L’Europa nella teoresi di Edmund Husserl

Se Heidegger, in concomitanza con l’ascesa nazista al potere, parla e scrive solo di Germania e filosofia tedesca, Husserl, un paio di anni dopo, nel ’35, lungi dall’identificare il destino della filosofia con la cultura tedesca, ritiene di doverne ampliare la prospettiva storica e teorica scrivendo esclusivamente di “Europa” e “umanità europea” (E. Franzini, Fenomenologia. Introduzione tematica al pensiero di Husserl, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 95. Cfr. anche S. Pasetto, L’ “Europa” secondo Husserl: l’enigmatica sfida del filosofo, in “InCircolo”, Rivista di filosofia e culture, Dicembre 2016, n. 2, pp. 1-18). Questa evidente differenza ideologica tra le posizioni dei due grandi filosofi tedeschi si doveva sia a vicende esistenziali che a motivazioni filosofiche e culturali: il primo nasce cattolico anche se nel tempo si convertirà al protestantesimo restando comunque cristiano almeno sino alla morte di Husserl, avvenuta nel ’38, e sempre saldamente inserito nel mondo germanico anche sotto il nazismo; il secondo è ebreo e questo gli avrebbe fatto perdere, con l’avvento del nazismo, la cittadinanza tedesca dopo essersi molto impegnato perché Heidegger gli succedesse sulla stessa cattedra friburghese che aveva occupato per tutta la vita.

Sul piano teoretico, Husserl pensava alla filosofia essenzialmente come ad una scienza rigorosa volta a cogliere le “essenze” interne del reale fenomenico e quindi a rendere possibile un’interrogazione permanente sulla realtà, come sul suo senso e sul destino stesso del genere umano; al contrario, Heidegger, con la sua metafisica della finitezza, si proponeva di cogliere i possibili sensi dei molteplici “esserci”, tra i quali particolarmente importante l’esserci cosciente dell’uomo, nei quali si nascondeva l’essere stesso per poi risultare ogni volta, e senza soluzione di continuità, oggetto di disvelamento o rivelazione: l’essere si nasconde e si rivela nel tempo, l’essere che si occulta nell’esserci, riemerge, disvelato, dall’esserci pur sempre suscettibile, per sua stessa interna necessità, di convertirsi continuamente nel nulla, donde si potrebbe parlare anche di un nichilismo ontologico-esistenziale. Ora, di questo scenario metafisico-esistenziale è parte o momento costitutivo ed integrante l’angoscia del nulla, della morte, l’abisso del non senso universale in cui precipitano tutti i possibili sensi particolari e transitori, mentre in Husserl l’attività intenzionale e trascendentale del soggetto fenomenologico viene producendo un quadro di significati e di valori sempre incompleto, incompiuto, provvisorio, ma in ogni caso dotato di senso, di universalità e di una qualche direzione teleologica. Per Heidegger, la frammentarietà del mondo e dell’esistere è indicativa di una costituzionale, se non ontologica, insufficienza esistenziale, è sintomatica di un sostanziale, permanente e radicale distacco dell’esserci dall’essere e dal suo stesso essere, del senso invalicabile del limite, del nulla e della morte. La ragione attraversa la natura e la storia per assistere alla sua dispersione, alla sua frammentazione, alla sua sconfitta. Per Husserl, l’impostazione fenomenologico-trascendentale garantisce, invece, un continuo, anche se contraddittorio e travagliato, processo di ricostruzione e unificazione critico-razionale dei sensi universali, pure nascosti, nel mutevole e ingannevole divenire del mondo e della storia, donde la possibilità e la speranza di salvare la verità razionale e universale del sapere e il significato etico e valoriale della civiltà umana.

Se Heidegger resta prigioniero della fatticità dell’esistere, nel senso che quest’ultimo non può trascendere la sua fatticità, il suo essere così e così per quanto in apparenza dotato di un senso, e il suo essere quindi votato al non essere e al nulla proprio in ragione della sua fatticità esistenziale, in Husserl non c’è dato naturale, né fatto, né evento, che la ragione umana, tendenzialmente libera da presupposti statici e immutabili di ordine logico e motivazionale, non possa trascendere in funzione di quadri veritativi e spirituali sempre più ampi ed esaustivi. Il quadro storico di riferimento, in Heidegger, è più limitato, più circoscritto, più angusto di quello presente in Husserl, anche se contraddistinto da una tradizione di pensiero e di cultura particolarmente potente e fastosa, mentre in Husserl, appunto, esso è molto più ampio, meno caratterizzato ma anche per questo più aperto a sviluppi filosofici meno scontati, meno predeterminabili e, per contro, più sorprendenti e universali. Heidegger, come si è visto in apertura, insiste sulla Germania e sul pensiero tedesco e resta anche vate della decadenza e della disfatta germaniche sotto la barbarie nazista, Husserl, aspirante “funzionario dell’umanità”, elegge invece l’Europa e l’umanità europea, culle della civiltà occidentale, come sedi deputate alla civilizzazione del mondo e alla progressiva universalizzazione dello stesso sapere filosofico.

Husserl è cosciente di quel di cui Heidegger è e sarebbe rimasto ignaro: che il popolo tedesco, per il tramite dei suoi dirigenti politici e dei suoi intellettuali, era così stanco, così provato dalle recenti congiunture politico-militari e dalle terribili e umilianti coercizioni economiche e territoriali che a suo danno ne erano seguite alla fine della prima guerra mondiale, da non apparire più in grado di fare un uso lucido, obiettivo, della ragione, e di liberarsi dalla morsa di un esasperato risentimento nazionalistico che lo avrebbe portato alla successiva e più tragica catastrofe della seconda guerra mondiale. I tedeschi, in massima parte, sarebbero stati altresì fautori di un’attività politica piuttosto particolaristica, idolatrica, ideologica e propagandistica, e quindi anche ingenua, irriflessa e dogmatica, interamente volta a rivendicare in modo istintivo il diritto ad una riappropriazione della propria libertà economica e della propria gloriosa dignità nazionale sulla base di una rinnovata volontà di potenza, di cui Heidegger, a differenza di Husserl, sarebbe stato partecipe.

Husserl, anzi, avrebbe sempre seguito con distacco e preoccupazione l’evolversi del sentimento tedesco verso propositi sempre più bellicisti e orientati a rompere ogni rapporto politico e culturale  con il resto dell’Europa e del mondo, e non avrebbe esitato a prendere di mira, nell’ambito del suo approccio fenomenologico allo studio dei molteplici versanti della contemporanea realtà storico-politica e culturale, quella che egli venne definendo come “la politica reale”, cioè una politica intrisa di verità apparente, di calcoli illusori, di obiettivi rischiosi e temerari: una politica sostanzialmente di corto respiro e in evidente rotta di collisione con un progetto universale di umanità e civiltà condivise con tutti gli altri popoli del mondo. Peraltro, occorre precisare, l’idea husserliana di Europa non si riduceva ad un concetto di “Europa politica”, di Europa che semplicemente delibera, amministra, governa e dirige, ma risultava comprensiva di un concetto molto più ampio e articolato di Europa perché incentrato sulla compresenza costitutiva, regolativa e orientativa, di una cultura qualitativamente elevata e variegata, di ideali forti, di valori morali basilari ed edificanti. Ciò sarebbe stato necessario se il fine volesse essere quello di fare della politica un’idea direttiva di possibilità realmente comuni di convivenza e condivisione.

Non si tratta, per Husserl, semplicemente di eticizzare fenomenologicamente la politica, anche perché la prassi politica ha un suo inconfondibile eidos statutario e una sua specificità operativa in nessun caso completamente riducibili a norme e princìpi etici, ma di fare in modo che l’etica e il bene universale che essa persegue non siano estromesse o emarginate dalle pratiche della politica e vengano quanto meno assolvendo una funzione ispiratrice rispetto ai giudizi, alle decisioni e alle scelte della politica. Non è una questione di gerarchia tra diverse sfere della razionalità e della verità razionale ma piuttosto di necessaria complementarità tra i diversi versanti di una razionalità comune che viene tuttavia rifrangendosi in modi e su piani diversi del reale. E’ la circolarità del sapere, come insieme complesso, differenziato e articolato di significati e di valori, è la dinamica interazione tra i suoi diversi campi specialistici, quel che necessita ai fini di una rigorosa rifondazione critica delle conoscenze e delle pratiche correnti della stessa quotidianità, ai fini di una ricostruzione delle condizioni di ripartenza e di sviluppo della civiltà umana.

In tal senso, il concetto d’Europa non è ovvio, non è scontato, non è quello ereditato da una determinata tradizione, ma deve essere rimeditato, riscoperto, riconquistato attraverso una radicale interrogazione sui diversi sensi possibili dell’identità europea alla luce di un confronto critico-fenomenologico tra i modelli storico-culturali dati dell’idea di Europa. Ognuno di tali modelli, sia pure non in eguale misura, ha punti di forza e punti di debolezza non ancora filosoficamente evidenziati, non ancora portati alla luce criticamente, per poter essere potenziati e ulteriormente valorizzati, i primi, oppure per poter essere eliminati, corretti, sostituiti o integrati, i secondi. Il compito dell’indagine fenomenologica consiste proprio nel porre di continuo in discussione conoscenze, idee, concetti ormai diventati luoghi comuni, datità cristallizzate, per verificare se e in che misura sussistano margini di approfondimento e di scoperta teorico-pratica, conoscitiva e morale, etica e politico-istituzionale, economica e sociale, spirituale e religiosa.

Non è che, dove si individui una criticità, non si dia, per ciò stesso, funzionalità, ma ogni volta il problema posto fenomeno logicamente è quello di vedere se quella data funzionalità possa essere esercitata sulla base di modalità più utili e redditizie, più efficaci e produttive. Si tratta di andare non tanto contro la tradizione o le tradizioni, che hanno pur sempre una loro funzione e un loro valore nel tramandare nozioni, tecniche, mestieri, ma al di là di esse, cercando di salvarne tutto ciò che appaia ancora dotato di reale senso veritativo e di piena funzionalità ma anche di depurarne aspetti o momenti costitutivi da possibili incrostazioni dogmatiche e da usi impropri o invalsi erroneamente nel senso comune. Ogni fessura, ogni crepa che si scorge così nella tradizione, viene in realtà configurandosi, nella pratica fenomenologica, come un possibile varco verso qualcosa di nuovo di cui tuttavia dovrà pur stabilirsi il grado di utilizzabilità. La tradizione è sempre là, a portata di mano, ma il ruolo che viene assumendo in senso fenomenologico è quello per cui essa risulti funzionale all’innovazione, al progresso del sapere e della vita.

Ogni situazione, ogni tema, ogni concezione, non solo della tradizione ma di tutto ciò che rientra in quello che Husserl chiama il “mondo della vita”, un mondo prevalentemente precategoriale e colmo di possibilità inedite e inespresse, possono essere visti in modi diversi da quelli abitudinari e già consolidati nella mentalità comune e nelle stesse forme di sapere colto ed essere suscettibili di assumere infiniti sensi razionali. Il mondo così non ha prospettive obbligate ma prospettive possibili e plurali anche se non tutte necessariamente positive e segnate da un’identica potenza etico-valoriale e dalla stessa forza spirituale. Se le cose della vita altro non sono che luoghi di sedimentazione della razionalità, depositi di tracce marcate o residuali di determinati percorsi o espressioni di razionalità, il filosofo fenomenologo è colui che è chiamato a stabilire un contatto quanto più profondo possibile con quei reperti di significato per ricostruirne, in un certo senso, la storia, per risalire alle loro origini, seguendone lo sviluppo e cogliendone o interpretandone e riattualizzandone il senso. Egli, in questo senso, è colui che si pone in ascolto delle “cose stesse”, di quei nuclei di razionalità sommersi in esse come nelle cose e nelle pratiche della quotidianità storica,  e non facilmente riconoscibili né particolarmente fedeli ai loro modelli originali, ed è colui che ogni volta si sforza di ridare senso alle cose un tempo dotate di senso, di riconquistare antiche verità suscettibili di essere arricchite della potenza intenzionale della sua coscienza e dei suoi stessi vissuti esperienziali vagliati dal giudizio.

Qui, persino le più accreditate acquisizioni scientifiche, le più oggettive forme di conoscenza scientifica, devono essere continuamente in-tenzionate e ricomprese in senso trascendentale, e in tal senso la ragione non può mai dormire sonni tranquilli essendo vocazionalmente chiamata ad esercitare una funzione di vigilanza permanente e di chiarificazione sistematica nei confronti di qualsivoglia assunto sul mondo come fattualità e come valore. Naturalmente, di tale mondo è parte integrante l’io, il proprio io che, pertanto, non potrà anch’esso sottrarsi ad una fenomenologica “sospensione di giudizio” e alla conseguente “riduzione fenomenologica” finalizzata a ricondurre conoscitivamente nella sua “purezza” tutto ciò che era stato indagato nella sua dimensione naturale, psicologica ed empirica. Anzi, non sarebbe possibile l’attività fenomenologico-intenzionale della coscienza soggettiva se l’atteggiamento indagante dell’io individuale e personale del filosofo stesso permanesse nella sua psicologica naturalità empirica e non evolvesse verso un atteggiamento critico-fenomenologico capace di trasformare la condizione empirica e relativamente impura dell’io e della sua coscienza intenzionale in una condizione di teoreticità astraente relativamente pura e universale. Tutto ciò corrisponde, in sostanza, ad un’istanza di profonda conversione del tradizionale approccio logico-conoscitivo ai problemi del sapere e del reale, che non pone in discussione le modalità formali in cui princìpi e metodi di ricerca sono stati tramandati  ed ereditati dalla e nella storia del pensiero, in un radicalmente nuovo approccio epistemico che punti innanzitutto a capire se quelle stesse modalità possano essere utilizzate in modi diversi da quelli già noti e acquisiti e, soprattutto, se esse necessitino di essere corrette o integrate, e in che modo e per quali ragioni, in una prospettiva critico-trascendentale.

Il filosofo, così, pur predisponendosi responsabilmente da solo, cioè a prescindere dalla comunità universale dei filosofi di cui pure fa parte, ad un ricominciamento sistematico, mai definitivo e conclusivo ma sempre aperto, provvisorio e inesauribile, del pensiero critico, non può che entrare in un rapporto osmotico, anche sul piano spirituale, con tutti quei filosofi che esamina, discute, approva o contesta, e con cui in sostanza dialoga per i suoi scopi euristici ed ermeneutici. Ora, Europa per Husserl è proprio una comunità intellettuale e spirituale di questo genere, una comunità in cui ogni suo membro si assume la responsabilità di lavorare in proprio, pur naturalmente sollecitato dal contesto storico-esperienziale e specificamente comunitario in cui si trova inserito, senza dare per acquisite teorie e verità pure autorevolmente enunciate e divulgate ma con lo sguardo volto a scrutarne possibili criticità e ad utilizzarle come eventuali, ulteriori e significative piste conoscitive. Europa diventa, in questi termini, sinonimo di autonomia critica in uno spirito di condivisione differenziata e individualizzata, di sapere enciclopedico basato su una circolarità dei e tra i diversi saperi razionali e specialistici e finalizzato ad una inesausta seppur controllata ricerca di senso intorno alla vita e alla storia.

Ma la stessa Europa non è solo una determinata datità storico-geografica, pure contrassegnata da specifiche caratteristiche politiche e culturali: essa nasce in Grecia, insieme alla filosofia che in essa trova le sue origini, ma poi è destinata a svilupparsi, a trascendere i suoi limiti storici per aprirsi a successive integrazioni culturali e aggiunte di valore e di senso, a diventare qualcosa di cui non sarà mai possibile prevedere esattamente gli esiti intermedi e finali. Ad Husserl interessa certo la realtà europea ma interessa molto di più l’idea di Europa o l’Europa come idea, come una meta spirituale da perseguire incessantemente con rigore critico e passione morale. L’uomo, in quanto filosofo, è un bene tra possibili beni, un valore aggiunto (umanità che si fa sapere e coscienza morale) di cui possono beneficiare altri uomini e altri filosofi. Quest’uomo-filosofo non potrà mai essere organico a visioni preconcette di vita, a concezioni politiche aprioristiche e ideologiche, a sistemi consuetudinari di potere fondato sul compromesso al ribasso, sullo scambio di favori fine a se stesso, su pratiche corruttive di vita sociale e professionale, né potrà tollerare che l’etica individuale, nella sua purezza logico-fenomenologica, venga passivamente conformandosi all’etica sociale già data e costituita, essendo la prima germe irrinunciabile e vitale di vita sociale e di etica collettiva.

Non direi che l’etica husserliana possa intendersi, come è stato detto (S. Pasetto, cit., p. 18), come «un’etica che proviene dal basso», se non forzando i termini del ragionamento husserliano, in quanto dal basso provengono non solo legittime rivendicazioni umane e sociali ma anche spinte irrazionali e distruttive che non favoriscono ma ostacolano, talvolta in forme quasi irreversibili, il processo generale di emancipazione civile e spirituale del genere umano. Per quanto riguarda la cultura e la politica europee, non mancano certo le spinte dal basso, le spinte dei popoli verso il conseguimento di una cultura politica non particolaristica, non discriminatoria, non meramente tecnocratica, e ancora una volta non ispirata a ovvi e abitudinari princìpi di realpolitik, ma sembra che i capi delle nazioni europee incontrassero, come anche successivamente avrebbero continuato ad incontrare sia pure in mutati contesti storici, una certa difficoltà a recepirne l’importanza e l’urgenza, non di rado dilazionando impegni che avrebbero dovuto e dovrebbero essere assolti con precisione e tempestività. La verità della vita e della storia, la verità che passa attraverso la percezione dell’altro e  degli altri popoli, delle altre culture, delle altre convinzioni religiose, è sempre al di là del sapere e del proprio sapere. Tra verità e sapere sussiste uno scarto irriducibile, come irriducibile è lo scarto tra l’identità e la differenza, ma nella tensione che si instaura tra questi due momenti o poli del vivere e del pensare il sapere può colmare gradualmente i suoi limiti proprio mentre vengono ampliandosi le possibilità di accesso alla verità, per cui anche la coscienza europea non è già compiuta ma è sempre in fieri, l’identità politica e culturale europea non è acquisita una volta per sempre ma in costante costruzione verso un destino quanto più possibile comune a tutti i popoli che ne facciano già parte e potrebbero ancora decidere di farne parte. In tal modo, l’umanità viene facendo esperienza della totalità del mondo e della stessa verità storico-esistenziale non come dato di fatto, come acquisizione stabile e irreversibile, ma, ben al di là delle vittorie o delle sconfitte militari oppure di più o meno gravi congiunture economico-finanziarie,  come idea-limite di un processo razionale che consta di fasi di omogeneità e reciproca assimilazione etico-culturale e di fasi di profonda e acuta eterogeneità e conflittualità politica e intellettuale, e che avanza, pur faticosamente, verso possibili e feconde sintesi di modi di vita e di pensiero, di paradigmi o stili di civiltà.

Quella husserliana, pertanto, contrariamente allo sprezzante giudizio di Feyrabend che avrebbe parlato di “astratto universalismo eurocentrico” in Husserl, viene delineandosi non già come una posizione eurocentrica, fondata su un principio ideologico di dominio o di potere imperiale europeo, bensì come un’idea di Europa non egemonica né rispetto alle sue interne differenze nazionali, magari nel segno di un invisibile ma reale Stato europeo sovranazionale, né rispetto alle culture altre e alla pluralità di esperienze e di elaborazioni teorico-culturali provenienti da tutte le parti del mondo: in sostanza, l’Europa non come centro autoritario o dispotico di comando ma come centro autorevole di coordinamento critico-integrativo di molteplici ed eterogenee istanze di vita civile e culturale, come possibile e attendibile istituzione preposta alla promozione e allo sviluppo della civiltà umana, dei suoi saperi plurali, delle sue pratiche etico-morali. Laddove, s’intende, il suo interesse per i beni economici, gli scambi commerciali, gli affari finanziari, e insomma per l’utile, non abbia mai a prevaricare sulle sue finalità etiche, culturali, spirituali. L’Europa come faro di civiltà, come uno dei fari più luminosi di civiltà umana.

Ma l’invito husserliano a ripensare l’Europa non si presta a facili e volgari attualizzazioni, e a probabili fraintendimenti, in quanto l’auspicata apertura spirituale dell’Europa all’alterità, al nuovo e al diverso, non si sarebbe, in nessun caso, potuto e dovuto identificare con un’apertura aprioristica e indiscriminata a forme  più o meno barbariche di alterità, di falsità, di abnormità. Si può anche dire che oggi, da un punto di vista fenomenologico, concetti correnti come quello di “pensiero unico” o di “politicamente corretto”, per via dei presupposti psicologistici e delle motivazioni e delle aspettative prevalentemente emozionali da cui muovono, sarebbero da sottoporre senz’altro ad una severa epochizzazione e ad una impegnativa riduzione eidetico-trascendentale al fine di determinare cosa se ne potrebbe salvare in termini di razionalità antidogmatica, antiparticolaristica e antiutilitaria. La civiltà europea, per Husserl, può veicolare solo una continua e inesauribile interrogazione filosofica, sempre lontana da facili riduzionismi e da forme più o meno velate di relativismo scettico: «L’umanità spirituale non è mai compiuta e mai lo sarà, non potrà mai ripetersi. Il telos spirituale dell’umanità europea, nel quale è incluso il telos particolare delle singole nazioni e dei singoli uomini, è in una prospettiva infinita, è un’idea infinita verso cui tende segretamente, per così dire, l’intero divenire spirituale. Una volta che, lungo questa evoluzione, il telos si rivela come tale alla coscienza, essa diventa anche necessariamente un fine pratico della volontà e si delinea così un grado nuovo e più elevato dell’evoluzione stessa, una fase retta da norme, da idee normative» (E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in Crisi e Rinascita della cultura europea, a cura di R. Cristin,Venezia, Marsilio, 1999, pp. 55- 56). Purtroppo, nel momento in cui Husserl scrive, il destino della ragione europea sembra essersi fortemente incrinato per il sopraggiungere di ondate vitalistiche, nichilistiche, irrazionalistiche, che non possono che arrestare bruscamente l’evoluzione teleologica della civiltà umana, rischiando altresì di mandare in frantumi la stessa possibilità di una unificazione spirituale del genere umano.

Anche oggi, come ieri, la crisi aleggia sulla storia e sulla cultura europee, anche oggi l’Europa deve affrontare un problema di perdita essenziale di senso, di smarrimento delle ragioni e delle finalità universali di umanizzazione e moralizzazione del mondo che ne avevano caratterizzato le origini nell’antica società greca. Oggi il dibattito filosofico tende ad appiattirsi stancamente su posizioni, giudizi, valutazioni la cui plausibilità logica e morale non di rado viene data per scontata, là dove proprio questo elemento di ovvietà, di ingenuità, di irriflesso senso comune, che tende a permeare di sé tanta cultura contemporanea, è ancora una volta ciò che husserlianamente andrebbe energicamente discusso e rimesso in discussione. Il luogo comune non di rado sembra regnare sovrano persino su quella che viene generalmente considerata come la forma più certa, più oggettiva e universale di conoscenza razionale: la scienza.

Nel mondo contemporaneo, la scienza studia e manipola tecnologicamente la natura oggettivandola, quantificandola, misurandola e individuandone leggi matematiche, fisiche e meccaniche, ma la natura che in tal modo viene indagata non è tutto ciò che essa può dire, può mostrare e insegnare  all’uomo, non esprime tutti i segni e i sensi di cui può necessitare l’esistenza umana e il suo incontenibile bisogno di rispondere ad una irriducibile pluralità di domande che sono ad essa connaturate. La natura ha certo un senso fisico-matematico, insieme ad altri sensi di ordine scientifico, ma possiede anche altri sensi e sensi non riducibili all’ambito scientifico. Cosa mi dice questa natura, al di là delle sue leggi, questa natura in continuo movimento e trasformazione, questa natura di cui io stesso sono parte? Perché ne faccio parte e come è stato possibile che ne facessi parte capendo di esserne parte, riesco a dedurre dal mondo naturale cui appartengo tutto quello di cui avrei bisogno per conoscere meglio me stesso, non solo la mia corporeità, la mia psichicità, ma la mia interiorità e la mia spiritualità? Di fronte ad una natura così enigmatica ci si può contentare di ricorrere ad una ragione formalistica, strumentale, priva di una vincolante valenza oggettiva, e che rapporto c’è tra questa natura fondamentalmente non conoscibile, al di là dei suoi aspetti parzialmente intellegibili per via scientifica, e i valori forti di ordine morale e religioso? Si possono lasciare inevase queste domande, si possono eludere questi e altri interrogativi che attengono l’esistenza umana nella sua globalità, o converrà occuparsene per tentare di dare risposte almeno ragionevoli ben oltre i paradigmi storico-culturali dominanti delle singole epoche?

Ma c’è un altro tema molto importante che in alcuni studi recenti viene posto criticamente in relazione all’impostazione fenomenologica husserliana, ovvero la democrazia. In fondo sia la scienza che la democrazia sono invenzioni della cultura greca, dello spirito razionale greco, e anche oggi entrambe costituiscono due fondamentali direzioni di ricerca della cultura europea. Tuttavia, se la scienza viene assumendo una posizione centrale e un rilievo teoretico di notevole importanza nell’indagine filosofica husserliana, non si può dire lo stesso per la democrazia, che, in realtà, al di là della tematizzazione husserliana del concetto di intersoggettività e del rapporto tra quest’ultima e la soggettività intenzionale, da cui potrebbe evincersi un possibile nucleo originario di dialogo, di confronto e di dibattito democratici, non appare mai esplicitata come specifico oggetto di indagine, né viene mai posta al centro di una qualche significativa attenzione filosofica sia pure soltanto in forma implicita. E’ stato giustamente osservato che «la politica che definiamo democratica e che si rivolge all’attività di miglioramento delle condizioni della convivenza sociale dei raggruppamenti umani grazie alla realizzazione delle condizioni istituzionali e sociali che lo rendono possibile non tocca la fenomenologia, che, a sua volta, non vi entra a definirne il senso e la struttura, essendo chiaro che la definizione di politica che abbiamo appena dato non ha nulla di fenomenologico ma viene soltanto resa visibile e dicibile entro l’orizzonte fenomenologico del mondo-​della-​vita, senza che in alcun senso si possa parlare di qualcosa come una politica fenomenologica o di una fenomenologia della politica. Perciò si dovrebbe riconoscere che la fenomenologia ci lascia soli nel mondo, politicamente soli» (F. S. Trincia, Fenomenologia e politica. Considerazioni non conclusive, in “Dialegesthai” del 31 dicembre 2019).

Certo, anche la democrazia, come del resto la monarchia, la plutocrazia o l’aristocrazia con i relativi sistemi politico-sociali, rientrano nel “mondo della vita” e, come tutto ciò che ne fa parte, anche le particolari forme di governo potranno essere di volta in volta oggetto di indagine fenomenologica per stabilire soggettivamente e/o intersoggettivamente se esse siano o potrebbero essere eideticamente, e in che modo o in che misura potrebbero esserlo, confacenti ad un principio veritativo di libertà individuale e di bene comune, ma la fenomenologia in se stessa non ha specifiche prescrizioni politiche da dare, non ha il compito di consigliare particolari ordinamenti politico-istituzionali, non può scegliere per conto di altri, a meno di una spontanea convergenza di punti di vista intersoggettivi, lo specifico destino politico da conferire alla propria nazione, come alla stessa nazione europea o ad una confederazione ancora più ampia di Stati. La fenomenologia è solo la scienza di una inesausta riflessione sistematica volta a enucleare dalla realtà fenomenica significati nascosti o dimenticati di verità e valori morali rimossi o travisati dalla coscienza ingenua dei singoli; è, in questo senso, scienza etico-teoretica di libertà spirituale, ma la responsabilità delle scelte non si può predeterminare rispetto al concreto volere dei diversi io. Peraltro, Husserl affida il compito di ripensare le cose del mondo e della vita non ad una massa indistinta di individui, non alle masse popolari, almeno non direttamente, ma alla comunità dei filosofi, democratica al suo interno, ma di fatto espressione di un ideale sofocratico o epistemocratico che, da un punto di vista strettamente politologico, sarebbe molto difficile identificare con l’ideale democratico o ritenerlo ad esso funzionale, anche se questo non comporta che una democrazia non debba porsi il problema di come favorire l’ascesa dei migliori, dei più competenti a posti e funzioni di primaria responsabilità della stessa comunità democratica. Inoltre, Husserl pensa sempre ad un’Europa spirituale, certo comprensiva della stessa dimensione politica ma ad essa non riducibile.

Perciò, parlare dell’Europa fenomenologica husserliana come di un’Europa già carica di inequivoco spirito democratico e non solo di un pur profondo e necessario spirito (questo sì presente nella disamina husserliana) umanitario, solidaristico, collaborativo, partecipativo, appare piuttosto artificioso e fuorviante, anche perché non si può dimenticare che la democrazia, fondata su un relativismo di valori, non poteva incontrare verosimilmente il favore di Husserl, notoriamente critico verso ogni forma di relativismo, come ad esempio lo storicismo, lo psicologismo o il positivismo. Al contrario, la vita teoretica della ragione, che non è irrelata rispetto alla vita della coscienza morale ma apre ad essa nuove vie di esperienza spirituale e di esplicazione esistenziale, introduce ad una nuova dimensione della conoscenza, la dimensione fenomenologica in cui e per cui il conoscere viene assumendo la forma «di una critica universale di qualsiasi vita e di qualsiasi fine della vita, di tutte le formazioni culturali e di tutti i sistemi culturali che sono già sorti nel corso della vita dell’umanità, e quindi anche dei valori che li reggono esplicitamente o implicitamente; di una critica universale non meramente scettica e distruttiva ma volta  a innalzare, attraverso la ragione scientifica universale, l’umanità secondo multiformi norme di verità, a trasformarla in un’umanità radicalmente nuova, capace di un’autoresponsabilità assoluta fondata su intuizione teoretiche assolute […]. La meta di tale critica, precisa Husserl, è e resta l’elaborazione di verità e valori assoluti e razionalmente fondati» (E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in Crisi e Rinascita della cultura europea, cit., pp. 66-67 e pp. 67-77).

Tutto questo comporta non solo che uno degli obiettivi della fenomenologia è un sapere forte, ma anche che il dovere morale, in un’ottica critico-fenomenologica, debba essere esercitato solo in base a ciò che «si sa», a ciò che viene acquisito in termini di certezza o chiarezza conoscitiva, anche per via soggettiva, rigettando ogni genere di credenza, di giudizio, di valutazione che risulti privo di validità epistemica universale sempre per me che vengo svolgendo la mia attività intenzionale sia pure in un rapporto di interdipendenza con una vasta comunità intersoggettiva di spiriti liberi. Non è che ad Husserl sfugga la mutevolezza, la transitorietà, la parzialità dei prodotti del pensiero come delle scelte della volontà. Dove c’è l’uomo, c’è necessariamente finitezza, limite, errore. Ma la razionalità umana è anche capacità di elevarsi sui suoi limiti costitutivi e sulla stessa provvisorietà e frammentarietà delle sue conoscenze e delle sue esperienze morali, è anche facoltà di intuire intellettualmente delle essenze (intuizione eidetica), delle idee o verità almeno relativamente invariabili e tendenzialmente assolute, cioè è anche facoltà di cogliere la struttura interna, la struttura portante dei fenomeni che si manifestano alla coscienza. D’altra parte, l’assunto relativistico secondo cui l’unica verità sarebbe quella per cui non esiste alcuna verità, è palesemente falso perché contraddittorio dal momento che, se non si dà alcuna verità, anche tale enunciato sarà privo di validità logico-veritativa. Tutto, certo, è perfezionabile ed è questo il senso della teleologia razionale e spirituale che agisce nella complessa e spesso drammatica storia della civiltà umana, ma l’idea di perfezionamento etico-conoscitivo non è affatto incompatibile con la possibilità della scoperta di nuclei eideticamente universali di verità e di valori ideali, morali e religiosi assoluti. In sostanza, il sapere è possibile solo se ha dei fondamenti non suscettibili di mutare continuamente ma sufficientemente stabili e affidabili. In caso contrario, la stessa epistéme, lo stesso sapere scientifico sarebbero privi di validità razionale universale e dovrebbero essere considerati gnoseologicamente alla stessa stregua della doxa, della semplice opinione.

Ma non è forse vero che anche la struttura logica e metodologica della scienza è relativistica, che la conoscenza scientifica, per quanto basata su rigorosi e collaudati criteri logico-sperimentali di indagine e dotata di un’indubbia valenza veritativa, è pur sempre limitata e provvisoria, ipotetica e congetturale, nonché sempre soggetta a confutazione? Certo, ma naturalmente bisogna distinguere tra il relativismo soggettivistico dello scetticismo e di tanto diffuso senso comune, per cui una posizione vale l’altra dovendosi ogni assunto teorico riportare alla sensibilità e alla percezione soggettive dei singoli individui, e il relativismo oggettivistico della scienza, i cui parametri di base sono quelli di origine galileiana delle “sensate esperienze” e delle “certe dimostrazioni”, notoriamente funzionali ad acquisizioni conoscitive almeno relativamente ma significativamente stabili e, in questo senso, universali. Peraltro, la relatività scientifica non è riferibile al ricercatore, allo scienziato, in quanto persone costitutivamente soggette a tutta una serie di limiti o carenze particolari, ma agli specifici sistemi teorici di riferimento in relazione a cui di volta in volta si vengono studiando determinati fenomeni o esplorando determinati campi di indagine.

D’altra parte, il vero punto di forza del relativismo scientifico così inteso è la chiusura di principio a qualsiasi idea di verità assoluta, priva in quanto tale di senso scientifico anche se non di senso tout court, potendo la verità scientifica risultare e risultando di fatto universale ma non assoluta e universale nel senso che tale venga riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale di ogni epoca storica. Per la filosofia come “scienza rigorosa”, che per Husserl sarebbe stata da intendere pur sempre come possibile punto di arrivo e come compito infinito del pensiero e non già come dato di fatto o come posizione già acquisita di ricerca, il ragionamento è analogo, tenendo tuttavia presente che la scientificità della ragione filosofica ha per il filosofo tedesco un raggio di azione più ampio rispetto a quello della scientificità delle scienze esatte o scienze dure e delle scienze fisico-naturali o scienze molli, per il semplice fatto che la ricerca filosofica viene esercitandosi criticamente anche su temi o questioni non soggetti né a calcoli matematici, a misurazioni quantitative, né a verifiche sperimentali, come avviene nel caso dei valori morali e religiosi, delle pratiche politiche e istituzionali, o di tutto ciò che rientra nell’ambito di specifiche attività spirituali. E qui, nella prospettiva fenomenologica, il compito del filosofo fenomenologo, se da una parte non può prescindere dall’evolversi delle scienze moderne e dell’idea stessa di scientificità nata dalla rivoluzione scientifica galileiana e postgalileiana, dall’altra appare diverso da quello del ricercatore scientifico, dello specialista, perché consistente nel tentativo non già o non solo di portare il mondo sotto lo sguardo della scienza ma anche e soprattutto, nella sua stessa dimensione scientifica, sotto lo sguardo della coscienza e di una coscienza pura o metaempirica.

Solo un’umanità europea non solo artefice ma ancora e sempre consapevole e responsabile delle sue produzioni culturali, scientifiche e tecnologiche, delle sue creazioni politico-istituzionali e dei suoi sistemi economici, solo un’umanità europea capace di evitare unilateralità dogmatiche e riduttivismi di pensiero e azione, di non smarrire il senso spirituale delle sue opere e delle sue scelte e di intuire le conseguenze dei suoi atti, senza perdere la memoria delle cose e delle tradizioni passate, avrebbe potuto assolvere una funzione di riorientamento qualitativo della civiltà umana, di radicale riorganizzazione valoriale della vita associata. Particolare impegno essa avrebbe dovuto profondere nella lotta contro una strisciante ma crescente dissoluzione del concetto di bene comune, minato dall’arrogante e qualunquistico incedere del selfinterest (interesse personale), contro il libertarismo acefalo e scomposto di un individuo spesso elevato a nomos ultimo (principio, legge, valore fondante), contro la delegittimazione sociale e culturale dei veri, autentici nomoi di questo povero e patetico mondo terreno. Tuttavia, Husserl sembra affidare alla filosofia, o alla filosofia in primo luogo, con generosità ma forse anche in modo irrealistico, il compito molto impegnativo di salvare l’Europa da un baratro di decadenza e di rinnegamento della sua stessa identità teoretico-culturale, là dove non ci si può esimere dal chiedersi se la filosofia, da sola, abbia almeno virtualmente il potere di cambiare il mondo cambiando il cuore degli uomini e di concorrere a fare di persone, che vivono in uno stesso luogo e con tradizioni comuni o affini e interagenti, un popolo unito e disposto a percorrere un medesimo indirizzo di civiltà.

Peraltro, pur configurandosi la filosofia fenomenologica come una grande conversio intellettuale e spirituale, il cui effetto più evidente, si legge nel paragrafo 35 della Krisis, l’ultima opera husserliana, sarebbe quello di «una completa trasformazione personale» (personale Wandlung), forse simile «a una conversione religiosa» (religiösen Umkehrung) ma che, di fatto, resta una conversione puramente filosofica, una conversione laica e aconfessionale, su quali criteri epistemici così oggettivi e su quali valori così cogenti alla fine essa potrà far leva per convincere uomini e popoli a cambiare rotta? E, per questa via, fino a che punto il Dio rivelato dalla predicazione evangelica di Cristo avrebbe potuto coincidere con il Dio rivelantesi solo attraverso l’attività intenzionale di una coscienza non empirica ma pura e quindi con un Dio non più assolutamente e ontologicamente trascendente rispetto a quell’assoluto di una coscienza pura che, come dice Husserl, pura è nel senso che non ha bisogno di nient’altro per esistere (nulla re indiget ad existendum)?

La trascendenza assoluta, e non semplicemente relativa (cioè ancora tutta immanente alla coscienza), di Dio, resta ancora compatibile con un’impostazione fenomenologica della ricerca del vero e del bene o non verrà dissolvendosi nella permanente attività critico-trascendentale della ragione? E soprattutto: ha bisogno l’Europa, questa Europa, di una divinità non solo presente e prossima alla coscienza ma anche altra, ontologicamente altra, da una coscienza umana spesso idolatrata e divinizzata dalla cultura contemporanea? L’umanità europea, come l’umanità globale del mondo, hanno bisogno di essere salvate da un Dio non puramente filosofico e sovrannaturale, in parte comprensibile ma in parte anche largamente “ineffabile” (in questo senso ha giustamente osservato G. Scirocco, Appunti sull’idea di Europa, in “Materiali di estetica”, 2019, n. 6/2, p. 220, che «né in Husserl, né in Croce e neppure in Ratzinger si ritrova quel sentimento ebraico di Dio quale realtà ineffabile, come totalmente altro, rispetto alle cose, agli eventi, alle passioni di questo mondo»), o la loro forse crescente autonomia critico-razionale le indurrà a sentirsi capaci di salvarsi da sole? Basterà la grecità di Atene, così cara ad Husserl, a renderle pienamente libere da ogni dipendenza storico-esistenziale, oppure essa dovrà essere adeguatamente integrata dalla Rivelazione uscita da Gerusalemme? Si dovrà, ancora una volta, operare una scelta, una scelta di ragione e di coscienza, proprio nel nome e nel segno dell’antica razionalità maieutica e logico-metafisica degli antichi greci. In fondo, la krisis, storicamente, è spesso ricorrente e, con questa parola, i filosofi greci indicavano, come ricordava non molto tempo fa don Giulio Albanese, la presenza di un’anomalia strutturale, di un blocco, di un punto di svolta e, quindi, conseguentemente, «una scelta da operare, una decisione da prendere, un passaggio deciso verso una condizione migliore» (G. Albanese, Ridare speranza e futuro al progetto europeo, in AA.VV., EurHope. Un sogno per l’Europa, un impegno per tutti, Roma, AVE, 2019, p. 21), anche se poi le questioni e le domande, le indicazioni, le proposte, le opzioni e le soluzioni possibili da porre al centro dell’agenda politica e culturale europea sono oggettivamente complesse e non poco divisive specialmente per la comunità cattolica, anche o principalmente in relazione all’esigenza di ascoltare, interpretare e applicare oggi correttamente la Parola di Dio e il messaggio evangelico di salvezza.  

Francesco di Maria

 

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