Popolo, democrazia: limiti e ambiguità

Come scriveva Cicerone nel De re pubblica, 1, 25, il popolo, in senso giuridico-politico, non è «ogni agglomerato di uomini riunito in un modo qualsiasi, bensí una riunione di gente associata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza degli interessi». Quindi il rispetto della legge e di princìpi condivisi di giustizia da parte di tutte le forze politiche, che si contendono il potere nel quadro di un pacifico confronto dialettico da esse concordemente accettato, è ciò che fa realmente di una comunità umana un popolo, il quale non va confuso con il semplice volgo, con la massa o la plebe, mossi generalmente da un oscuro e istintivo sentimento di rivolta e di rabbia sociale.

Il fondamento del popolo, dunque, dev’essere il diritto che, pur nella sua continua e non arbitraria evoluzione normativa, deve regolare stabilmente tutti i processi legislativi, economici e sociali della vita popolare. D’altra parte, secondo la migliore lezione di Niccolò Machiavelli, senza appoggio popolare non si dà vera stabilità politica, per cui si può ben dire che il popolo è pur sempre il principale protagonista della vita profonda dello Stato.  

Al tempo stesso, al di fuori dello Stato, del diritto che ne è a fondamento e delle sue molteplici articolazioni formali e burocratiche di potere, non sussiste il popolo ovvero, come insegna Hobbes, non sussiste il popolo «come persona e quindi come soggetto di diritti, ma soltanto una moltitudine dispersa e irrimediabilmente conflittuale». In definitiva, la sovranità popolare è possibile solo nelle forme e nei limiti della sovranità esercitata dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali. Il popolo, preso a sé, senza lo Stato, cioè senza le istituzioni politiche e l’organizzazione giuridico-amministrativa rispondenti ad un principio quanto più possibile universale di razionalità anche sotto il profilo etico, è solo un coacervo di istinti e di passioni che comporta necessariamente l’impossibilità o la morte di qualunque forma di vita comunitaria e popolare.

Ciò premesso, tuttavia, il popolo resta libero di fare tutte le scelte che crede, di votare come crede e per chi crede, di farsi rappresentare sul piano politico-istituzionale da soggetti ritenuti, a ragione o a torto, capaci di ben governare e di perseguire efficacemente il bene comune. Senonché, si pone poi una questione di merito perché non è detto che il voto popolare nel suo insieme, quello che in Rousseau veniva incluso nel concetto di “volontà popolare”, sia sempre saggio, condivisibile o rispettabile, oppure privo di potenziali e pericolose  implicazioni per la stessa vita del popolo.

Oggi il sistema democratico si è affermato in molti paesi del mondo perché sembra essere, tra i possibili sistemi politici, il meno difettoso, il meno illiberale e il meno ingiusto sotto ogni punto di vista, come dire non tanto il migliore ma il meno peggio; però, e anche per questo, la democrazia popolare non è bella in senso assoluto né è da tutti apprezzata, specialmente quando si pensa a colui che è il simbolo universale della iniquità e dei danni irreparabili che un regime e una società democratici possono produrre: quel Socrate, il più sapiente e il più giusto degli uomini greci, inopinatamente condannato a morte dalla democrazia ateniese, ben nota peraltro per essere non già una stolta democrazia ma una saggia democrazia.

D’altra parte, è significativo che nel pensiero dei padri fondatori della rivoluzione americana e della rivoluzione francese alla fine del  ’700, da cui sarebbe appunto scaturita la democrazia moderna, non sia tanto presente il termine “democrazia” quanto quello di “repubblica” a dimostrazione di quanto essi diffidassero del fatto che una repubblica potesse essere retta, custodita e garantita dal potere del popolo tout court sostanzialmente identificato con il potere generalmente irriflessivo e irresponsabile della folla.

Socrate e Platone, come molto più tardi i grandi costituzionalisti americani e francesi, orientavano le loro preferenze verso una repubblica di saggi, di persone sapienti e competenti, capaci di governare secondo conoscenza (epistème) e virtù (aretè) il loro popolo, pur da esso continuamente e legittimamente sollecitati a cercare le migliori soluzioni possibili ai fini del bene comune. Ancora oggi, da un punto di vista teorico, sembrerebbe questa un’idea attendibile e condivisibile nel quadro di una società repubblicana in cui si eviti di affidare gli affari dello Stato a persone a caso, privi di preparazione e/o di moralità, elette senza alcun vero discernimento dal popolo o da una maggioranza popolare. E’ un po’ il senso della recente proposta del politologo americano Jason Brennan secondo il quale nelle democrazie rappresentative, a causa di fenomeni populistici sempre più accentuati, sarebbe ormai opportuno pensare di distribuire per legge «il potere politico in proporzione alla conoscenza o competenza» ampliando anche la lista dei requisiti necessari per potersi candidare alle elezioni politiche e amministrative del proprio Paese di appartenenza (Contro la democrazia, Luiss University Press, 2016-2018). Una democrazia quindi epistocratica ovvero fondata sul potere della conoscenza, delle competenze e della probità professionale.       

Sì, ma come individuare questa classe di soggetti davvero competenti, seri, responsabili e razionali? Come essere certi che, pur formalmente qualificati e dotati di grande razionalità, essi ispirino o conformino sempre le loro decisioni, i loro atti politici a criteri di razionalità. Non c’è infatti uomo che, in qualche misura, non sia un misto di razionalità ed impulsività, di rigore critico e disordine morale, e che di conseguenza non possa subordinare la prima alla seconda.  Il vaglio popolare non è sufficiente o può essere addirittura fuorviante e pericoloso, ma in che modo, con quale strumento, con quale organismo di controllo, si può per l’appunto rimediare concretamente e realisticamente a questo inevitabile inconveniente? Peraltro Brennan lamenta un deficit di meritocrazia solo in rapporto alla sfera delle competenze politiche, mentre notoriamente un deficit di meritocrazia intesa in senso tendenzialmente oggettivo e non meramente o arbitrariamente discrezionale sussiste in ogni ambito della vita nazionale: nelle scuole, nelle università, negli ospedali, in tanti ruoli pubblici di tipo dirigenziale, e persino nella Chiesa.

Le repubbliche ideali sono destinate ad essere progetti ideali, non adeguatamente realizzabili, perché anche i suoi reggitori, i filosofi, i sapienti, i competenti, gli esperti, i tecnici, esistono solo nella loro idealità mentre molto difficile è trovarli compiutamente nella realtà. A volte, i saggi possono essere più stolti delle masse popolari e, viceversa, le folle, pur mosse da rabbia più che da una progettualità, nella loro partecipazione alla vita politica possono determinare, per via democratica, situazioni più favorevoli al bene pubblico di quanto invece non riescano ad assicurare taluni ipotetici o reali governi aristocratici, illuminati, tecnici o tecnocratici che dir si voglia. Per esempio, la moderna democrazia nella sua versione più radicale o emancipata è pur sempre figlia di quella rivoluzione francese in parte e in forma moderata pensata dai philosophes settecenteschi ma poi attuata principalmente da masse ignoranti e violente originariamente mosse da una profonda e ingovernabile pulsione distruttiva verso un regime dispotico e oppressivo.

Un autogoverno diretto del popolo, come avrebbe dimostrato anche l’esperienza storica della Comune di Parigi del 1871, non è certo praticabile se non come proposta ideale da perseguire sempre con la massima coerenza possibile; un governo indiretto del popolo, al contrario, è in qualche modo praticabile attraverso coloro che, eletti dal popolo, dovrebbero essere poi in grado di governarlo soddisfacendone le istanze o, almeno, la maggior parte delle istanze prodotte. Ma occorre che, giusta l’istanza posta da Brennan, buona parte degli eletti siano dotati di capacità intellettive, intellettuali e morali non comuni, a prescindere dalle quali persino il programma politico più giusto e solidale non ha alcuna possibilità di successo implicando piuttosto un ineluttabile peggioramento delle condizioni popolari. In questo senso, ha osservato Sabino Cassese, «l’epistocrazia può operare come correzione della democrazia, come un suo limite», anche se non può realisticamente operare «al posto della democrazia. Oggi il suffragio universale è il meccanismo principale per dare legittimità al governo e non se ne può fare a meno. Tuttavia, requisiti ulteriori di candidabilità possono essere disposti, insieme con azioni positive che diano un contenuto al principio di eguaglianza in senso sostanziale, per rendere concreto l’art. 3 della Costituzione» (Perché la democrazia va difesa. Non è il governo degli incompetenti, in “Corriere della Sera” del 20 febbraio 2018).

Ecco perché, in ogni caso, enorme importanza riveste il livello culturale medio del popolo nella sua interezza: senza adeguata cultura, e quindi senza senso civico, senza senso di responsabilità e, in certa misura, senza senso critico, non esiste in senso proprio né un popolo, né una democrazia, né un voto realmente libero e democratico

La democrazia non può esistere a prescindere dalla cultura, che implica anche una certa familiarità con la disciplinata profondità del pensare e l’appassionata ma non rancorosa volontà di giustizia, ma la  richiede come suo presupposto costitutivo. Quanto più esile sarà il rapporto tra popolo e cultura, tanto più facile sarà sia l’avvento di forme autoritarie o dittatoriali di governo sia soprattutto il disconoscimento e il disprezzo del singolo e della libertà personale ad opera di maggioranze fanatiche o violente. Laddove, come notava bene Augusto Del Noce (in “Scritti politici” 1930-50, Rubbettino 2001), ciò che caratterizza la democrazia non è il governo della maggioranza e la tutela puramente formale della o delle minoranze (perché anche i regimi totalitari possono basarsi sul consenso di una maggioranza), ma proprio il rispetto del singolo individuo e della sua libertà personale.

Nell’epoca dei movimenti populistici si ha molto spesso l’impressione che essi siano costituiti in parte da persone non necessariamente preparate, e quasi sempre opportuniste ed arriviste, che guardano con disprezzo e si oppongono strumentalmente alle èlites politiche e di governo solo per cercare di soppiantarle con èlites di cui loro e i propri amici facciano parte, indipendentemente da criteri troppo rigorosi di merito e di integrità morale. Ma quel che colpisce è soprattutto che coloro che vi aderiscono trattano il credo populistico come la condizione necessaria per sferrare una sorta di assalto “democratico” alla diligenza ovvero alle leve statuali del potere al fine di una ridistribuzione teoricamente più egualitaria della ricchezza e delle funzioni sociali ma per nulla basata su un ragionamento che spieghi persuasivamente in quali modi e con quali mezzi essa dovrebbe essere attuata senza minare le fondamenta di un sistema economico e sociale sostenibile e dignitoso almeno per la stragrande maggioranza del popolo.

Fra qualche tempo, dopo le prime esperienze di governo dei vari fronti populisti di questo tempo, sarà più chiaro se dare dell’èlitario a qualcuno sia un insulto più o meno pesante di quello che consiste nel dare a qualcuno del populista. Nel frattempo, però, dovrebbe essere chiaro che parlare del “popolo” e in nome del “popolo” come un’identità indifferenziata, generica e astratta non solo è arbitrario e ingannevole, perché in realtà ogni forza politica rappresenta una parte di quel “popolo” per cui si dovrebbe parlare al più di tanti popoli più o meno grandi all’interno dello stesso popolo nazionale, ma è indubbiamente funzionale a evidenti e pericolose mistificazioni politiche di cui si nutrono i popoli di ogni genere.

Come è stato efficacemente osservato dal filosofo politico Roberto Esposito: « Secondo Badiou quella di popolo è una idea dinamica: la nazione che esso incarna è sempre in qualche modo da costruire, mai del tutto realizzata dallo Stato presente. Credo si debba prendere atto del fatto che la faglia da sempre aperta nella storia dei popoli non è del tutto eliminabile — se non in un futuro remoto i cui contorni ancora non si profilano. Ma che è possibile, e necessario, ridurla al massimo. A tale compito è ordinata la politica. Essa, come la democrazia, non può coincidere con una pura tecnica di governo. Se così fosse, la sovranità popolare sarebbe del tutto risolta nella rappresentanza degli eletti, così da escludere ogni altra forma di espressione politica — partiti, sindacati, movimenti spontanei. Ma così non è. Il potere costituito non risolve mai interamente in sé quello costituente, come il popolo presente non cancella mai completamente quello futuro».

Il popolo, la democrazia non hanno forme definitive, sono in continua evoluzione anche se possono essere soggette a repentine involuzioni e arretramenti qualitativi. La soluzione da dare al problema di cosa sia realmente un popolo e di come esso possa usare la democrazia in modo corretto e utile non può essere trovata facilmente e univocamente ma resta il frutto di una quotidiana ricerca intellettuale e morale sul piano personale e comunitario.

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