Ipotesi sulle ragioni oggettive di una sconfitta politico-elettorale

Se il patto del Nazareno non si fosse spezzato oggi il PD avrebbe raccolto ben altri risultati elettorali: non il 40%, né il 33 o il 34%, perché esso presenta, insieme alla sua indubbia forza modernizzatrice, anche vistose criticità, ma sul 29-30% si sarebbe potuto probabilmente attestare, nonostante la tumultuosa avanzata del partito di Grillo. Ma il patto del Nazareno, intelligentemente voluto da Renzi proprio per assicurarsi una più stabile ed efficace possibilità di governo e per meglio resistere alle poderose bordate populistiche del Movimento 5Stelle, non poteva durare dal momento che, non essendo affetto il giovane segretario del PD da consociativismo cronico, non era possibile accettare il ricatto di Berlusconi: o mandi al Quirinale il mio amicone onorevole Amato oppure della nostra intesa non se ne fa più niente. Come dire: o mi consenti di continuare a fare i miei interessi oppure vai avanti da solo. E Renzi è andato avanti da solo senza tentennamenti di sorta. Questo gesto, anziché suscitare l’ammirazione popolare, purtroppo passò quasi inosservato anche per la sottovalutazione con cui fu commentato da molta stampa.

Da quel momento le cose per il PD, reso più debole dal divorzio politico-diplomatico da Forza Italia, si sono complicate sia in rapporto al piano di riforme che Renzi aveva in mente di attuare, sia in rapporto alla necessità di lavorare ad una ridefinizione, più tenace e vantaggiosa per il nostro popolo di quella che poteva ottenere il laborioso ma troppo bonario Gentiloni, del rapporto tra l’Italia e l’Unione Europea. Sono due elementi essenziali da cui non si può prescindere se si vogliono capire alcune delle ragioni oggettive che hanno determinato poi la sconfitta elettorale dei democratici. Ad essi, naturalmente, bisogna aggiungere almeno altre due cause.

La prima è che Mattarella, ha perfettamente ragione Renzi, avrebbe dovuto sciogliere le Camere lo scorso anno rendendo possibili elezioni anticipate (e il risultato sarebbe stato certamente diverso), anche perché la motivazione addotta allora dal Capo dello Stato per giustificare la nascita del governo Gentiloni, ovvero la necessità di varare una nuova legge elettorale senza cui non si sarebbe potuta garantire la governabilità, si è dimostrata totalmente falsa alla luce delle gravi difficoltà ancor oggi esistenti ai fini della formazione di un governo; la seconda è il fatto che in troppi suoi punti e in troppe regioni il personale politico del partito è marcio e assolutamente bisognoso di essere sostituito e rinnovato radicalmente.

Tra l’altro è impensabile che alcuni parlamentari democratici a giusta ragione chiacchierati, e non necessariamente inquisiti o condannati penalmente, non siano mai disposti, anche dopo due o tre legislature di incarico parlamentare, a mollare la loro poltrona: è ciò che succede per esempio in Calabria dove il PD ha subìto un crollo verticale. Questo non solo è immorale, ma è soprattutto dannoso per il partito. Su quest’ultima questione, forse, Renzi si è attardato, anche se non era semplice per lui, nell’imminenza delle elezioni, praticare un taglio chirurgico solo sulla base di notizie di stampa e della testimonianza isolata di qualche militante.

Però, sono quasi tutte oggettive e largamente indipendenti dalla responsabilità di Renzi (eccezion fatta per la riforma della scuola, terreno delicatissimo, e per la riforma non del tutto adeguata del mondo del lavoro) le ragioni che hanno determinato la crisi attuale del PD, i cui dirigenti, dopo aver in gran parte condiviso i provvedimenti politici voluti da Renzi, non devono commettere ora anche l’errore di privarsi della sapiente e dinamica guida del neosenatore fiorentino, cui solo scioccamente si può rimproverare di essersi chiuso in un suo presunto narcisismo di potere e di non aver tenuto presenti le reali istanze economiche, sociali e occupazionali del Paese. Sarebbe molto grave se essi cedessero alle insistenti e ben interessate pressioni di avversari politici e non solo politici. Peraltro, a dispetto di quel che generalmente si è soliti pensare, non è detto che il voto popolare sia sempre e necessariamente saggio e sensato. Indicativo lo è sempre, ma non sempre purtroppo è saggio, sensato e utile per il futuro politico della nazione. Staremo a vedere, dall’opposizione.

Ed è anche in questo senso che io non concordo essenzialmente con la critica del buon Zingaretti che su questo stesso giornale, pur mettendo in luce la spinta renziana ad un proficuo “rinnovamento generale della Repubblica”,  ha scritto: «Fatto sta che di fronte alle difficoltà (per certi aspetti inevitabili) nell’azione di governo e nel rapporto con diverse categorie di lavoratori, Renzi si è via via isolato, ha ristretto a pochi la plancia del comando, ha sottovalutato suggerimenti e critiche sincere, ha fatto delle sue scelte un credo astratto da perseguire ad ogni costo, si è allontanato, in nome del suo riformismo “radicale”, dalla vita del paese reale. Così ha perso l’empatia, la capacità di movimento politico, lo spazio di una riflessione e di un confronto negli organismi dirigenti capace di correggere il corso delle cose». Non mi pare che le cose stiano proprio così.

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