imprescindibile prerogativa della Chiesa di prescrivere ed esigere l’obbedienza del suo “popolo”, reale e virtuale, a princìpi e valori di origine ed ispirazione indubbiamente evangeliche e divine. Scegliere in un senso o nell’altro su temi etici oltremodo sensibili come divorzio, aborto e via dicendo, non era affatto da un punto di vista rigorosamente cristiano e cattolico, come invece sosteneva La Valle e tanti altri cattolici dissidenti di allora, questione di opinabilità, come nel caso dei Patti lateranensi del ’29, ma questione di fedeltà o infedeltà al volere stesso di Dio.  

L’intellettuale cattolico non aveva tuttavia torto nell’eccepire che una norma morale certo vincolante per i cattolici non dovesse esserlo anche, in termini giuridico-legislativi,  per i non cattolici, pur trascurando il fatto che la Parola di Dio, nei limiti in cui essa venga riconosciuta come tale, non può che valere universalmente, per cattolici e non cattolici. Poi, però, il suo ragionamento tendeva a diventare schematico e, a tratti, anche manicheo, specie nell’operare una contrapposizione tendenzialmente artificiosa tra gerarchia ecclesiastica e laicato cattolico: «La Chiesa può ritenere ad esempio prioritario opporsi», egli scriveva, «a una legislazione sulle coppie di fatto, ma altrettanto legittimamente laici cristiani possono ritenere prioritario opporsi a una legislazione che criminalizza gli stranieri», come se per la Chiesa non potesse e non dovesse essere altrettanto prioritario opporsi ad una legislazione che criminalizzasse gli stranieri. E poi:  «la Chiesa difende il Concordato, che non è oggi in pericolo, i laici cristiani prima ancora potrebbero preoccuparsi della Costituzione, che è in pericolo, e da cui del resto anche il Concordato dipende. La Chiesa lotta per l’incremento delle scuole cattoliche, i laici potrebbero sentire piuttosto l’urgenza di lottare per salvare quanto resta della scuola di tutti e perché non sia spenta la scuola di Stato. La Chiesa al di sopra di ogni altro interesse politico sostiene oggi i cosiddetti “movimenti pro-vita”, che difendono soprattutto la vita non nata; i laici cristiani hanno oggi l’assillo di salvare l’uomo vivente, stracciato dalla politica e immiserito dal mercato, e di promuovere la qualità della vita, a cominciare dal lavoro; i vescovi americani contrari alla riforma sanitaria che medicalizza l’aborto, preferiscono un’America senza Obama, i laici cristiani hanno molte ragioni per volere un’America governata da Obama». Come si vede, era un argomentare tendente a caratterizzare la Chiesa istituzionale e gerarchica in senso retrivo, reazionario, antisociale, e la Chiesa popolare, laica, assembleare, in senso progressista e socialmente evoluto, senza prevedere che, qualche decennio più tardi, cioè oggi, le posizioni potessero cominciare ad invertirsi con conseguente spostamento delle componenti gerarchiche verso posizioni di apertura a talune moderne istanze emancipatrici  del mondo contemporaneo, e per converso di parti sempre più consistenti delle componenti laicali verso posizioni più caute e guardinghe se non di esplicita diffidenza verso talune aperture dottrinarie e pastorali proposte dalle autorità ecclesiastiche, a cominciare da quella pontificia.

Ma, storicamente parlando, la realtà istituzionale e spirituale della Chiesa era ed è più complessa e articolata di come veniva rappresentata da La Valle, non solo perché tanto nella curia ecclesiastica quanto nell’assemblea dei fedeli si trovano spesso orientamenti diversi e persino contrapposti pur nel segno della fede comune, ma soprattutto perché, quali che siano volta a volta le tesi o le posizioni prevalenti e le stesse contingenze storiche in cui il popolo di Dio è chiamato a testimoniare la sua fede, ogni singolo battezzato sa che, in virtù dell’eterno soffio vivificatore e provvidenziale dello Spirito Santo,  il destino della Chiesa di Cristo dipende, in ogni momento della sua vita, dal suo sentire e dal suo agire religiosi non meno che dalle decisioni pontificie e dai documenti emanati dalla Chiesa gerarchica.

Però, anche qui, La Valle aveva ragione di sostenere che certe fratture spirituali nel corpo ecclesiale non ne favoriscano certo l’unità e tendono ad allontanare dalla stessa vita politica una parte più o meno consistente di fedeli. D’altra parte, un motivo specifico di allontanamento di molti cattolici dalla politica sarebbe stato quello relativo all’appoggio, forse non esplicito ma concreto, che la Chiesa avrebbe offerto a Berlusconi. Non c’è dubbio che allora diversi cattolici restassero fortemente turbati nel vedere che la Chiesa sostenesse e legittimasse un Presidente del Consiglio che, al di là delle sue pur discutibili pratiche di vita e di governo, stava corrodendo alla radice l’anima del Paese. Egli, affermava La Valle, «si poneva infatti come modello, come esempio di vita; con mezzi potentissimi prendeva, tranne che a parole, il posto di ogni altro Maestro, e perciò della stessa Chiesa; e in questa  veste egli si poneva come il più grande diseducatore di massa che questo paese avesse mai avuto. Eppure la Chiesa tace su di lui, e anzi ogni critica gli veniva risparmiata, con l’argomento che essa sarebbe viziata da moralismo politico; e se gli scappava una bestemmia, qualche prelato osservava che dovesse essere contestualizzata, cioè non presa sul serio; purtroppo però il contesto era quello dell’idolatria, idolatria del potere, da non lasciare a nessun costo, idolatria del denaro, con cui comprare tutto, cose, istituzioni e persone; idolatria del piacere, rivendicato come legittimo sia in pubblico che in privato».

Ma allora perché la Chiesa gli avrebbe concesso reiteratamente il suo appoggio? Questa scelta avrebbe pesato sull’animo di molti cittadini, e avrebbe rischiato soprattutto  di compromettere altri beni non politici molto più importanti, a cominciare dalla predicabilità stessa del Vangelo, che da una Chiesa in perdita di credibilità avrebbe potuto trovare maggiore difficoltà di ascolto. Che, in parte, è quello che sarebbe effettivamente accaduto. Non è, per esempio, del tutto casuale che negli ultimi due decenni siano state sempre più frequenti le accuse di corruzione, peraltro di solito non infondate, rivolte alla Chiesa e dalle quali non sempre quest’ultima è riuscita a difendersi in modo plausibile. La Chiesa ha sempre il dovere di fornire umilmente prove attendibili della sua buona fede, secondo quel che raccomanda il Concilio Vaticano II al n. 76 della Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”: «la Chiesa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni».

Per questo motivo, la Chiesa deve guardarsi dal dare il suo appoggio a governi che si mostrino predisposti a soddisfare implicite o esplicite richieste ecclesiastiche il cui oggetto sia costituito da determinati e corposi interessi materiali della Santa Sede anche nel caso in cui essi fossero perseguiti a fin di bene. Questo era il consiglio che il buon Raniero La Valle, benché non completamente libero dai condizionamenti ideologici del suo tempo, veniva rivolgendo alla Chiesa cattolica, concludendo il suo accorato appello in questi termini: «Solo quando il terreno sarà sgomberato da tutti questi equivoci e la Chiesa istituzionale tornerà a parlare il linguaggio non diplomatico ma chiaro e tagliente di quella vivente Verità, che da duemila anni sta rendendo liberi tutti coloro che se ne facciano seguaci e interpreti rigorosi e attendibili, fedeli e non distratti da alcuna preoccupazione mondana, i cattolici potranno sentirsi veramente incoraggiati a vivere la politica come una seconda “beruf”, come una seconda vocazione accanto a quella battesimale della loro volontà di rinascita in Cristo Signore».

Francesco di Maria

 

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