Felice Balbo e la filosofia del lavoro

1. L’intellettuale cattolico tra critica del sistema e riforma del sistema.

Accademico solo per collocazione professionale, non certo per mentalità e metodologia di lavoro, intellettuale atipico e anticonformista ancora oggi abbastanza misconosciuto e sottovalutato. Di scrittura non sempre chiara, lineare e ordinata, benché significativa ed originale su temi essenziali, ma teoricamente e concettualmente lucido; militante cattolico alieno da ogni forma di bigottismo e di ideologia religiosa, ma dedito a servire la causa evangelica con uno spirito missionario talvolta sin troppo zelante e inquieto. Intellettuale imparziale ma non neutrale, realista ma controcorrente e inattuale. Un uomo di fede con la passione del finito e del sociale ma con l’ansia esistenziale dell’infinito e dell’eterno, un apostolo laico e un pensatore cattolico con la vocazione a indagare le corde più sensibili e vitali dell’esistenza personale e a produrre conoscenza in funzione di una piena ma realistica emancipazione dell’uomo-operaio nel quadro di comunità piccole ma solidali di lavoro.

Questo fu Felice Balbo, che, dopo aver individuato l’intellettuale solo in chi si riveli «anticipatore», cioè capace di «vedere e capire i significati del tempo», avrebbe avuto a precisarne epigraficamente il ruolo in questi termini: esso «non deve appartenere a coloro che decidono, o che muovono le masse, ma a coloro che propongono, che sollecitano, che ideano e aprono nuove vie, che portano a verità l’opinione confusa e contraddittoria, che scoprono ed enunciano nuovi bisogni, nuovi doveri, che determinano, in una parola, il primo atto in ogni processo di umanizzazione degli uomini» 1.

Ma l’intellettuale balbiano non è l’intellettuale classico, separato da uno specifico ordine pratico-materiale di attività, dai particolari processi tecnici di lavoro interni a determinati e circoscritti gruppi di lavoro, non è l’intellettuale, ancora condizionato da precise istanze politiche, che quindi proponga una trasformazione del sistema economico-produttivo senza conoscerne le caratteristiche e le modalità interne di funzionamento e solo studiandolo, in astratto, solo in rapporto alle forme istituzionali dello Stato. E’ o dev’essere invece l’intellettuale che si fa egli stesso imprenditore e impara a dirigere l’economia facendo esperienza delle concrete problematiche di determinati comparti produttivi e degli uomini, dei lavoratori che vi operano, come delle loro esigenze e delle loro necessità, badando principalmente ad evitare, sulla base dell’esempio fornito in parte dalla società industriale americana, ogni unilaterale riduzione dell’operaio, dell’uomo-operaio, a “fattore economico”, attraverso l’introduzione di opportune innovazioni tecniche, di nuovi metodi di gestione, corrispondenti alle dinamiche interne, anche sotto il profilo relazionale, di singole cellule produttive 2.

Non era possibile, non era realistico, per Balbo, che si continuasse a trascurare di studiare il rapporto che passava tra il rendimento dell’operaio e le condizioni “umane” e “comunitarie” del lavoro, dove l’implicito presupposto è che ogni singola persona debba sentirsi non escluso dal suo gruppo di lavoro ma incluso, integrato in esso in un rapporto di reciproca collaborazione e solidarietà con gli altri appartenenti al gruppo stesso, al fine di massimizzare creativamente e non coercitivamente le sue stesse potenzialità produttive. Si veniva profilando così, sia pure embrionalmente in termini più generali, uno scenario storico-esistenziale che sarebbe venuto poi radicandosi nel non facile e animato dibattito culturale contemporaneo che è giunto fino al tempo presente: lo scenario è quello che riguarda il rapporto del singolo con se stesso ma anche tra il singolo e l’altro, che di volta in volta può essere il diverso da noi sotto gli aspetti più diversi, lo straniero, l’immigrato, chiunque presenti standard mentali, status economico e sociale, stili di vita profondamente o radicalmente diversi o antitetici ai nostri.

Ora, questa problematica è più difficile e impegnativa di quanto la cultura del “politicamente corretto” o del “pensiero unico” non riesca ad immaginare, perché non si dà alcuna particolare difficoltà a riconoscere, in linea di principio, come disvalori e situazioni moralmente deprecabili l’estraniazione dell’uomo a se stesso, la non accoglienza dell’altro, la separazione dell’uomo dall’uomo, la non integrazione in una comunità di lavoro come in una comunità nazionale, la frammentazione di un’umanità comune ad ogni essere umano, ma la difficoltà comincia a sussistere quando ci si interroga sulle ragioni che li determinano e che non sono sempre e necessariamente o unilateralmente riducibili a questioni di pregiudizio, di avversione ideologica o religiosa, di nazionalismo e di razzismo o di semplice indifferentismo etico, giacché, a parte il caso oggettivamente più complesso della persona che venga estraniata da se stessa a causa di infernali meccanismi e tempi di lavoro oppure di drammatiche situazioni personali, intime, private di vita, generalmente l’accoglienza occorre non solo offrirla ma anche accettarla, l’inclusione egualitaria di diversi nella stessa comunità di lavoro o di vita civile è possibile e quindi anche proficua se tutti la vogliono sentendola ragionevole e appagante nonostante tutti i possibili incidenti di percorso che possano verificarsi, l’integrazione solidale dell’altro in un comune spazio intellettuale, morale, economico e spirituale, è fattibile, se si danno condizioni non solo soggettive e volontaristiche ma soprattutto oggettive e sufficientemente realistiche per poterla attuare.

Il discorso dovrebbe essere ulteriormente sviluppato e precisato, anche se in questa sede non è possibile procedere in una disamina più accurata, ma tornando alla strategia tecnico-organizzativa di lavoro perseguita da Balbo, il suo innovativo piano direzionale di fabbrica, prevedeva che «il piccolo gruppo di lavoro» diventasse «quindi il risultato di una convergenza tra istanze filosofiche, morali, manageriali: “il piccolo gruppo umano e in particolare il piccolo gruppo di lavoro viene considerato oggi dagli scienziati, tecnologi ed educatori come una unità sociale primaria, avente realtà, proprietà e caratteri distinti da quelli dei singoli individui, che lo compongono”. Se il tecnicismo può essere liberato dai suoi vizi e dai suoi mali, questo, afferma Balbo, può avvenire attraverso il piccolo gruppo di lavoro, diventato generatore delle norme etiche e tecniche della grande organizzazione, che può soltanto applicarle. È un po’ la critica allo Stato etico, ribaltata a livello di impresa industriale: a Balbo interessa tanto la umanità del lavoro, quanto la produttività dello stesso, privilegiando il primo momento rispetto al secondo che, invece, poteva essere più presente» in alcuni studi sperimentali condotti in America 3. Era anche un modo intelligente e colto di deideologizzare tanto il problema del lavoro quanto quello della giustizia sociale.

In definitiva, «quella balbiana è una ricerca di soluzione all’interno delle strutture malate: si tratta non di modificare il sistema, ma di giungere a forme più umane di lavoro e quindi a una maggiore produttività. Balbo sembra essersi rassegnato al sistema capitalistico, non prospetta alternative strutturali, ma solo terapie per l’individuo e vede nel piccolo gruppo la nuova cellula in cui ogni realtà, ogni fatto della vita del gruppo, ogni elemento del suo lavoro può essere a portata diretta dei sensi, dell’intelligenza e del fare di ogni singolo componente» 4. E qui è il caso di precisare che, se la vicenda umana ed intellettuale del filosofo torinese, ebbe a gravitare per diverso tempo intorno alla sua appartenenza al PCI, ciò avvenne non già per averne condiviso l’orientamento ideologico, ma solo per quel bisogno di umanizzazione della politica, che altri partiti tra cui la stessa Democrazia Cristiana sembravano non soddisfare a sufficienza, e che fu avvertito, tra gli anni ’40 e ’50, da molti altri intellettuali, tra cui per esempio Antonio Banfi, non dichiaratamente cattolici. Balbo, infatti, nel chiedere di fare il suo ingresso nel partito comunista, ebbe l’accortezza di appellarsi ad un articolo dello statuto interno di quest’ultimo, in base a cui l’iscrizione al partito non ne comportava l’accettazione obbligatoria della linea ideologica. Che poi i comunisti italiani fossero realmente capaci di assecondare l’esigenza balbiana, senza infarcire la loro politica di massa di demagogia e propaganda ideologica mascherate da una pur efficace retorica democratico-rivoluzionaria, è una questione diversa e molto più controversa. Peraltro, non c’è motivo di diffidare del chiarimento fornito posteriori dallo stesso intellettuale cattolico: «Non sono un ex comunista per la semplice ragione che non sono mai stato comunista. Sono stato iscritto al PCI, perché aveva impostato la linea del Partito Nuovo, linea che avrebbe, se si fosse sviluppata, certamente condotto ad andare oltre il marxismo pur senza rifiutarlo … poi ho visto che ciò era impossibile» 5.

D’altra parte, Balbo, nel 1947, non aveva omesso di riconoscere i suoi “debiti” culturali ed etico-civili, che vengono da lui significativamente riferiti ad Antonio Gramsci, Guido Dorso e Piero Gobetti: «In Italia … la ripresa della nostra coscienza storica dopo la liberazione non è ancora avvenuta … Se allora vogliamo trovare degli indici per questo lavoro, dei punti di riferimento sicuri, dobbiamo rifarci, credo, essenzialmente ai nomi di Gobetti, di Dorso e di Gramsci. Gramsci rappresenta la prima grande apertura del proletariato italiano nel tendere a formare in Italia una moderna coscienza nazionale in tutta la sua ampiezza politica e culturale … Dorso rappresenta l’estrema coscienza che un borghese può avere del problema meridionale la cui soluzione è infatti da lui, in modo implicito, affidata alla rivoluzione proletaria. In Gobetti … si trova un’acutissima percezione della propria insufficienza liberale. Gobetti indica che ogni speranza di sviluppo concreto della società italiana sta nel proletariato. ….. A noi intellettuali della nuova democrazia, sulla linea indicata da Gramsci, il compito di trarre rigorosamente le conseguenze, il dovere di non rendere vane così alte testimonianze di concreto antifascismo culturale … storicizzare significa abbandonare i superamenti idealistici per la riqualificazione odierna di ogni valore, di tutto il passato, senza escludere nulla di ciò che è vivo e accresce la tensione di vita e di verità» 6. 

Ma quel che importa sottolineare è che, specialmente da un certo momento in poi, quando ormai la sua esperienza comunista volge al termine, egli viene esercitando nel periodo postbellico, in totale autonomia e con una metodologia diversa e meno sbrigativa di quella adottata dagli esperti comunisti, la sua funzione critica in relazione ai problemi nazionali del mondo del lavoro. Con il suo intelligente riformismo etico-politico, con cui cercava di conciliare la dignità personale con l’efficienza del gruppo di lavoro, tentava altresì di superare il dilemma tra individualismo liberale e collettivismo sovietico, tenendo conto di come i rispettivi percorsi storici fossero lastricati, soprattutto dalla parte del secondo, di gravi, drammatiche e disumane contraddizioni. Tentava di superarlo e risolverlo, con la teoria della contraddizione o contrapposizione oggettiva ma congelata tra opposti, vale a dire non alimentando la conflittualità, non optando per uno dei due termini, ma andando oltre una logica dicotomica o della contraddizione «in una nuova realtà che include ciò che tutti i contrari includono e ciò che la loro contrarietà esclude» 7.

Ne derivava un forte depotenziamento del principio marxista della lotta di classe, in quanto l’acquisizione teorica della coesistenza in una medesima realtà di elementi pure fortemente contraddittori ma non suscettibili di confliggere in forme esplosive, toglieva alla lotta di classe, in non trascurabile misura, la sua stessa ragion d’essere. Lo stesso schema proponeva Balbo sul piano della politica estera, nel senso che dall’aspro confronto tra sistema democratico occidentale e sistema dittatoriale comunista e sovietico avrebbe potuto essere disinnescata, attraverso una politica estera di sostanziale e non formale non interferenza reciproca, la carica di violenza sempre suscettibile di esplodere in contesti deliberatamente conflittuali o non governati da forme attente e responsabili di controllo politico 8. Di conseguenza, è da escludere che Balbo sia appartenuto a quel gruppo di giovani cattolici, non perfettamente identificati, di circa un ventennio prima, «che parlavano assai disinvoltamente di “rivoluzione” imminente e di trasformazione sociale e antropologica, così come nemmeno i beceri totalitarismi del XX secolo avevamo osato fare: ebbene, non erano giovani di tradizione socialista o comunista, ma rampolli della migliore borghesia cattolica, che criticavano aspramente De Gasperi per il suo “centralismo” e che spesso militavano nel Partito comunista, o ne erano simpatizzanti e fiancheggiatori, essendo convinti che solo da lì, da Marx e da Stalin, sarebbe stato possibile attingere le forze fresche per il necessario, radicale rinnovamento della stanca e decrepita società italiana, e dell’ormai moribondo capitalismo europeo e americano» 9.   

Se sia e in che misura insoddisfacente e ambigua la proposta teorico-politica di Balbo, non è ciò che qui ci si propone di stabilire, ma non si può mancare di rilevare che la forte valenza etico-politica e religiosa del suo impegnativo lavoro di indagine è costituita da una ricerca delle condizioni quanto più possibile favorevoli ad un’emancipazione non necessariamente traumatica ed essenzialmente estraniante dell’umanità lavoratrice ed operaia in attesa di una sua piena e perfetta realizzazione come singolo e come collettività nel celeste al di là.  

  1. Balbo e il confronto con il comunismo teorico e politico.

Nel ’39, all’età di venticinque anni, dopo aver girovagato per le facoltà di filosofia, medicina e giurisprudenza, nella quale ultima si sarebbe poi laureato con Gioele Solari, trovò un impiego nella Direzione della Fiat, e proprio in questa sede sono le origini della sua riflessione sul mondo del lavoro in una società sempre più industrializzata e tecnologica. Nel ’41, dopo essere rientrato dal fronte albanese, dove aveva contratto un’infezione malarica, ed essersi rimesso in salute, avviene la sua riconversione al cattolicesimo, dopo averlo abbandonato alla fine degli studi liceali e aver abbracciato il liberalismo crociano. E, subito dopo, inizia la sua esperienza politica nel gruppo romano dei cattolici comunisti, il cui fulcro teorico era costituito da una acquisizione del materialismo storico marxiano di cui però si disconosceva la coessenzialità, ritenuta necessaria dall’ortodossia marxista di quel periodo, rispetto al materialismo dialettico: una posizione molto vicina a quella che, all’incirca in quegli anni, sarebbe venuta elaborando anche il marxista Galvano Della Volpe. In tal modo, il materialismo storico perdeva il suo carattere ideologico necessitante, per cui l’esito del processo storico di sviluppo borghese-capitalistico potesse essere predeterminato e individuato nella dittatura del proletariato e in una società senza classi, per assumere un significato puramente tecnico e configurarsi quindi come tecnica di azione politica in una prospettiva di mutamento rivoluzionario dell’ordine esistente.  

Il passaggio successivo sarebbe stato dalla sinistra cristiano-cattolica, che nel frattempo viene sconfessata dal Vaticano, nelle fila del Partito comunista italiano, in quanto la posizione classista del PCI, e quindi la radicale messa in discussione dell’iniqua struttura economico-sociale e dei valori conservatori e reazionari dell’Italia nata dal fascismo, gli appariva più coerente di quanto non fosse una posizione interclassista come quella della Democrazia Cristiana, rispetto al nucleo fondante del messaggio evangelico: il tema della libertà, dell’eguaglianza, della condivisione materiale e spirituale dei beni.

Tuttavia, la sua indole rigorosamente cattolica non gli avrebbe consentito di rimanere a lungo nel Partito comunista, di cui scorgeva sempre più chiaramente la costitutiva grevità ideologica, la vocazione illiberale e quasi mistica ad anteporre gli interessi e i diritti della “massa”, del “collettivo”, del “partito”, a quelli dell’individuo, del singolo, della persona, termine quest’ultimo particolarmente caro al cattolico Balbo come al suo fraterno amico Adriano Olivetti, termine secondo cui la persona, la sua dignità, appunto costituivano un valore originario e irriducibile a qualunque categoria o ad istanze da cui in realtà potesse discendere la loro violazione, come per esempio una sovranità dispotica dello Stato, la pretesa del partito di essere depositario della verità universale delle cose e strumento privilegiato di perseguimento del bene comune al di là di ogni possibile interesse particolaristico e di qualsivoglia esigenza individuale o personale, il diritto della maggioranza di governare, anzi di comandare mettendo la mordacchia alle minoranze non su questioni di manifesta futilità o indecorosità ma su questioni di oggettiva e vitale importanza civile ed esistenziale. Perciò, è del tutto fuorviante, almeno per quanto riguarda Balbo, quel che si veniva sostenendo molto polemicamente in un saggio di circa quarant’anni or sono, e cioè che l’intero gruppo di cattolici comunisti, stretto com’era tra le due chiese della Chiesa universale di Roma e del partito comunista, avrebbe dato al partito “la priorità”10 .

E’ vero invece che, su L’Osservatore Romano del 2 febbraio 1952, compariva un’autocritica di tutti gli intellettuali cattolici che erano confluiti nel PCI, tra cui naturalmente lo stesso Balbo, nella quale autocritica si giudicava la fede cristiana come incompatibile con la possibilità stessa di far parte del partito comunista. La verità era, almeno nel caso specifico di Balbo, che, come cattolico, desiderasse stare tra i comunisti con la speranza, coltivata certo con grande riservatezza, di “evangelizzarli” e quindi di ricondurre i loro pur generosi disegni di lotta per l’emancipazione economica, sociale e culturale di un’umanità sofferente sulla via della fede cristiana e all’interno di una concezione trascendente della vita e della storia, mentre, in sede politica, come cattolico militante più che come teorico comunista, avrebbe sperato di poter portare il cattolicesimo istituzionale su posizioni socialmente più impegnate ed avanzate e, per così dire, più di sinistra.

Nella dichiarazione autocritica di cui sopra si riconosceva «l’impossibilità per un cattolico di appartenere ad un partito comunista o di appoggiarlo, conformemente a quanto è affermato dalla Chiesa». Ma, «a seguito di polemiche reazioni de “l’Unità” e dell'”Avanti!”, il 5 aprile l’organo vaticano pubblicava una “precisazione” nella quale Balbo ed i suoi amici sottolineavano il senso religioso e non politico del loro gesto, riferito alla Chiesa e non al partito democratico-cristiano, e ribadivano il “riconoscimento delle esperienze, dei contatti culturali ed umani di cui l’appartenenza al Pci è stata occasione”» 11. Opportunamente si è osservato che «la dichiarazione e la precisazione ebbero un valore esemplare: in una situazione in cui l’egemonia democristiana confondeva in modo spesso inestricabile la Chiesa con il partito, la dichiarazione di Balbo e dei suoi amici rappresentò uno dei pochi momenti della vita culturale e politica italiana in cui apparve netta la distinzione. La dichiarazione non sarebbe mai stata strumentata né dalla De né dall’Azione cattolica: nessuno dei firmatari sarebbe divenuto democristiano. Era stata, la loro, un’adesione – e di conseguenza una militanza – più ideale e culturale che politica in senso stretto; adesione problematica e all’insegna di una ricerca che Balbo aveva alimentato con qualche sporadico articolo per “l’Unità”» 12.

Tuttavia, il dato filosofico e politico di fondo era che, alla fine, Balbo dovette prender atto che il problema di coniugare il cristianesimo con il comunismo era in realtà un falso problema, dal momento che bisognava riconoscere, contro ogni possibile illusione, che l’uno e l’altro non potessero felicemente integrarsi per un fondo apparentemente simile di umanità che sembrava accomunarli, non potendo sfuggire ad un’analisi oggettiva come l’ideale comunista e l’ideale evangelico di liberazione fossero radicalmente diversi ed eterogenei: il primo prevedeva pur sempre una liberazione meramente terrena e quindi, nella migliore delle ipotesi, ancora parziale e limitata perché duramente condizionata dalla morte, il secondo prevedeva invece una liberazione totale, integrale, perché capace di non essere più soggetta alla morte stessa. L’umanesimo ateo e l’umanesimo religioso, evangelico e cristiano-cattolico, non sono umanesimi compatibili, perché, per il cattolico, non credere in Dio e nel Dio che salva perdonando significa semplicemente non credere nell’uomo e nelle sue più profonde possibilità emancipatrici già nell’ordine delle cose terrene e storiche.

Alla linea togliattiana di politica culturale, peraltro, Balbo preferiva significativamente quella di ispirazione vittoriniana, più problematica e aperta alle più interessanti voci critiche della cultura internazionale del tempo, anche se proprio la polemica che Togliatti da un certo momento in poi avrebbe condotto nei confronti di Vittorini, reo a suo parere di non essere abbastanza organico al partito, lo convinse ad uscire del tutto dall’area culturale sottoposta all’influenza diretta o indiretta del partito stesso 13. E, per sottrarsi da una parte al montante integralismo clericale e dall’altra  al sempre più pressante zdanovismo nel PCI, sarebbe approdato, nel maggio-giugno del 1950, con Mario Motta, Franco Rodano e altri intellettuali cattolici di sinistra, alla fondazione e pubblicazione della rivista da tempo vagheggiata, “Cultura e realtà”, dove cioè fosse finalmente possibile non condizionare la ricerca con l’ideologia e la cui funzione fosse sì quella di dirigere, cioè di dare una direzione educativa e formativa, ma di dirigere culturalmente, criticamente, e non politicamente secondo l’ortodossia di un partito politico 14. Nel ’50 sarebbe stata sancita anche la sua fuoriuscita dal PCI con il mancato rinnovo della tessera di partito.

Solo qualche anno più tardi, nel 1956, dopo aver ottenuto una cattedra di filosofia morale all’università di Magistero di Roma, mentre sul piano filosofico continuano i suoi studi intorno a tematiche filosofiche di forte intonazione etica e antropologica come quella di Simone Weil e di Teilhard de Chardin, viene assunto all’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), principale azienda pubblica dell’economia italiana che avrebbe assolto una specifica funzione di politica industriale. Qui Balbo, avrebbe dimostrato non solo il suo profondo acume filosofico ma anche insospettate competenze economiche e sociologiche, convergenti nella posizione teorica illustrata in apertura di capitolo e finalizzate all’analisi di forme avanzate di direzione e organizzazione manageriali del mondo del lavoro 15. Da questa immersione esistenziale nel mondo del lavoro, anche il suo pensiero filosofico avrebbe acquistato in maggiore concretezza e in più proficua adesione all’idea progettuale di un’umanità senza miti, senza illusioni, senza facili utopie, ma volta a cercare varchi di graduale miglioramento in una realtà storico-politica ed economico-sociale molto più accidentata e più difficile da decifrare di quanto non fosse apparso ai grandi teorici rivoluzionari della modernità e di quanto non apparisse ancora nel presente agli epigoni o continuatori di quest’ultimi.

In particolare, nelle sue opere più mature, come per esempio Idee per una filosofia dello sviluppo umano del ’62, egli esprimeva il convincimento che il progresso sociale, l’evoluzione sociale in senso egualitario, l’emancipazione umana, non richiedessero necessariamente e soprattutto realisticamente rotture e inizi radicali, visioni palingenetiche di lotta politica, per cui ogni volta si dovesse fare tabula rasa dell’esistente partendo da zero ma fosse invece necessario “ricominciare continuando” sulla scia di opere feconde, proficue, precedentemente realizzate, e suscettibili di sviluppi utili alle ulteriori fasi emancipative dell’umanità come, innanzitutto, di singoli gruppi di lavoro o di specifiche realtà comunitarie.

In tal modo, Balbo si sforzava di elaborare un pensiero critico sulla tematica del lavoro e dello sviluppo al di fuori di logiche aprioristiche, metafisiche (metafisica è anche quella marxiana anche se metafisica dell’antimetafisica), deduttive, utopiche e, alla fine, ideologiche, ma aderendo rigorosamente alla imprevedibilità della storia e a suoi fenomeni strutturali che tali continuano ad essere anche oltre tutti i mutamenti rivoluzionari cui possano risultare soggetti. E, per questo stesso motivo, nell’ultima fase della sua vita si sentiva costretto a ripudiare il suo precedente tentativo di sganciare il materialismo storico dal materialismo dialettico ritenendo che il primo fosse in realtà inscindibile dal secondo, che cioè l’interpretazione materialistica della storia avesse il suo necessario e insostituibile presupposto logico nel metodo dialettico, fondato sui concetti di contraddizione e di superamento, intesi come vere e proprie leggi ontologiche dello sviluppo storico, pur costituendo semplici espedienti teorici per giustificare la previsione scientifica dell’avvento di una società senza classi, il quale avrebbe potuto essere ritardato da tutta una serie di variabili storiche ma non impedito se non per una prolungata carenza di volontà di lotta nel campo degli sfruttati e degli oppressi 16.

  1. La filosofia come tecnica nell’orizzonte di una filosofia dell’essere. 

Il travaglio teorico di Balbo, in sostanza, mirava ormai ad una deideologizzazione della filosofia, a riportarla alla sua funzione tecnica di analisi descrittiva rigorosa della realtà, di interpretazione dei dati e dei fenomeni oggettivi in cui quest’ultima viene articolando la sua struttura, e di organizzazione critico-selettiva e critico-integrativa dei diversi aspetti e piani del conoscere e del sapere. La filosofia come tecnica, pur sempre perfettibile ma dotata di sue regole e procedure logico-metodologiche ricavate dal graduale affinamento storico-culturale della razionalità umana e della razionalità umana applicata al mondo dell’esperienza, può essere funzionale ad una liberazione dell’uomo da ogni genere di miti, e quindi da illusorie costruzioni metafisiche come da inverificate e inverificabili rappresentazioni e interpretazioni utopistiche del reale, o come da teologie avulse dai concreti e problematici dati esistenziali del vivere storico-umano, e pertanto condannate a risultare parziali, unilaterali e spiritualmente sterili o improduttive.

Questa filosofia così intesa può ben porsi al servizio di una “nuova umanità”, benché l’immagine di “uomo nuovo” sia un’immagine fin troppo abusata della modernità. Ma forse questo tentativo di ridurre il sapere filosofico a pura tecnica doveva rivelarsi a sua volta pretenzioso, non meno pretenzioso di come si era rivelato il pur generoso tentativo di Edmund Husserl di dar luogo ad una filosofia scientifica senza presupposti. Di tale difficoltà si accorge però lo stesso Balbo, il quale infatti non solo precisa che l’efficacia della tecnica dipenderà pur sempre dall’uso che di essa si verrà facendo ma viene indicando anche il modo in cui tale uso potrà risultare corretto e idoneo allo scopo prefissato, modo consistente in una riconversione all’essere, che però è il risultato di una valutazione, di una scelta morale soggettiva, oltre che di un legittimo seppur unilaterale giudizio teoretico, perché riconvertire il pensiero all’essere comporta una partecipazione del pensiero all’essere, un’idea di pensiero, tanto nella sua dimensione conoscitiva ed epistemica quanto in quella etica e spirituale, e quindi un’idea di umanità come essere partecipato, un concetto tipicamente tomistico molto caro a Balbo che pure avrebbe rivisitato criticamente il pensiero di san Tommaso.

Alla fine, dunque, appare un po’ problematico coniugare l’istanza balbiana della filosofia come tecnica con quella che Vittorio Possenti, riferendosi alle posizioni dell’ultimo Balbo, definisce senza mezzi termini come “filosofia dell’essere” 17. L’Essere, per Balbo, era ad un tempo l’identico e il molteplice, immutabilità e divenire, trascendenza ed immanenza, essenza ed esistenza,  eternità e storicità: facce dello stesso processo, ma facce non contrapposte e separate bensì correlate e interconnesse.

Proprio per questo la filosofia dell’essere non poteva rimanere astratta rispetto agli enti storici, come accadeva ancora nell’impostazione realistico-ontologica di Tommaso, ma doveva esercitare criticamente la sua indagine nel mondo stesso del mutevole, della processualità fisico-naturale e storica, per cogliere volta a volta nel variare, nel trasformarsi degli enti medesimi, i segni, i significati essenziali, fondativi, ontologicamente costitutivi dell’essere. Ragionare sulle cose del mondo doveva consentire di risalire alle cause ontiche delle cose mondane, che altrimenti sarebbero rimaste oggetto di una comprensione razionale pur sempre parziale, frammentaria, limitata e unilaterale, unitaria ma incompiuta, del mondo e della vita. Nel divenire fisico e storico degli enti doveva essere colta l’identità dell’essere, così come l’essere non doveva continuare a porsi come oggetto di mera postulazione, ma essere indagato all’interno stesso della problematicità, della multilateralità, della complessità del reale, fino a penetrare nelle criticità più carnali, terrene e dolorose dell’esistenza umana. In questo senso, il marxismo come scienza per eccellenza della società avrebbe potuto costituirsi come formidabile strumento razionale di analisi delle cause storico-strutturali delle specifiche dinamiche economico-sociali e dei relativi riflessi politico-culturali del mondo moderno e contemporaneo. Non però necessariamente in contrasto con una prospettiva religiosa e trascendente della storia, bensì pur sempre all’interno di una filosofia dell’essere, alla luce della quale la struttura o l’ordine del mondo non è costruito storicamente ma ci è dato ab aeterno.

D’altra parte, il maggior errore contestato da Balbo a Marx è la sua pretesa di riduzione totale del pensiero, come dell’intero sentire dell’uomo e della sua spiritualità, alla prassi, che è una posizione palesemente dogmatica in quanto in tal modo non resta più spazio per un margine critico che trascenda la prassi, per quel margine critico che è invece coessenziale alla natura stessa dell’attività razionale del pensiero e che nessuna prassi potrà mai sopprimere. Il pensiero, in quanto ricettivo della verità del reale, a mezzo della sua capacità di elaborazione critico-astraente, immette in quell’ordine del reale o dell’essere, in quella fitta  trama di significati ontici che rinviano alla dimensione dell’agire, della prassi per l’appunto, in cui gli uomini si inseriscono con il lavoro e per realizzarsi attraverso il lavoro. In questo senso, è probabile che l’approccio di Balbo al marxismo non sia tanto di natura politica quanto soprattutto metafisica. 

4. Il problema del lavoro in una prospettiva postmarxista.

La questione del lavoro, in Balbo, diventa pertanto centrale non in vista della lotta rivoluzionaria per il comunismo, ma in conseguenza della centralità metafisica che il singolo, la persona, viene assumendo, ai fini della sua piena integrazione umana e di relazioni umane interpersonali fraterne e solidali, nell’ordine generale dell’essere. Balbo, ha scritto Ferrarotti, «fra i post-crociani è il primo a capire perché non possiamo non dirci marxisti», ma egli «sa o intuisce che il marxismo, nelle sue molteplici incarnazioni, in fondo altro non è che un’eresia del cristianesimo» 18, espressione quest’ultima già usata in precedenza da Jacques Maritain. Balbo condivide questo giudizio critico con Giuseppe Dossetti, al quale rimase legato durante gli anni quaranta e fino ai primi anni cinquanta, e come Dossetti, quindi, dopo aver sperato per un certo periodo di tempo di poter indurre i dirigenti del PCI a prendere quanto meno le distanze dal tradizionale ateismo dottrinario di origine marxista, combatte il mar­xismo, contesta la sua mitologia, la sua pregiudiziale antireligiosa, pur non temendolo a differenza dei conservatori e di molti cattolici italiani: anzi, lo sfida in umanesimo, in radicalismo, in slancio innovatore, soprattutto in ordine a quell’inderogabile istanza etica di trasformazione qualitativa delle condizioni di lavoro, dentro la fabbrica e fuori di essa, che obiettivamente i quadri dirigenti del partito comunista faticavano molto a ritenere realisticamente perseguibile a breve e medio termine. 

In effetti, il comunismo, per quanto fallimentare sul piano storico e generatore di spaventose tragedie, era   un messianesimo umanitario, immanentista, materialista, che aveva rappresentato e rappresentava  comunque una speranza attrattiva per milioni e milioni di esseri umani Che quell’“eresia” conservasse un suo fascino persino agli occhi di tanti cattolici non solo in Italia ma in diverse parti dell’Europa e del mondo, per via del suo essere in apparenza funzionale ad una possibilità di attuazione storico-immanente di quegli stessi valori evangelici destinati però a restare, nell’ottica cristiana, confinati o relegati in un mondo sempre di là da venire perché trascendente ogni orizzonte storico-temporale, era qualcosa da cui non potevano prescindere né Dossetti, né Balbo, anche se ambedue, in modi diversi, alla fine avrebbero rinunciato alla speranza di poter fare del partito comunista italiano un prezioso strumento di lotta politica e culturale nel quadro di un rigoroso impegno laico da cui non fosse esclusa l’apertura intellettuale e morale ad una dimensione religiosa e, più esattamente, alla fede cristiana e cattolica, in quanto essi sentivano che in un mondo in cui la presenza del sacro si fosse completamente eclissata e fosse venuto meno l’apporto di un sentire religioso, difficilmente certi valori morali universali che sono alla base di comportamenti ancora virtuosi pur se difettosi e di una vita associata ancora civile pur se contraddittoria e non priva di ostacoli, avrebbero potuto conservare intatta la loro solidità e una loro efficace funzionalità rispetto al disegno politico di un ordinato, libero e democratico sviluppo delle capacità di ogni uomo-cittadino nel rispetto dei bisogni materiali e spirituali di ognuno e di tutti 19.

Ma che il contesto ontologico non impedisse a Balbo di restare fino alla fine ancorato ai processi oggettivi della storia, è dimostrato dal suo persistente e coerente interesse per il triplice nesso tra filosofia, tecnica, società industriale sempre più meccanizzata, e per le condizioni di lavoro in ogni settore produttivo della nazione e, più segnatamente, in fabbrica in cui la macchina avrebbe subito manifestato la sua ambiguità di fondo rivelandosi ad un tempo preziosa alleata nell’immediato dell’operaio e suo temibile antagonista per il futuro. Per Balbo il lavoratore, l’operaio, non producono solo merci ma anche ricchezza, ricchezza materiale, che però è anche ricchezza intellettuale, morale, sociale; essi, in quanto esseri umani sono valore in sé, non semplice forza-lavoro, semplici produttori e riproduttori di merci, per fini e obiettivi che non gli appartengono, che gli sono estranei, essendo funzionali all’indefinito arricchimento altrui; essi non possono essere solo mezzo e oggetto passivo di un impersonale processo produttivo, né semplici creatori di valore-lavoro ma anche o soprattutto soggetto e beneficiario diretto e indiretto del valore-lavoro che egli stesso produce. Il lavoro non può essere concepito ed esercitato come forma di alienazione, ma come condizione di creatività responsabile di cui possano beneficiare in egual misura tutti i membri attivi della società 20.

Questi concetti, occorre precisare, non erano affatto di derivazione marxista ma di derivazione biblica, anche se per secoli il lavoro era stato interpretato esclusivamente, in seno alla stessa cristianità, come un castigo o una mera necessità di sussistenza e non anche come una vocazione, una chiamata divina a redimersi trasformando il mondo e glorificando Dio attraverso l’attività creativa umana che nel lavoro poteva trovare la sua più completa esplicazione. Era principalmente attraverso il lavoro e l’ordinarietà delle attività quotidiane che la dignità personale avrebbe potuto realizzarsi e che l’uomo avrebbe potuto incontrarsi con Dio. Tali concetti, tali idee erano a quel tempo del tutto originali e innovative anche se solo successivamente sarebbero state recepite e fatte proprie dalla Chiesa con il Concilio Vaticano II.

Il lavoratore, l’operaio, il produttore di ricchezza economica e sociale, constano di un loro essere morale che viene scandendosi come intelligenza, sensibilità,  relazionalità sociale, e tale essere necessita tuttavia dell’avere, del possedere, perché è l’avere che consente al loro essere di conservarsi e di continuare ad essere anche attraverso quella che è una sua tipica potenzialità esplicativa, ovvero la propensione naturale al dare e al darsi, all’essere attivamente e solidarmente partecipe dei bisogni, delle necessità, delle sofferenze e delle esigenze altrui come del gruppo di lavoro e dell’intera comunità sociale di appartenenza. Peraltro, Balbo non avrebbe omesso di sottolineare la non unidimensionalità dell’essere umano, in un’epoca in cui ancora nessuno aveva affrontato in modo sistematico questa questione, e quindi il tema dell’uomo come realtà globale di anima e corpo, di spirito e materia, di coscienza e di insopprimibili bisogni psico-fisici.

Egli intuiva infatti che se era certamente totalitaria la società comunista sovietica per via delle sue strutture oppressive e repressive di potere e della negazione di qualunque forma di libertà individuale e personale, anche la moderna società industriale finiva per condannare l’uomo, il lavoratore, ad una vita di produzione e di consumo sulla base del sistematico sfruttamento della sua forza-lavoro e del totale asservimento della loro libertà alla logica capitalistico-produttivistica dell’accumulo indefinito di merci e del profitto illimitato di coloro che possedevano gli strumenti di produzione. La razionalità tecnologica, o meglio il suo uso, le forme accentrate e monopolistiche in cui essa viene esercitata, tutte finalizzate ad una produzione quantitativa di beni di consumo, pur favorendo per certi aspetti le basi materiali della libertà umana, finisce di fatto per alimentare istanze proprietarie, pubbliche o privatistiche, di dominio, che sono ad essa assolutamente antitetiche, e per svuotare così di senso etico tutti gli aspetti della civiltà contemporanea.

In questa visione di sapore marcusiano, in parte realistica, in parte forse troppo pessimistica, c’era molto di vero, anche se Balbo non pensava che la soluzione alle contraddizioni, alle anomalie e alle storture del sistema capitalistico potesse essere trovata nel violento rovesciamento del sistema stesso, che avrebbe riprodotto inevitabilmente le condizioni di ulteriore violenza, ma in una avveduta riforma delle regole stesse di funzionamento del sistema industriale e delle stesse tecniche di lavoro, sì da farne rientrare gli effetti più perversi, migliorando sensibilmente le condizioni di vita dei lavoratori, e consentendo loro non di affrontare la propria esistenza in modo coattivamente unilaterale ma di svilupparla, insieme alla propria personalità, in modo tale che tanto la cultura, la scienza, l’arte, quanto le automobili e altri beni generalmente ma erroneamente ritenuti utili in contrapposizione alle prime e quindi a beni più astratti e immateriali ma ugualmente preziosi dell’ingegno e dello spirito umani, concorressero alla piena e integrale realizzazione del loro essere, perché tutti in egual misura necessari a soddisfare esigenze primarie della vita umana. 

La ricerca della giusta forma sociale del lavoro, più che la critica dello Stato o dell’assetto giuridico-economico della società, diventava allora un problema di vitale importanza ai fini di un sistema economico-produttivo realmente efficiente e non foriero di troppo traumatiche scissioni sociali, di un sistema in cui non vengano più perdendosi di vista gli aspetti etici, relazionali e sociali del lavoro, che sono poi quelli da cui può dipendere un di più o, al contrario, una riduzione di conflittualità sociale, e quindi una maggiore o minore compattezza e organicità funzionale della stessa struttura sociale. Anche in questo caso Balbo riproponeva una filosofia senza miti, non facili ricette per le cucine dell’avvenire, per riprendere un’espressione marxiana, ma analisi tendenzialmente rigorose, supportate dalla consapevolezza della complessità dei problemi della moderna società industriale e un approccio diretto alla realtà contemporanea, un approccio non speculativo e mosso da aspettative utopico-palingenetiche, ma fondato su precise osservazioni empiriche e attendibili studi sociologici.   

C’era, certamente, un orizzonte antropologico, spirituale e religioso entro cui questi laboriosi e proficui sforzi interpretativi venivano svolgendosi, e tale orizzonte è quello in cui l’uomo non si dispone più a subire come fato ineluttabile i processi alienanti, impersonali e disumanizzanti della storia, ma ad interagire energicamente con essi, per correggerne le traiettorie più nefaste e riprendere in mano il proprio e originario destino biblico di creatura destinata, seppur resa vulnerabile dal peccato, a dominare responsabilmente sulle forze naturali del creato senza esserne dominato e a instaurare con i suoi simili una significativa, benché imperfetta e solo perfettibile, trama di relazioni umane all’insegna della carità cristiana.

NOTE

1. F. Balbo, La funzione dell’intellettuale, in “Opere”, Torino, Boringhieri, 1966, p. 567.

2. G. Invitto, Le idee di Felice Balbo. Una filosofia pragmatica dello sviluppo, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 152.

3. Ivi, pp. 153-154.

4. Ivi.

5. Lettera dell’Archivio Balbo, citata da A. Grotti, Saggio su Felice Balbo, Torino, Boringhieri, 1984, p. 56.

6. F. Balbo, Cultura antifascista, in “Il Politecnico”, 1947, n. 39, pp. 1-2.

7. F. Balbo, Il futuro e l’al di là. Note di ricerca metafisica sull’uomo (1956), in Idee per una filosofia dello sviluppo umano, Torino, Bollati Boringhieri, 1962, poi in Opere, Bollati Boringhieri, 1966, p. 469.

8. A. Landolfi, Il gladio rosso di Dio: storia dei cattolici comunisti, Roma, Seam, 1998, p. 21. Tesi interpretativa cui fa eco anche quella di chi, pur sostenendo la grande serietà di fondo di giovani cattolici comunisti come Balbo o Franco Rodano, finisce tuttavia per ipotizzare che il loro convinto operaismo non fosse tanto il portato della loro originaria formazione cattolica quanto dei loro successivi studi teorici e metodologici di inequivocabile estrazione storico-materialistica e gramsciana: G. Scirè, Dopo la sinistra cristiana. Balbo e Rodano da “Il Politecnico” a “Cultura e realtà”, in “Italia contemporanea”, dicembre 2002, n. 229, p. 704.

9. F. Lamendola, All’origine del cattolicesimo di sinistra: la filosofia dossettiana di Felice Balbo, in “Il Corriere delle regioni” del 31 agosto 2015. Per diverse ragioni è da prendere decisamente con le pinze il disinvolto e sprezzante giudizio critico espresso da questo autore su un’intera generazione di cosiddetti cattolici “di sinistra”, il cui capostipite viene appunto individuato in Felice Balbo: «Il germe del radicalismo di sinistra, dell’intransigentismo rivoluzionario e barricadiero, non proviene solo, e non proviene in prima istanza, dalla tradizione marxista italiana, non proviene da Turati, o da Labriola, o da Bordiga, ma da alcuni “professorini” cattolici, che avevano sul comodino non il “Capitale”, ma la Bibbia, e perfino da alcuni preti: giovani come Dossetti e Lazzati, come Rodano e Ossicini, come La Pira e Fanfani. Alcuni di essi sarebbero poi confluiti nel Partito comunista, altri ne sarebbero usciti; tutti, comunque, avrebbero criticato l’immobilismo e il conservatorismo di De Gasperi e avrebbero auspicato un profondo, radicale rinnovamento dell’intera società italiana, sulla base di un egualitarismo che aveva poco da invidiare a quello marxista. Oggi sono arrivati a occupare le posizioni chiave sia nello Stato italiano, sia nella Chiesa cattolica: è il loro grande momento».

10. Cfr. F. De Giorgi, « Cultura e realtà » tra comunismo e terza forza, in “Italia contemporanea”, dicembre 1981, fasc. 145, pp. 59-75.

11. S. Santamaita, Non di solo pane. Lo sviluppo, la società, l’educazione nel pensiero di Giorgio Ceriani Sebregondi, Città di Castello, Fondazione Adriano Olivetti, 1998, pp. 43-48.

12. Ivi. Per una ricostruzione attendibile del rapporto tra comunisti e cattolici nel secondo dopoguerra si può vedere anche: G. Scirè, Le carte Gozzini. Il dialogo tra cattolici e comunisti nel secondo dopoguerra, in “Italia contemporanea”, dicembre 2003, n. 233, pp. 707-730.

13. Si accenna a questo triplice rapporto in G. Invitto, Il pensiero di Felice Balbo. Una questione aperta, in “Italia contemporanea”, dicembre 1980, fasc. 141, pp. 100-101.

14. F. De Giorgi, « Cultura e realtà » tra comunismo e terza forza, cit.

15. Cfr. F. Ricciardi, Un filosofo in impresa. Felice Balbo e la formazione manageriale all’Iri, in “Studi Storici”, ottobre-dicembre 2016, 4, pp. 823-842.

16. Cfr. opere come: F. Balbo, L’uomo senza miti, Torino, Einaudi, 1945; Il laboratorio dell’uomo, Torino, Einaudi, 1946; La sfida storica del comunismo al Cristianesimo e le sue conseguenze filosofico-sociali, Bologna, Il Mulino, 1958, 3, pp. 151–158; Idee per una filosofia dello sviluppo umano, Torino, Boringhieri, 1962; le opere di Balbo sono state raccolte e pubblicate da Boringhieri, Torino, 1966. Sulla sensibilità sociologica della filosofia balbiana, da un certo momento in poi del tutto estranea a suggestioni o seduzioni argomentative anche solo inavvertitamente di tipo metafisico e radicata in una specifica consapevolezza per l’appunto storico-sociologica della complessità dei processi produttivi e della difficoltà di garantire alle masse lavoratrici, sia pure a determinate condizioni, condizioni stabilmente e risolutivamente accettabili di vita, si possono vedere: G. Campanini – G. Invitto,  Felice Balbo tra filosofia e società, Milano, Franco Angeli, 1985; G. Invitto, Felice Balbo. Il superamento delle ideologie, Roma, Studium, 1988.

17. V. Possenti, Felice Balbo e la filosofia dell’essere, in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, 1980, 2, pp. 290-317. Rimase incompiuta e uscì postuma, ma non senza un nucleo teorico già abbastanza significativo, l’opera di Balbo Essere e progresso del 1964.

18. F. Ferrarotti, Il conte di Vinadio. Felice Balbo e il marxismo come eresia cristiana, Bologna, EDB,  2016, p. 40.

19. Le speranze di Dossetti e Balbo, sia pure nei rispettivi campi di un cattolicesimo aperto ma prudente e di un cattolicesimo aperto ma più audace, sarebbero state dunque deluse, e, come ha notato opportunamente G. Campanini, «nel 1951, … sembra consumarsi l’illusione, comune e insieme diversa, di Balbo e di Dossetti. La prima, quella di condizionare dall’interno il partito comunista italiano e di potere operare in esso come cattolici; la seconda, quella di condizionare dall’interno la Democrazia Cristiana e di spostarla nel suo complesso a sinistra. L’uscita di Balbo dal PC e di Dossetti dalla DC appaiono cosí in un certo senso il segno emblematico della conclusione di questa vicenda», Fede e politica 1943-1951. La vicenda ideologica della sinistra D.C., Brescia, Morcelliana, 1976, pp. 14-15. Sul tentativo balbiano di utilizzare criticamente il marxismo in funzione di una prospettiva comunitaria basata su pratiche cooperative di lavoro e coerente con i valori cristiani, cfr. Felice Balbo, La sfida storica del comunismo al Cristianesimo e le sue conseguenze filosofico-sociali, Bologna, Il Mulino, 1958, 3, pp. 151–158. Sul modo di interpretare il marxismo in relazione all’istanza religiosa e cattolica, cfr. N. Ricci, Cattolici e marxismo. Filosofia e politica in Augusto Del Noce, Felice Balbo e Franco Rodano, Milano, Franco Angeli, 2008.

20. Cfr., a cura di G. Rivolta, Felice Balbo tra storia e attualità. Una rinnovata filosofia dell’essere per lo sviluppo integrale dell’uomo, Milano, Ipoc, 2017.

Francesco di Maria

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