Breve storia di una “battaglia”: filosofia e scienza in Italia nel primo quindicennio del Novecento

Nel primo quindicennio del novecento filosofico italiano, due insigni scienziati quali Giovanni Vailati e Federigo Enriques, dotati di capacità filosofiche non comuni e convinti che ad una funzione realmente critica della filosofia non potessero rimanere estranee l’acquisizione e l’utilizzazione della mentalità scientifica moderna e contemporanea, mossero battaglia contro l’egemonia neoidealistica, per la riunificazione del sapere filosofico e del sapere scientifico. L’esito della battaglia sarebbe stato loro sfavorevole producendo per alcuni decenni fraintendimenti e distorsioni nel modo di intendere il rapporto tra ambito filosofico e ambito scientifico nel quadro della cultura nazionale, benché sia ormai innegabile che di fatto sotto il fascismo, nonostante le pesanti costrizioni ideologiche subìte dagli scienziati italiani,  il progresso delle conoscenze e delle istituzioni scientifiche non fu né bloccato né rallentato.

1. E’ noto che, dopo il caso Galilei, la storia culturale italiana sarebbe stata caratterizzata principalmente da una radicale contrapposizione tra filosofia e scienza. La stessa attività scientifica galileiana era stata pesantemente ostacolata dalla greve atmosfera controriformistica (ma anche su questo tema non sono mancate nella storiografia più recente precisazioni e parziali rettifiche) che, insieme ad una condizione economica generale di stasi e arretratezza, avrebbe segnato l’Italia di fine cinquecento e inizio seicento. La sfavorevole congiuntura storico-economico-culturale, in cui accade allo scienziato pisano di dover operare, se da una parte consente di capire meglio perché alcuni suoi prestigiosi interpreti del novecento ne avrebbero fatto un eroe, dall’altra può contribuire a comprendere perché la riflessione scientifica galileiana, pur dotata di un altissimo e paradigmatico valore conoscitivo, sia completamente priva di quella dimensione paradigmatica che, a partire dalla svolta ideologica baconiana, contraddistingue invece, sia pure in varia misura, l’opera degli scienziati inglesi. E’ comunque indubbio che tale congiuntura, oltremodo lontana da quella della rigogliosa Inghilterra della fine del sedicesimo secolo, avrebbe notevolmente contribuito a rendere remota la possibilità di una significativa estensione in Italia della rivoluzionaria esperienza scientifica galileiana, ovvero di uno sviluppo scientifico talmente significativo da favorire o accelerare la reimpostazione dei rapporti tra sapere filosofico e sapere scientifico della quale al contrario si sarebbe presto arricchita la cultura di altri paesi europei. 

Di fatto, dopo Galilei e sino alla metà del secolo decimonono, solo una voce, quella di Carlo Cattaneo, si alza per sottolineare la necessità per la filosofia di aprirsi alla scienza e anzi di considerare la teoresi scientifica non antitetica ma complementare alla teoresi filosofica.

 

Carlo Cattaneo

 

Poi, negli ultimi decenni dell’ottocento, anche in Italia si sarebbe avuta l’affermazione del positivismo, ma con il caposcuola del positivismo italiano, Roberto Ardigò, e con la sua generica e dogmatica difesa del dialogo tra scienza e filosofia, con la sua insufficiente consapevolezza critica dei risultati delle scienze contemporanee e dei problemi metodologici allora sollevati dalla più avanzata cultura scientifica europea, la situazione sostanzialmente non cambia. Peraltro, Ardigò, mentre ormai sull’Europa scientifica e non solo scientifica incombe la crisi della matematica e della fisica classica ovvero la crisi dei fondamenti, ignora completamente l’importanza dei contributi di valenti matematici italiani come Eugenio Beltrami e Giuseppe Peano proprio al problema dei fondamenti della scienza matematica. E questo spiega almeno parzialmente il disinteresse sempre più accentuato degli scienziati italiani per un positivismo pretenziosamente autocandidatosi a rappresentare l’unica possibile “filosofia scientifica”, e di conseguenza, data l’identità stabilita dallo stesso positivismo tra filosofia e filosofia scientifica, per la filosofia tout court. Questo spiega anche il permanere della separazione tra impresa scientifica e filosofia nella cultura italiana e la non attribuibilità di questo mancato rapporto solo all’egemonia esercitata dall’idealismo crociano-gentiliano tra fine ottocento e primi decenni del novecento.

2. E’ alla luce di questo quadro storico che si può ben intendere lo stato del rapporto tra filosofia e scienza in Italia all’inizio del novecento. Dinanzi alla crisi del positivismo, dinanzi alla cosiddetta (ma è un’espressione abusata) “bancarotta della scienza”, Croce e Gentile non ritengono di dover reiterare la domanda sulla scienza, su quale possa essere il vero significato dell’impresa scientifica, ma si limitano a liquidare il sapere scientifico come privo di vero valore conoscitivo o almeno come una forma di sapere non dotata di un valore conoscitivo determinante ai fini della comprensione della stessa verità storica della civiltà umana. Non in una critica persino aspra della ricerca scientifica consiste il dogmatismo di entrambi, anche perché la ricerca scientifica stessa produce e insieme richiede per se stessa la critica quanto più possibile attendibile e rigorosa, ma piuttosto nel loro approccio generico e forse preconcetto ai problemi della scienza. E’ come se dicessero: se la scienza ha fallito in modo così clamoroso, bisogna guardare e cercare da un’altra parte.

Essi non si chiedono, come sarebbe stato più logico: visto che la scienza ha fallito, vediamo perché ha fallito e a quali condizioni potrebbe eventualmente non fallire. Così, nel primo quindicennio del XX secolo italiano, a tentare di rimuovere il divorzio tra filosofia e scienza sarebbero rimasti in due e sarebbero stati due matematici: Giovanni Vailati e Federigo Enriques.

                   Giovanni Vailati

Il primo, autore di alcuni lavori di storia della scienza di notevole importanza, cerca di fare i conti con il positivismo, contrariamente a Croce e Gentile, rilevando innanzitutto che esso non aveva afferrato l’importanza di certe innovazioni teoriche dovute proprio a scienziati italiani, quali la costruzione, proposta da Eugenio Beltrami nel 1866, di modelli euclidei delle geometrie non euclidee o l’assiomatizzazione dell’aritmetica formulata da Peano nel 1890.

Uno dei meriti di Vailati, come ha giustamente rilevato Geymonat in Scienza e filosofia nella cultura del novecento1, è stato certamente quello di aver compreso l’importanza di collegare la filosofia, che per lui è essenzialmente analisi del linguaggio, «ai punti alti della ricerca matematica e di presentare la sua revisione del positivismo come compatibile con le procedure e i risultati raggiunti della logica matematica». Questo è l’esito prodotto, in particolare, dalla sua critica dell’idea astrattamente oggettivistica che della scienza aveva dato appunto il positivismo attraverso la pretesa di poter individuare una volta per tutte i confini della razionalità scientifica e di poter distinguere senza tentennamenti di sorta tra scienza e non scienza.

Vailati, anticipando la posizione del filosofo Giulio Preti, reagisce vigorosamente anche all’agnosticismo positivistico, all’idea cioè che si possano conoscere solo i fenomeni e non anche le loro essenze, perché, a suo giudizio, questa posizione, se da una parte non toglie di fatto plausibilità all’ipotesi religiosa, dall’altra finisce per limitare in qualche modo la funzione euristica e la portata teoretica della ricerca logico-scientifica. Sul finire degli anni cinquanta, Giulio Preti, nel suo noto volume Praxis ed empirismo2, avrebbe mostrato di considerare fondato il giudizio vailatiano, osservando come l’agnosticismo, “un assurdo” dal punto di vista teoretico (così egli l’avrebbe definito), limiti “arbitrariamente” anche «la portata morale della scienza: esso suona come una rinuncia all’etica propria della conoscenza scientifica. Proclamando l’esistenza di un insondabile “mistero”, sottopone il sapere razionale a limiti posti da ‘altro’, lo rende eteronomo e ne toglie e l’intrinseca capacità progressiva e la capacità di promuovere il progresso umano della società».

Per stabilire la verità e la correttezza delle enunciazioni teoriche di qualsivoglia natura, occorre, secondo Vailati, essere più sobri e al tempo stesso più rigorosi dei positivisti, attraverso un reiterato controllo logico-linguistico dell’uso e del significato dei termini adoperati nella costruzione delle teorie e delle stesse teorie scientifiche, giacché, come la stessa crisi dei fondamenti dimostra, anche il linguaggio o i linguaggi scientifici sono pieni di equivoci e ambiguità. In quest’opera di permanente chiarificazione logico-linguistica principalmente consiste la funzione filosofica della scienza, e in questo senso l’attività scientifica ha bisogno di filosofia non meno di quanto possa averne bisogno l’attività letteraria. Che suona, evidentemente, come una critica esplicita a quel «rapporto privilegiato», per usare le parole di uno studioso vailatiano, «che si era instaurato in Italia, nell’ambito delle istituzioni universitarie, tra studi letterari e studi filosofici»3.

Perciò, per Vailati è necessario procedere ad una critica delle scienze non per rifiutarle o svalutarle, come tendenzialmente accade in Croce e Gentile, ma per legittimarle ed accrescerne il potere veritativo. Criticare la scienza non significa affatto, contrariamente a certe apparenti pretese crociane, evidenziarne il mero valore strumentale, ma chiarirne e rafforzarne il potere conoscitivo e dunque anche il potere di incidenza su tutti gli altri fronti della cultura umana. E appaiono sufficientemente chiari i termini in cui il complessivo ragionamento vailatiano contribuisce a delineare un nuovo rapporto tra il sapere scientifico e il sapere filosofico: la filosofia non ha alcuna funzione prescrittiva, non detta le regole alla scienza ma è parte integrante dell’impresa scientifica, con il ruolo essenziale di rendere i nostri strumenti logici e linguistici più raffinati, precisi e adatti a compiti sempre più complessi; di fronte ai nuovi sviluppi della scienza, il compito della filosofia dev’essere finalmente quello di comprendere l’importanza del linguaggio nell’ambito della scienza, in quanto esso è il tramite fondamentale di comunicazione fra i diversi campi del sapere.

La filosofia pertanto per un verso è chiamata ad assolvere innanzitutto un compito di verifica o di critica logico-linguistica delle stesse asserzioni scientifiche, dal momento che, come si è giustamente osservato molti anni or sono, «la questione di determinare che cosa vogliamo dire quando enunciamo una determinata proposizione non solo è una questione distinta da quella di decidere se essa sia vera o falsa, ma è una questione che deve essere decisa prima che la trattazione dell’altra possa essere anche soltanto iniziata»4, ma per un altro verso, e più in generale, essa è preposta ad una comprensione storica dei processi evolutivi delle diverse forme di linguaggio e di teoria, nonché ad un’analisi accurata delle modalità attraverso cui esse vengono esercitandosi, per determinarne rigorosamente il significato, gli usi corretti e gli abusi.

Quella vailatiana è dunque una metodologia di ricerca volta, in sostanza, ad accertare il grado di attendibilità non solo delle teorie fisiche e matematiche, ma di quelle economiche e politiche, etiche e psicologiche,  sociologiche e religiose, vale a dire di tutti quei mondi di teorie, di idee, credenze, convinzioni, di tutti quei mondi di carta che gli uomini sono venuti producendo nel corso della loro evoluzione storico-culturale. Questo non significa che Vailati sia disattento verso lo studio di una realtà extramentale, di un mondo sensibile oggettivamente esistente, ma solo che egli considera l’attività teorica, attraverso cui non può non passare in larga misura l’indagine sulla struttura dei fatti sensibili, come un fatto altrettanto reale, altrettanto sensibile e «meritevole di studio e di diligente osservazione». Il mondo teorico non può sovrapporsi al mondo reale, ma non c’è dubbio che da un’indagine chiarificatrice nel e sul mondo teorico discende la possibilità di meglio comprendere il mondo reale.

La consapevolezza dello sviluppo storico delle teorie, la domanda sul loro statuto epistemologico, la ricerca di adeguati criteri di controllo della loro attendibilità e funzionalità conoscitiva, e poi ancora l’individuazione delle condizioni e dei limiti entro cui esse possano legittimamente esercitare quella funzione di previsione o predittiva che Croce avrebbe grossolanamente frainteso assimilando in qualche modo la scienza alla magia, avrebbero dovuto contribuire per Vailati, che si era formato alla scuola di Giuseppe Peano, ad una più chiara ed efficace trasmissione e comunicazione del sapere scientifico ed all’attuazione di una più fluida e feconda circolarità del sapere e dei saperi nel quadro di un’istanza unitaria ma regolativa della cultura complessivamente considerata. Che non significava occuparsi degli aspetti della vita pratica — comportamenti, azioni, valori —, ma preoccuparsi di cominciare a rendere più vera e meno caotica la vita. Vailati, ancora vivo, non viene capito, né viene capito dopo la morte (1909) per diversi decenni. Non viene capito dallo stesso pensiero cattolico del tempo, pur avendo il laico e rigoroso intellettuale di Crema manifestato profondo rispetto per la fede cattolica e i suoi valori spirituali. Circa dieci anni prima di morire, quindi in una fase già molto avanzata della vita e della sua esperienza scientifica e filosofica, inviava due lettere molto significative al cattolico Antonio Fogazzaro. Nella prima, che è del 15 luglio 1898, scriveva così: ««Io sono tra quelli che seguono con la più viva simpatia e ammirazione i di lei nobili sforzi per rendere la “fede” più degna di essere creduta e la “scienza” più meritevole di non essere ignorata. Sono tra quelli che, lungi dal considerare quest’ultima come la nemica ufficiale o la distruggitrice patentata delle “idee religiose”, vedono anzi in essa la perenne sorgente che fornisce a quelle l’indispensabile nutrimento pel loro sviluppo e perfezionamento continuo, e la considerano come la necessaria base su cui il sentimento possa edificare le sue costruzioni ideali, costruzioni che saranno tanto più alte e durevoli quanto più la base sarà larga e profonda e solida». Nella seconda, che è del 23 luglio dello stesso anno, veniva a ribadire chiaramente non solo la compatibilità ma anche la fecondità del rapporto tra razionalità scientifica e fede5.

Anche dal punto di vista politico esce confermato l’interesse di Vailati per un certo mondo cattolico. Egli, infatti, come riformista liberale appare interessato a neutralizzare il marxismo sotto l’aspetto ideologico e nello stesso tempo ad accoglierne e valorizzarne le istanze più profonde di emancipazione umana e sociale anche alla luce di un’alleanza possibile con quell’associazionismo cattolico che veniva organizzandosi e progredendo sotto lo stimolo della Rerum Novarum di papa Leone XIII6. Anche per questo stupisce che la cultura cattolica non abbia mai mostrato alcuna apertura alle idee di questo insigne pensatore italiano, benché una certa arretratezza teorica costituisce un tratto ben distintivo del cattolicesimo intellettuale in genere tra otto e novecento.

Vailati diventa consapevole della sua “solitudine intellettuale” solo poco prima di congedarsi dal mondo; mentre il suo essere stato «un pensatore ‘atipico’ … ‘anomalo’, non legato ad una scuola particolare, irriducibile a qualunque etichetta», ha ricordato ancora il sopracitato Lanaro7, e per di più deliberatamente estraneo alle accademie e ai circuiti universitari, solo da poco ha cominciato ad essere oggetto, non sempre forse senza ipocrisia, di approfondimento e apprezzamento.

3. Vailati, per quanto oltremodo maturo intellettualmente, muore ancora giovane, a soli 46 anni, dopo aver svolto un lavoro teorico innovativo e originale rispetto alla tradizione filosofica italiana e dopo aver lanciato brillantemente, contro un’idea antifilosofica della scienza e contro un’idea antiscientifica della filosofia, il progetto di riunificazione dei “due saperi”. Ma la sua battaglia scientifica e filosofica sarebbe passata quasi inosservata nei centri ufficiali del potere culturale italiano (gli accademici, in particolare, non gli avrebbero perdonato lo sgarbo di aver lasciato l’università per i licei), sia per la sua condizione di sostanziale isolamento, sia per l’impossibilità di utilizzare strutture organizzative che assicurassero alle sue idee una incisiva circolazione. La sua opera sarebbe stata continuata con ben altro rilievo pubblicistico da un suo amico e collega di studi logico-scientifici, Federigo Enriques, professore universitario di chiara fama, capace di operare entro importanti circuiti editoriali e all’interno di ambienti filosofico-scientifici altamente qualificati, quantunque poi questi non si sia mai preoccupato abbastanza di contribuire a dare visibilità agli scritti vailatiani.

Come insigne accademico di matematica, Enriques avrebbe gestito grande potere: significa pur qualcosa che, nonostante le sue aspre e risentite polemiche contro Croce e Gentile, abbia sempre mantenuto una profonda avversione per il primo, che non era un accademico, instaurando invece nel tempo, pur senza rinunciare ad un atteggiamento formalmente critico, un rapporto cordiale con il secondo, che era un potente accademico. Da questo punto di vista Enriques non fu affatto un isolato e già questo basta ad invalidare la tesi di chi ha inteso celebrarne “la ragione solitaria”8. Anzi, la sua “battaglia”, per quanto culturalmente coraggiosa e innovativa, non è affatto quella di chi pur lottando è già preparato alla sconfitta, ma quella di un gigante riconosciuto della cultura scientifica nazionale ed internazionale, che sferra la sua offensiva convinto di poter vincere.

Certo, sconfitto, nello specifico contesto storico-culturale italiano in cui avrebbe operato, e con qualche danno peraltro non irreversibile, sarebbe rimasto il suo tentativo di convincere i filosofi di professione, accademici e non (per quanto Croce fosse apparentemente sarcastico sulla figura del filosofo di professione), a prendere atto del fatto che il problema principale della filosofia italiana fosse quello di non collocare più la scienza, la sua logica, la sua metodologia e la sua etica, al di fuori del sapere filosofico o accanto ad esso, ma al suo stesso interno, perché il sapere filosofico potesse davvero acquisire un costume scientifico o irrobustire la sua vis critico-razionale.

Oggi, naturalmente, la situazione è diversa, anche se è difficile non lamentare che il mondo filosofico accademico italiano, quantunque ostenti di aver solidamente acquisito la consapevolezza e l’uso della scientificità di cui parlava lo scienziato livornese, sia non di rado rappresentato, anche ai più alti livelli, da pettorute mediocrità le cui capacità critico-scientifiche appaiono in molti casi più da postulare che da constatare e apprezzare. Enriques, come matematico, come storico della scienza, come filosofo della scienza e filosofo tout court, non pretendeva che lo studioso di filosofia fosse uno scienziato stricto sensu, ma avrebbe voluto che egli, contrariamente a quanto avveniva nella pur blasonata famiglia accademica italiana primo novecentesca, fosse almeno capace di assimilare criticamente la lezione della scienza moderna, il significato della sua logica e della sua metodologia, la sua capacità autocorrettiva, lo spirito critico e propositivo ad un tempo emergente dalla sua storia, per applicare poi coerentemente tutto ciò alla stessa attività filosofica di ricerca.

Enriques, beninteso, non contestava il costume accademico come tale e anzi se ne guardava bene, anche perché Croce, il suo più grande avversario, non era un accademico pur avendo per molti aspetti una mentalità accademica, e anzi era Croce stesso, da non accademico, a polemizzare spesso contro gli accademici e sino al punto di augurarsi, secondo un’informazione epistolare passata a chi scrive molti anni or sono da Eugenio Garin, che, «dopo morto, un qualche paesetto d’Abruzzo gli dedicasse una lapide con scritto sopra: “tolse la filosofia e la letteratura dalle mani dei professori universitari”».

Enriques non contestava dunque in se stesso lo spirito accademico, certe sue esigenze di rigore, di approfondimento, ma i modi dell’essere accademici e della prassi accademica. Il suo attacco era rivolto a certe forme storiche, concrete, dello spirito accademico, a certi modi piuttosto diffusi di intendere e applicare la funzione accademica. Se fosse vivo, ancora oggi egli chiederebbe a molti rampanti accademici nostrani chiarezza, essenzialità, profondità non oscura di pensiero; non un’impenetrabile ed esoterica tecnicalità filosofica, ma una discorsività lucida, articolata, ordinata, comunicativa, una vera originalità creativa e una non fittizia capacità di sintesi e di coinvolgimento, e poi ancora una speciale attenzione per la funzione formativa e la finalità civile del sapere; egli infine non combatteva lo specialismo ma ogni forma angusta e pretenziosa di specialismo che ostacolasse la circolarità effettiva del sapere ed implicasse una conoscenza settoriale, parziale, sganciata dalla vita e dalla società e da ogni possibile ideale sensato di vita e di società, e prendeva posizione a favore di un sapere almeno tendenzialmente capace di costruire un ponte tra l’alta cultura e, per cosí dire, la comune consapevolezza.

Niente di tutto ciò sembra andare contro l’Accademia e i suoi princípi costitutivi, perché tutte le cose che egli propone, a cominciare dalla sua forte esigenza etica di rinnovamento, sembrerebbero dover solo arricchire e potenziare l’Accademia. Ma l’Accademia filosofica italiana, ben diretta e ispirata dal potentissimo antiaccademico Croce, reagisce molto male, dandogli del “dilettante” e dell’ “irregolare”, ovvero dell’ “incompetente”. Cosa c’entra la filosofia con la scienza, la scienza con la filosofia, ma soprattutto cosa c’entrano la filosofia e la scienza con le esigenze “divulgative” espresse con tanta forza e temerarietà da quello strano matematico livornese? Grosso modo fu questo l’atteggiamento psicologico assunto da accademici e filosofi professionali italiani verso Enriques nel primo scorcio del secolo scorso. Ma essi furono in errore, non solo perché la storia si sarebbe incaricata di dimostrare che filosofia e scienza, pur distinte, sono inseparabili, e non semplicemente nel senso che se ne postuli l’inseparabilità, ma anche e soprattutto perché la divulgatività, ed Enriques naturalmente allude alla funzione altamente divulgativa del sapere, non certo a deteriori e grossolane forme di divulgazione scientifica e culturale, corrisponde ad uno dei caratteri essenziali della scienza moderna, ovvero alla sua comunicabilità, alla sua capacità di comunicare i suoi risultati e le sue scoperte, di renderli sempre più chiari e intellegibili, sempre più intersoggettivamente acquisibili ed esaustivi, che paradossalmente è ancora oggi, a ben vedere, un concetto in apparenza molto familiare ma in effetti molto ostico per le orecchie di taluni fumosi e spesso incomprensibili storici e filosofi italiani della scienza, nonché cattedratici apprezzati esclusivamente nell’ambito delle loro ristrette cerchie disciplinari.

La scienza di origine galileiana non ha niente a che fare né con un linguaggio esoterico o criptico, spesso contrabbandato come linguaggio tecnico e specialistico, né con una concezione privata del sapere, e chi ancor oggi, anche se in veste di consumato cattedratico indossa disinvoltamente i panni sacerdotali della scienza pur non producendo altro che sciocche banalità o contorte ed includenti disamine, non è neppure un cultore di cose esoteriche o un intelligente sostenitore dell’incomunicabilità del sapere ma un semplice e goffo imbroglione.

La funzione della scienza e della filosofia è quella di rendere manifesta la verità, beninteso nei limiti in cui ciò sia razionalmente possibile, cioè di divulgarla e trasmetterla nel modo più chiaro e inequivoco possibile, e non di nasconderla o oscurarla con la pretesa di distinguersi dalla massa plebea di incompetenti e incolti. Una mia coraggiosa collega studentessa di università una volta, al cospetto del prof. Paolo Rossi e di un suo allievo, oggi accademico di rango, disse a quest’ultimo alla fine di una sua incomprensibile lezione: “Amico, fatti capire, e solo allora potrò dirti se le cose che dici sono valide e sensate oppure semplici e madornali cazzate”. Il prof. Rossi finse di arrabbiarsi ma il suo allievo, ovvero il prof. Ferdinando Abbri, diventò piccolo piccolo.

Anche se può apparire sospetto un eventuale richiamo a quel Gramsci ribelle e carcerato che individuava la maggiore qualità del pensiero crociano proprio nella sua capacità divulgativa, ci si scorda comunque troppo facilmente che, con l’avvento della scienza moderna, la forma più valida di sapere è ormai quella che consente di spiegare cose difficili con ragionamenti severi e rigorosi ma chiari, lineari e basati su dati di fatto inoppugnabili anche se pur sempre aperti alla confutazione. Non è possibile fraintendere il discorso enriquesiano sul carattere divulgativo e antigerarchico della scienza, per cui ogni disciplina scientifica comunica con le altre pur in virtù di una sua relativa autonomia logica, metodologica ed epistemica. L’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, modello paradigmatico di circolarità del sapere, oltre che una funzione scientifica e filosofica di grande rilievo, non avrebbe avuto anche una precisa e imprescindibile funzione divulgativa e una funzione divulgativa di altissima qualità? Ecco: Enriques, in Italia, avrebbe voluto fare una cosa del genere, appunto nel nome di un’idea non mistificata di filosofia scientifica e nel nome dell’uomo.

Ma è ancora necessario precisare che la “battaglia” enriquesiana (termine per nulla “eccessivo” contrariamente a quanto da altri sostenuto all’indomani del mio Maestri di morale del 19999  — conclusasi sostanzialmente intorno al 1915, anche se lo scienziato livornese sarebbe morto verso la metà degli anni quaranta— per l’affermazione dei diritti della ragione scientifica e della ragione tout court, per l’uscita della cultura italiana da un evidente stato di minorità, è tanto più credibile quanto più essa sembra volersi sottrarre a semplici esigenze propagandistiche, per radicarsi invece stabilmente nella coscienza della storicità della moderna impresa scientifica, e quindi nella coscienza delle sue molteplici ragioni “interne” o logico-metodologiche (Vailati) ed “esterne”, e quindi di natura affettiva, extralogica, inconscia, anch’esse come le prime, concorrenti alla formazione dei processi logico-matematici e alla scoperta della verità scientifica in generale.

In questo senso sarebbe apparso chiaro al matematico italiano che per la scienza, su tutti i versanti culturali e specialistici, si deve lottare non per una semplice opzione intellettuale di valore soggettivo ma per oggettiva necessità, per quello stesso oggettivo ed intersoggettivo bisogno storico-umano da cui essa è continuamente prodotta e riprodotta. La scienza, la ragione, al di là delle proprie regole interne anch’esse prodotto di una processualità storica endogena del pensiero critico, sono una oggettiva necessità della storia e insieme una concreta possibilità di libertà e di progresso nella storia. Quella storia cosí cara a Croce non è dunque assente dalla ricerca filosofico-scientifica enriquesiana, nella quale certo si trova un’energica difesa della scienza ma pur sempre in una valorizzazione e in un apprezzamento della storia, mentre in Croce c’è un’energica difesa della storia ma in una sostanziale negazione o almeno sottovalutazione del valore conoscitivo della scienza. Per Enriques la scienza non è semplice mezzo di un’intellettuale ascesi mistica, non è oltre la vita, oltre la storia, oltre la realtà sensibile, di cui è tenuta a cogliere al contrario la verità oggettiva attraverso una conoscenza mai assoluta e definitiva e tuttavia relativamente certa e universale di cose reali e non puramente pensate. Da questo punto di vista, ad Enriques non può non essere riconosciuto l’enorme merito di aver contribuito in modo determinante a cambiare radicalmente il modo filosofico tradizionale di pensare al rapporto tra filosofia e scienza, che grazie a lui non sarebbe più stato di reciproca e sterile esclusione ma di reciproca e feconda inclusione. Certo, non avrebbe avuto la forza morale di continuare a lottare e a far valere le sue ragioni anche sotto il fascismo contro cui non avrebbe mai mosso un dito. Ma i limiti umani e morali ancor più che politici dell’uomo, che tuttavia devono essere giudicati con umana e benevola compassione, non vanificano affatto i suoi notevoli meriti non solo strettamente scientifici ma filosofici e culturali e meriti che si affiancano a quelli altrettanto importanti di Giovanni Vailati.   

La scienza può essere formale (Giuseppe Peano), convenzionale (Henri Poincaré) o pragmatica (Giovanni Vailati): se è scienza, in un modo o nell’altro dev’essere vera e vera in rapporto ad un mondo vero, reale, non illusorio. Se è vero che la scienza è parte ed è prodotto di un mondo sensibilmente e teoricamente reale, di un mondo la cui esistenza oggettiva non può essere messa in discussione, è anche vero che i modelli teorici e sperimentali di realtà, costruiti “secondo le proprie leggi” dal pensiero razionale, sollecitato da dati osservativi e da esperienze sperimentali sempre nuove e sempre più sofisticate, corrispondono, sia pure approssimativamente, ad oggettive strutture della realtà. Alla fine, se si prescinde dalle indubbie opacità di Enriques uomo con le sue scelte morali, civili e politiche, per il primo Enriques, per l’Enriques teorico, scienziato, filosofo e critico dello Stato e dello stesso Stato democratico, sempre sobrio e contrario alle enfatizzazioni, la scienza, lungi dal voler ridurre a se stessa tutte le possibilità della ragione umana, resta tuttavia termine di riferimento imprescindibile di un corretto approccio conoscitivo ai problemi del sapere, della realtà fisico-naturale e della realtà storica, fungendo ad un tempo da indispensabile guida ad una volontà umana generosamente impegnata anche contro una storia eventualmente orientata a consacrare le ragioni della forza e a negare i diritti della ragione stessa.

Purtroppo Enriques in Italia non avrebbe mai trovato “udienza”, né con Croce, né con altri: né con Banfi, né con Della Volpe, che si sarebbero privati dell’opportunità di intendere perfettamente come il significato e le implicazioni del rapporto tra filosofia e scienza possano mutare a seconda che tale rapporto sia affrontato dal punto di vista della filosofia oppure da quello della scienza e di una scienza effettivamente praticata; né con Preti che, teorico appassionato anche se non espertissimo della logica scientifica, di Enriques avrebbe ricordato solo marginalmente le buone capacità di “storico della scienza”; né infine con il più competente Geymonat, che troppo tardivamente avrebbe riconosciuto i reali meriti enriquesiani. Ma questo, naturalmente, è un altro discorso.

  Francesco di Maria

NOTE

 1 L. Geymonat, Scienza e filosofia nella cultura del novecento, Treviso, Pagus Edizioni, 1993

 2 G. Preti, Praxis ed empirismo, Mondadori 2007

 3 G. Lanaro, Per una rilettura del rapporto tra Vailati e la filosofia italiana, in I mondi di carta di Giovanni Vailati, a cura di M. De Zan, Milano, Angeli 2000.

 4 L. Geymonat, op. cit.

 5 G. Vailati, Epistolario 1891-1909, Torino, Einaudi 1971, pp. 151-160. Sul pensatore di Crema, si può vedere l’utile, e a tratti suggestivo, anche se forse non del tutto esaustivo libro di F. Minazzi, Giovanni Vailati epistemologo e maestro, Milano, Mimesis, 2011. Di Minazzi e altri studiosi si possono vedere sempre su Vailati, ma anche su Enriques, alcuni articoli in Il Protagora, gennaio-giugno 2011,n. 15, pp. 7-101, dove in realtà c’è molto da apprendere ma anche molto da discutere.

 6 I mondi di carta di Giovanni Vailati, a cura di M. De Zan, cit, p. 179

 7 Ivi

 8 O. Pompeo Faracovi, La ragione solitaria. Aspetti della filosofia scientifica di Federigo Enriques, Sarzana, Agorà 2014

 9 F. Luciani, Maestri di morale, Cosenza, Brenner 1999; cfr. Pompeo Faracovi, Federigo Enriques. Matematiche e filosofia, Livorno, Belforte 2001

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