Matteo Renzi e i fanfaroni della sinistra democratica

Forse questa è la volta buona: se Renzi riesce a resistere agli attacchi concentrici di gran parte delle forze politiche italiane, del mondo sindacale, del mondo accademico, della stampa e della televisione, oltre che della rabbiosa ma insignificante minoranza dello stesso PD, può darsi che l’Italia, sia pure tra molteplici e oggettive difficoltà, possa veder ripartire quel lento ma reale processo di risanamento economico e sociale che, checché ne dicano tutti coloro che in questo Paese vivono di polemica fine a se stessa, era iniziato circa tre anni fa proprio con il governo di Matteo Renzi. Con Renzi al governo si è assistito al ritorno di un’antica sapienza democristiana che, nelle sue migliori espressioni, era riuscita a produrre nel dopoguerra e nei due decenni successivi, insieme a compromessi non sempre decorosi e utili, a squilibri economico-sociali non sempre inevitabili e comprensibili e a livellamenti egualitari meramente demagogici, anche tanto benessere e un avanzamento effettivo delle libertà civili e della coscienza culturale tra le masse popolari. Questo è ovviamente un punto di vista, ma non necessariamente più soggettivistico di altri punti di vista storico-politici.

Certo, il contesto in cui Renzi agisce oggi, molto più di quello di alcuni decenni or sono, richiede che si sia disposti a sgomitare, ad essere molto più determinati e taglienti nell’affrontare la dialettica politica sia all’interno che all’esterno del partito, anche perché nel frattempo è venuta determinandosi uno scadimento piuttosto accentuato del livello culturale della classe politica italiana, e in questo senso il politico fiorentino, apparentemente smargiasso e divisivo, non solo, tra i politici italiani attuali, appare l’unico capace di avere piena consapevolezza della complessità dei problemi che occorre affrontare e risolvere e la necessaria competenza per assumersi nuovamente una precisa

responsabilità di governo, ma, nel fronteggiare in modo coriaceo e sempre puntuale e preciso i suoi avversari interni ed esterni, dimostra di voler favorire altresí un’astuta e graduale selezione politica volta da una parte a liberare il partito proprio dai soggetti ideologicamente più divisivi, come quelli che costituiscono per l’appunto la sinistra minoritaria del PD, e dall’altra a fare del PD un partito sempre più inclusivo e aperto ad apporti democratici validi e qualificati pur se di provenienza culturale e ideologica eterogenea.

A differenza dei D’Alema, Bersani, Emiliano, Speranza, Boccia o l’ambiguo Cuperlo che continuano a parlare di popolo della sinistra senza conoscere peraltro esattamente la vera identità o le diverse possibili identità di questo popolo retoricamente e demagogicamente invocato contro la politica renziana, e senza avere la minima idea di cosa fare e come fare eventualmente per soddisfarne le reali necessità, Matteo Renzi ha una visione d’insieme della pur complessa realtà politico-sociale italiana e confida in una sensibilità popolare nazionale che gli consenta, pur tra errori e contraddizioni inevitabili, di mettere in campo iniziative politiche e finanziarie finalizzate tanto ad un aumento del tasso di produttività e competitività del nostro Paese nel mondo quanto ad un graduale ma sostanziale elevamento di tutti i ceti sociali.

E se Renzi vuole presto le elezioni politiche non è tanto per capriccio o per voglia di riprendersi un potere perduto con il referendum costituzionale (dove la gente, per lo più di destra e sia pure in misura ben più esigua di sinistra è andata a votare appunto sulla costituzione e non, come si continua a ripetere in modo del tutto gratuito, sulle politiche sociali ed economiche di Renzi), quanto principalmente per ben rappresentare e porre in essere le preoccupazioni di un amplissimo numero di elettori che non intendono sentirsi continuamente sbeffeggiati dalle forze populiste e demagogiche di opposizione e dalla stessa minoranza ideologica e velleitaria ancora interna al PD e che, specialmente in un momento in cui l’UE si appresta a chiedere all’Italia di tornare a dissanguarsi, ritengono necessario il ricorso anticipato alle urne per dare al Paese un governo stabile ed efficiente che, nelle speranze di tali elettori, dovrebbe essere nuovamente guidato da Renzi.

Peraltro, le accuse rivolte a Renzi sono semplicemente risibili: dopo l’ultimo referendum costituzionale si sarebbe dovuto ritirare a vita privata, e non si capisce proprio perché, visto che, pur sconfitto sul quesito costituzionale e non già su tutta la sua politica governativa, il PD ha conseguito da solo quasi il 41% dei voti mentre tutti gli altri partiti più parte della sinistra hanno racimolato complessivamente il 59% dei voti; visto che esiste in parlamento una maggioranza a trazione PD e un governo retto dal democratico Gentiloni, non ci sarebbe motivo di anticipare le elezioni politiche (come dicono fanfaroni del PD che tirano solo a campare quali quelli sopra citati), quando invece è ben noto come l’aver voluto prolungare la durata di certe esperienze di governi costitutivamente “transitori” (e non importa se denominati “tecnici” o “politici”) fino alla scadenza elettorale naturale abbia già prodotto in passato più danni che guadagni o vantaggi, proprio perché questo genere di governi riflettono più logiche istituzionali che non logiche politiche derivanti da obiettivi riscontri elettorali; Renzi sarebbe un “prepotente” solo perché, lungi dal voler capitolare dinanzi ai reiterati tentativi di destituirlo da parte dei suoi nemici interni, sta rispondendo colpo su colpo a costoro facendone emergere sempre di più la natura velleitaria e parassitaria; Renzi dovrebbe dimettersi da segretario del PD e non ricandidarsi alla Presidenza del Consiglio perché la sua politica sarebbe stata fallimentare soprattutto in relazione alle fasce sociali più deboli, che sarebbero poi quelle che avrebbero votato maggiormente per il NO al referendum, e perché, sotto il suo governo sarebbero cresciuti solo indicatori negativi come disoccupazione giovanile, diseguaglianze e povertà, là dove questo giudizio, dati alla mano (per i quali qui si rinvia a fonti attendibili cui potrà accedere chiunque ragioni in buona fede), non può non apparire in parte vero ma anche largamente unilaterale o addirittura infondato, e là dove il governo renziano è risultato essere palpabilmente il governo certo non perfetto ma meno cruento e meno drammatico di tutti i governi italiani susseguitisi nell’ultimo quindicennio (dal 2000 al 2015); Renzi, infine, sarebbe incompatibile con il sistema democratico di governo perché sin troppo palese sarebbe la sua voglia di potere per il potere, mentre il vero problema è che, pur essendo forse questa voglia di potere ben comune a molti di coloro che fanno politica, Renzi, a differenza di altri che lo hanno preceduto in posizioni di comando, ha saputo e voluto esercitare sin qui abbastanza brillantemente il comando e il potere per ridurre i troppi e troppo corrosivi centri di potere esistenti in Italia a favore di una più produttiva coesione sociale e di una più efficace unità istituzionale.

Questa, ritengo, è la verità più prossima alla oggettiva realtà dei fatti; il resto appartiene alla chiacchiera e soprattutto a quei fanfaroni della sinistra minoritaria del PD che, quando si saranno finalmente scissi o saranno stati costretti a scindersi da quest’ultimo, avranno decretato un ulteriore merito di Renzi: quello di aver espulso dalla scena politica nazionale e internazionale soggetti politici ampiamente bocciati dalla storia e dalla loro stessa storia personale fatta di volta in volta di opportunismo, supino adattamento a mode economiche transitorie (vi ricordate il liberismo dei D’Alema, dei Bersani, dei Boccia di qualche anno fa?), e segnata soprattutto da clamorosi insuccessi politici ed elettorali. Quel che Renzi sembra aver argutamente compreso è che né indirizzi politici (per esempio democrazia liberale o democrazia autoritaria) né indirizzi economici (come liberismo o protezionismo) né indirizzi teorici (come individualismo o comunitarismo) possono essere assolutizzati e assunti come criteri aprioristici o definitivi di governo.

Renzi è un degno erede della migliore lezione politica di Niccolò Machiavelli, che è quella per cui il vero statista deve fare tutto quel che occorre, anche al di qua o al di là di certe astratte e rigide regole morali socialmente ma spesso anche ipocritamente condivise, non per scopi personali di potere né per mortificare o dividere il corpo sociale e smembrare o indebolire lo Stato bensí per accrescere il benessere collettivo emarginando quanti lo ostacolino e per rafforzare il più possibile quell’unità comunitaria senza la quale la fortuna dello Stato è condannata a restare una pura e semplice utopia. Da parte cattolica, si vorrebbe che fosse anche un degno erede della originale lezione evangelica (non spaventi l’accostamento, su cui si conta di ritornare in questo stesso blog, tra due termini, pensiero machiavelliano e spirito evangelico, apparentemente inconciliabili), ma su questo terreno il giovane e cattolico Renzi dovrà faticare molto di più.

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