L’altro Leopardi: l’inquieta, informale teoresi

Giacomo Leopardi ebbe una forma mentis filosofica e una vocazione poetica: per questo motivo, pur non scrivendo mai né trattati né saggi di taglio tradizionalmente e specificamente filosofico, avrebbe riversato nei suoi musicalissimi e ispiratissimi versi, come nelle sue stesse riflessioni anticonformistiche in prosa, un non comune acume critico e una inconsueta potenza speculativa. D’altra parte, il caso Leopardi, se si vuol dir così, non sarebbe stato privo di qualche illustre precedente: mi viene in mente, per esempio, il padre della filosofia dell’essere, quel Parmenide di Elea che parlava e scriveva intorno alla verità dell’essere per l’appunto in versi, senza che per questo subisse obiezioni e polemiche da parte dei suoi più illustri contemporanei. Peraltro, anche oggi non mancano filosofi, come Giorgio Agamben, che sostengono la perfetta compatibilità, e anzi un rapporto di necessaria integrazione,  tra pensiero filosofico, ovvero «il puro senso», e pensiero poetico, ovvero «il puro suono»: «Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia»1 (A. Gnoli, Giorgio Agamben: «credo nel legame tra filosofia e poesia. Ho sempre amato la verità e la parola», in “La Repubblica” del 15 maggio 2016), dove si dà naturalmente per scontato che il “puro senso” e il “puro suono” siano effettivi e non semplicemente spacciati o scambiati per tali.

Leopardi fu capace di esprimere il “puro senso” di un pensiero filosofico anche attraverso molti momenti di “puro suono”, di pura liricità poetica, e il “puro suono” di un’altissima poesia attraverso la fatica del pensare concettuale, anche se non di rado in forma antinomica, aporetica, contraddittoria, secondo le caratteristiche proprie della struttura stessa della realtà. Leopardi avrebbe sempre interpretato la vita secondo la categoria della possibilità e non della necessità, nel senso che né la vita, né la storia, né l’esperienza morale dei singoli, né il destino politico dei popoli, potevano essere letti e interpretati, a suo giudizio, secondo percorsi obbligati o prospettive teleologiche predeterminabili o ricavabili da presunte leggi oggettive della civiltà umana. Certo, il suo modo di procedere non fu così chiaro, piano e geometrico come avrebbero preteso i rigidi criteri del metodo cartesiano, perché esso, in realtà, è molto più complesso, accidentato e problematico di quanto potessero concedere le cartesiane “idee chiare e distinte”, ma la sua disamina, comunque intellegibile pur nelle sue molteplici e difficoltose pieghe analitiche, è una delle disamine filosofiche più avvincenti e commoventi del pensiero moderno e contemporaneo. Peraltro, senza nulla togliere alla validità metodologica del metodo cartesiano, la filosofia contemporanea avrebbe imboccato strade che l’avrebbero presto condotta su posizioni teoriche molto lontane da esso e, rispetto ad esso, certamente più spregiudicate2 (Molteplici e utilissime sono le osservazioni critiche sul pensiero leopardiano svolte da P. Lauria, Inconsistenti obiezioni. Leopardi e il riconoscimento filosofico, in  “Appunti leopardiani”, Rivista Internazionale on line, 1, n. 9, 2015,  pp. 43-59).

Leopardi non propose, inoltre, una filosofia non solo affetta da “ésprit de système” ma neppure da “ésprit systématique”, ed è anche questo uno dei motivi per i quali non sembra possibile considerarlo genericamente come un illuminista, ma “sistematici” non sarebbero stati insigni pensatori come Montaigne, Pascal, Nietzsche, Freud, Sartre o Lévi-Strauss. Non solo, ma egli sarebbe stato molto polemico proprio verso i filosofi sistematici, conferendo lo sprezzante appellativo di “filosofastri” alla «maggior parte de’ filosofi presenti e passati»3 (Zibaldone, edizione curata da L. Felici, Roma, Newton & Compton, 2005, 1252-53).  Anzi, non c’è dubbio che Leopardi sarebbe stato protagonista di un audace atto sovversivo verso il tradizionale o i tradizionali modi di intendere e praticare la filosofia, nel senso che, se la vita è, come è, frammentarietà, dispersione, contraddittorietà, conflittualità, perché il pensiero filosofico non dovrebbe poi restare contaminato da queste stesse proprietà del reale, dell’esistere, e perché in esso tutto dovrebbe risultare necessariamente ordinato, coordinato, armonizzato, unificato e conciliato, nelle placide e rassicuranti anse dialettiche dei suoi sistemi?

La filosofia, per Leopardi, vive di mescolanza, contaminazione, integrazione di saperi diversi, di quelli epistemicamente più avanzati e meno avanzati, più puri e meno puri, che nella loro dinamica e talvolta conflittuale interdipendenza, assicurano la crescita e il progresso della conoscenza. Accade altresì, e di conseguenza, che egli non consideri i contrari o gli opposti come totalmente e definitivamente tra loro contrapposti, come dotati di significati necessariamente e univocamente stabili e definitivi. C’è l’essere e c’è il non essere o il nulla, l’infinito e il finito, la felicità e la disperazione, la vita e la morte, ma anche il nulla, il finito, la disperazione e la morte, sono filosoficamente ed esistenzialmente necessari a decifrare il poliedrico e labirintico vero come l’intricato e preziosissimo bene di cui deve nutrirsi una civiltà che non voglia morire. Può anche darsi che il nulla annulli se stesso, la finitezza si sorprenda nello scoprirsi parte integrante e insopprimibile dell’infinito, la disperazione e la morte risultino prodromiche alla speranza e alla vita. Sommo filosofo venne definito Leopardi dal letterato, suo contemporaneo, Pietro Giordani: tale è realmente stato Leopardi, e ancor più lo sarà nel presente e nel prossimo futuro.

Ma nel poeta-filosofo di Recanati ci fu anche la coscienza filosofica che non tutto nel mondo può essere conosciuto, per via di definizione, determinazione, misurazione, quantificazione razionale e scientifica, sussistendo in esso un larghissimo margine per l’imprevedibile, l’imponderabile e, persino, per l’inesprimibile. Qui la ragione è chiamata ad esercitare, più che in altri ambiti, la sua potente immaginazione critica, demitizzante, demistificante e sempre preposta a tracciare disegni alternativi a modelli “realistici” di conoscenza, di vita e di lotta. Se il reale, nella sua oggettività, deve essere il punto di partenza dell’avventura filosofica e spirituale dell’uomo, il suo punto di arrivo non può essere cercato se non nella postulazione razionale di un ordine ideale e irreale di infinite possibilità conoscitive, valoriali ed esistenziali, da cui il genere umano possa attingere nuova linfa per i suoi sforzi di superare le ovvie e banali verità della vita e di tendere alla costruzione di una razionalità non solo empirica ma metaempirica, non solo storica ma metastorica, non solo immanente ma trascendente, nei limiti in cui un’operazione del genere possa favorire un’emancipazione non dimezzata ma completa o integrale dell’umanità, un’emancipazione ancora suscettibile di assumere un inatteso e dirompente significato religioso4 (Uno studio ordinato, particolareggiato e sistematico del pensiero leopardiano sulla religione è quello di R. Franzini Tibaldeo, Sofferenza e infinito. Il pensiero di Leopardi sulla religione, Dronero (Cn), Edizioni l’Arciere, 1999, pp.  1-172).

Leopardi, il razionalista critico Leopardi, avrebbe voluto un Dio molto più vicino a sé di quello rivelato da Cristo o rivelatosi con Cristo, non perché il Dio rivelato di Cristo non fosse maestosamente attendibile e coinvolgente sul piano intellettuale, ma perché un giovane e infelice uomo come lui, rifiutato praticamente da tutti e sempre molto a corto di affetti significativi e di esperienze sentimentali e spirituali edificanti, avvertiva forse come necessari una più diretta e immediata sperimentazione della divinità, un contatto più ravvicinato e concreto di Dio con la sua particolare sensibilità emotiva ed esistenziale. In questo senso, si può ben dire che tutto il pensiero leopardiano sarebbe venuto configurandosi come persistente ed insistente preghiera ad un Dio già intuito per infinito spirito di sapienza ma non ancora abbastanza percepito e vissuto per uno spirito non altrettanto ridondante di amore. In fondo, quei celebri versi in cui Leopardi confessa che «il naufragar m’è dolce in questo mare», riflettono il suo più o meno inconscio desiderio di poter naufragare nell’infinito mare dell’amore divino, dal momento che sarebbe molto più difficile e irrealistico ipotizzare che egli, amante indomito e appassionato della vita pur nell’invocare la morte, volesse semplicemente annientarsi o dissolversi in un freddo, muto e insignificante infinito di materia inerte.

Non so in che misura sia vera l’affermazione di Marcello Veneziani, secondo cui Leopardi sarebbe stato «il poeta e il pensatore più religioso della modernità»5 (Il pensiero di Leopardi? Uno Zibaldone di verità, in “Il Giornale” del 25 novembre 2013) anche se penso che in questo giudizio qualcosa di vero debba pur esserci, visto il dialogo ininterrotto che Leopardi avrebbe mantenuto aperto con l’ignoto, il mistero, l’ineffabile per tutta la vita. Lo stesso indiscutibile materialismo leopardiano è sempre sul punto, a ben vedere, di rovesciarsi nel suo contrario, in quanto né le forze della natura, né le forze meccaniche dell’universo, né il ruolo giocato dal puro caso nella determinazione dei fenomeni fisici e degli stessi eventi umani, sembrano appagare compiutamente l’esigenza intellettuale del poeta-filosofo di poter venire a capo della domanda capitale di ogni possibile ricerca umana e filosofica: perché le cose stanno così e non diversamente, perché nel prodigioso ordine universale delle cose esistenti gli elementi di maggiore spicco sono la sofferenza e l’infelicità degli uomini, perché una domanda così intelligente e sensata come quella relativa al senso della vita sembra destinata non solo a trovare una risposta adeguata ma ad apparire persino futile e insensata?

Tuttavia, un fatto non può essere messo in discussione: Leopardi lotta fino alla fine per non rinunciare a Dio, perché sa bene che, come ha osservato giustamente Sergio Givone, senza Dio il mondo è una landa deserta, secolarizzata e completamente priva di fondamenti e di punti sicuri di riferimento. Senza cristianesimo resta solo un nichilismo totalizzante allo stato puro6 (S. Givone, Storia del nulla, Roma-Bari, Laterza, 2003). Non è quest’ultima la prospettiva cui il pur infelicissimo Giacomo Leopardi sarebbe stato disposto a rassegnarsi.

Francesco di Maria

 

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