Sul pensiero morale e politico di Cesare Luporini

Cesare Luporini ebbe molto a cuore e sottolineò ripetutamente il ruolo della soggettività umana nella vita e nella storia degli uomini. Prima come esistenzialista, poi come marxista, egli non avrebbe mai parlato della soggettività umana solo come di una astratta e sia pure essenziale categoria filosofica, ma come elemento costitutivo della natura umana e delle strutture oggettive della realtà storico-sociale. Ne avrebbe sempre fatto uso, altresì, in relazione a specifiche e concrete forme storiche di soggettività: quella del movimento femminile e femminista, dei movimenti giovanili, ambientalisti, antimilitaristi e pacifisti, oltre quella dello stesso partito comunista alla quale le altre forme di soggettività non sarebbero mai risultate riducibili.  La classe operaia non era più l’unico soggetto della storia, in quanto ad essa si aggiungevano ora nuovi soggetti dell’antagonismo teorico-culturale e della lotta sociale e politica, e ognuno di essi si presentava con un suo specifico modo di pensare, sentire, agire, essere, in rapporto a concrete, determinate, cogenti situazioni dell’esistenza.

La tradizionale collettività proletaria, assolutamente centrale nella visione materialistica marxiana, veniva dilatandosi sino a diventare comprensiva di istanze umane ed etico-sociali in apparenza molto eterogenee ma accomunate da una stessa esigenza di liberazione ed emancipazione, che il partito comunista avrebbe avuto il compito di reinterpretare e rimodulare in aderenza a sviluppi e configurazioni di essa sempre diversi. Luporini, quindi, lungi dal rompere radicalmente con la sua formazione esistenzialistica, ne veniva travasando, seppur ripensato alla luce della scienza moderna, l’elemento più caratteristico, ovvero l’apertura del singolo alla ricerca del significato e del valore possibili, e non astratti o meramente ideali, dell’esistenza, nell’originario corpus marxiano, liberandolo immediatamente dalle sue versioni deterministiche e meccanicistiche, e intendendolo come possibile orizzonte di senso e di emancipazione non solo per la classe operaia ma per qualunque altra soggettività storica.

Però, quel che veniva guadagnando attraverso questa operazione, non era più il marxismo di Marx, il cui materialismo storico tuttavia restava assolutamente centrale nell’interpretazione luporiniana, anche se da integrare con un più complessivo materialismo biologico e naturalistico, ma qualcosa di diverso, di più composito, di più esistenziale appunto, in cui la forza condizionante delle oggettive strutture storico-economiche venisse a coniugarsi, non per il tramite di anguste direttive di partito, con la libertà e la responsabilità di scelta e di azione degli uomini nel loro contesto storico di appartenenza. Qualcosa del genere era accaduto con Antonio Banfi, allorché, pur avendo aderito al marxismo per un bisogno di forte umanizzazione della lotta politica, aveva travasato in esso tutto l’armamentario teorico del suo originario razionalismo critico, anche se, a differenza di Banfi, Luporini si sarebbe dedicato con serietà e rigore filologico allo studio del marxismo, fornendone una delle interpretazioni più originali e innovative della seconda metà del Novecento italiano.

L’interpretazione di Luporini, pur riservando la giusta attenzione alla dimensione storica delle idee e delle opere umane, rompeva con certo storicismo di origine hegeliana ereditato dai socialisti e comunisti italiani della prima metà del ‘900, il che, in più di un’occasione, avrebbe fatto storcere il naso ai vertici politici del partito di Togliatti, che tuttavia erano certi dell’assoluta lealtà del compagno Cesare Luporini, anche perché i residui o gli elementi esistenzialistici che portava con sé nell’aderire al marxismo apparivano del tutto privi di intonazioni intimistiche e di implicazioni o nostalgie metafisiche e religiose. Tuttavia, è degno di nota il fatto che, come ha ricordato la sua allieva Maria Moneti, all’idea di “coscienza collettiva” di origine marxiana e stabilmente acquisita dallo stesso PCI, Luporini contrapponesse quella, tipicamente esistenzialista, di “coscienza individuale”, in quanto «la coscienza, ripete  più volte, è sempre individuale; la “coscienza collettiva” è una nozione mistica»1, benché la “coscienza individuale” qui non era vista come capace di assorbire sempre e completamente i contenuti più remoti della psiche, freudianamente carica di pulsioni conflittuali, rispetto alla quale quindi restava come “decentrata”. Donde una coscienza anch’essa segnata e condizionata dalla stessa conflittualità psichica2.

Ma, per quanto in tal modo rischiasse di apparire caratterizzata in senso eccessivamente soggettivistico, la coscienza rivoluzionaria, per Luporini, non poteva andare sempre a rimorchio dei processi storici, non poteva attendere il loro compimento, a colpi di analisi critiche, prima di poter prendere forma e di esprimere giudizi concreti sul da farsi, non poteva ridursi a sapere storico, perché il futuro dell’umanità non sarebbe stato scritto dalla storia come astratta e impersonale entità. Luporini polemizzava con lo storicismo osservando che, come ha ricordato la filosofa e politica calabrese Vittoria Franco, «niente scivola verso il futuro “come sul burro”», che «non c’è futuro automatico verso una società fatta di individui liberi. Sono i soggetti che devono prendere in mano le azioni, anche in modo spontaneo. Grazie a quei nuovi soggetti», quelli prima indicati, «si è realizzata una rivoluzione culturale — nelle idee, nei comportamenti, nei valori — anche se la politica non ha avuto la capacità di mediare tra spontaneità e organizzazione»3. La critica del filosofo ferrarese allo storicismo è stata ben sintetizzata nel seguente modo: «negli anni settanta il suo giudizio si farà impietoso. Lo storicismo viene paragonato a un “cancro”; se il marxismo “è prima di tutto analisi e critica del presente”, quello lo lederebbe in due modi, con il determinismo e con l’opportunismo, che gli è strettamente connesso. Lo storicismo, secondo Luporini, “entifica la storia, dice che c’è la storia, e finisce, lo confessi o meno, per identificarla con tutta la realtà”. Grave errore, perché “la ‘storia’ come soggetto (o oggetto) autonomo, comunque mascherato o metaforizzato, non esiste”. Esistono la natura e la società, non una storia che, nel tempo, realizza se stessa. Qualora invece ogni evento sia ritenuto necessario, in forza del suo passato, allora — ecco il passaggio all’opportunismo politico — non potrà darsi azione ingiustificata. Se lo sviluppo storico travalica gli atti e gli scopi dei singoli, questi ultimi potranno giustificare ogni scelta in nome dell’inevitabile adattamento a un destino generale. “Se la totalità è quella di tutta la storia in movimento”, allora essa diventa “una totalità vuota in cui trionfa l’empiricità (la politica, come empiricità)»4.

La strategia rivoluzionaria di un comunismo integralmente e permanentemente emancipativo aveva bisogno di un nucleo teorico fondativo, autonomo dalle correnti esigenze e vicende politiche5 e che, senza dissolversi nella storicità, potesse tuttavia intervenirvi a chiarirne lucidamente nodi ricorrenti e situazioni particolarmente dilemmatiche, mantenendo la rotta di non precari valori etici e di indiscutibili e solide finalità politiche. Un nucleo teorico che, pur rigorosamente innestato sul materialismo storico e sulla critica dell’economia politica, fosse ricettivo non solo di pur significative e largamente condivise istanze pubbliche ma anche di istanze socialmente molecolari, di istanze private, individuali, quantunque non individualistiche ma dotate di una forte connotazione morale e politica, come per esempio quelle di donne afflitte dalla necessità di abortire in condizioni dignitose e non umilianti. Quando nel ’75, il PCI riconobbe il diritto femminile di abortire solo a seguito di violenza o di pericolo per la salute e “attraverso l’assistenza del medico”, Luporini si sarebbe indignato contro il partito, spiegando ad Alessandro Natta che l’elemento più mostruoso della legge approvata era proprio il ruolo affidato alla categoria dei medici, ruolo poliziesco e stregonesco insieme (e che si presta a ogni corruzione e ingiustizia di classe), nel tenere le compagne della nostra vita in una condizione subalterna, umiliante e comunque traumatizzante6. Analogamente, nel marzo del 1977, avrebbe protestato nel Comitato Centrale del partito comunista contro la sua incapacità politica di capire le ragioni della contestazione giovanile e studentesca  e, quindi, di mantenere il contatto con quelle masse giovanili che avrebbero dovuto essere artefici del loro futuro. Il suo comunismo, così, appariva un po’ spontaneista, un po’ libertario, senza tuttavia che egli si interrogasse a fondo sulla oggettiva legittimità delle motivazioni, di volta in volta da lui addotte a sostegno delle sue proteste.

Ma anche alle istanze di più vecchia data emergenti nel Paese, sebbene non proprio convergenti con la sua concezione di vita morale, Luporini non avrebbe mancato di mostrarsi sensibile, come nel caso del cattolicesimo in cui, a suo giudizio, i comunisti avrebbero dovuto trovare un importante e significativo termine di confronto. Non si può dimenticare che egli fu sempre favorevole all’ipotesi del dialogo tra comunisti e cattolici e avrebbe anzi precisato che gli uni e gli altri non si sarebbero potuti e dovuti limitare ad avvicinarsi solo «nella pratica, senza riflessi dottrinari», per cui il dialogo si sarebbe dovuto svolgere su tre piani: filosofico (implicante evidentemente anche la questione religiosa), sociale e politico7. Personalmente penso che, da lì a poco meno di vent’anni dopo, una delle frasi più accattivanti del pensiero marxiano mai pronunciate da Luporini, anche a favore del mondo cattolico, sia stata quella che si trova lapidariamente scritta nel “Manifesto del partito comunista”: «Il libero sviluppo di ciascuno come condizione del libero sviluppo di tutti». Il commento del vecchio, acuto pensatore ferrarese era teoricamente rilevante: nella celebrazione del centenario della morte di Marx, durante il XVI Congresso del Pci nel marzo del 1983: «liberazione degli individui nella società da tutti quei condizionamenti che non il buon Dio o la natura o il destino, ma gli uomini stessi hanno prodotto nella loro storia […]. Per l’espansione di tutto il potenziale umano di ogni singolo individuo: questa la sostanza del comunismo … Un ideale utopico? No, compagni, un obiettivo che forse un giorno lontano potrà apparire persino modesto, ma da cui noi non dobbiamo mai distogliere lo sguardo. Per questo ci chiamiamo comunisti, e non mutiamo nome”8.

Cosa significava quell’«espansione di tutto il potenziale umano di ogni singolo individuo», in cui era in gioco il vero valore morale e politico del comunismo, se non che nella società comunista ogni singola persona, anche di fede cattolica, dovesse essere posta nella effettiva condizione di manifestare appieno il meglio di se stesso, le proprie capacità intellettive ed intellettuali e le proprie competenze, la propria sensibilità, la propria forza morale anche in particolari forme emozionali, le proprie idee e i propri convincimenti, sempre e solo in funzione di una società libera, libera anche e soprattutto da corruzione e malaffare, e giusta anche e soprattutto rispetto a forme non dichiarate ma attive e socialmente deleterie di prevaricazione e irresponsabilità morale.  

Immagino perciò che Luporini non si sarebbe irritato se qualcuno, con la dovuta franchezza, gli avesse fatto notare che, ancora verso la fine del XX secolo, apparisse quanto meno controversa la questione relativa alla liceità o illiceità etica di un provvedimento legislativo che prevedesse l’assistenza medica per donne che vogliano o debbano abortire. Per molti di noi, fermo restando che qualunque legge può essere aggirata o violata in modo fraudolento, il fatto che una donna in procinto di abortire possa contare su un’assistenza medica qualificata e responsabile dovrebbe essere considerato come un segno di civiltà, non certo di indelicatezza verso la donna. E anche per ciò che riguarda la questione della contestazione giovanile, è curioso che Luporini, forse troppo preso dal suo ruolo di filosofo progressista, non si sia mai chiesto quali fossero le reali motivazioni delle battaglie di quei movimenti studenteschi che, a partire dal ’68, avrebbero studiato sempre di meno, delegittimando sempre di più la stessa istituzione universitaria. Non che il ’68 esprimesse solo istanze infondate e regressive, ma, poiché egli sapeva benissimo che, storicamente, non tutte le novità sono necessariamente espressione di verità, di positività assiologica, di valori etico-civili chiaramente distinguibili da semplici realtà di fatto, specialmente ad un evento di quella natura avrebbe potuto e dovuto dedicarsi con una maggiore capacità e volontà di analisi.

Peraltro, il ’68 è anche l’anno dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. I dirigenti del PCI, in primis il segretario Longo, avrebbe condannato formalmente quell’atto, ma io non sono mai riuscito a trovare uno scritto di condanna, una riflessione critica, una indignata protesta di Luporini, neppure postuma, al riguardo (che, mi risulta, si sia semplicemente “astenuto”), di Luporini che invece, mentre gli studenti cechi di Praga venivano assassinati dai paladini “di una superiore civiltà umana”, si sarebbe appassionato alle contestazioni studentesche italiane e fiorentine di quello stesso anno. Nel secondo semestre del ’68 io ero studente universitario nella facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze e, talvolta, vedevo Luporini circondato da gruppi di studenti che, trascorrendo il tempo tra una contestazione e l’altra ed esprimendogli le loro rimostranze teorico-politiche più o meno velleitarie, non solo impedivano a lui di tenere il suo corso di lezioni, ma bloccavano completamente ogni attività didattica di facoltà. Avrebbe dovuto non già acconsentire a quei disordini assolutamente non necessari e anzi del tutto ingiustificati per le modalità in cui venivano manifestandosi, ma sforzarsi di capire la natura meramente strumentale, demagogica e persino provinciale di quelle proteste, provinciale nel senso che il movimento studentesco fiorentino, per quanto culturalmente molto più scalcagnato e dozzinale di quanto si sforzasse di non dare a vedere, non intendeva sfigurare rispetto ai suoi colleghi d’oltralpe che erano stati protagonisti della rivolta studentesca del maggio francese.

Luporini, tuttavia, anche negli anni successivi avrebbe sempre interpretato quegli avvenimenti come segno di vitalità umana e sociale e come una fase di importante mutamento etico, anche individuale, di comportamenti sino a quel momento troppo rigidamente sottoposti a condizionamenti sociali e di costume, senza chiedersi se, dietro tanto apparente anticonformismo  libertario, si celasse un sentire opportunistico e qualunquistico già programmaticamente puntato verso lo smantellamento di qualsivoglia organizzazione meritocratica del lavoro culturale e sociale: in realtà, quel momento storico non avrebbe tardato a produrre, e ancora oggi continua a produrre, effetti devastanti sull’intera società italiana, e in particolare su scuola e università con evidenti riflessi sulla stessa vita politica nazionale, riducendo gradualmente ma sensibilmente la qualità del sapere, dell’insegnamento e dell’apprendimento, il grado di autorevolezza di figure professionali del mondo della cultura e della scienza, lo stesso livello di maturità politica e democratica del nostro popolo. Oggi si avverte ancora meno di ieri il bisogno etico di assegnare una cattedra liceale o universitaria, un posto di dirigente scolastico o ospedaliero, un ruolo di magistrato o di primario, a soggetti realmente qualificati e meritevoli, anche al di là di titoli non sempre attendibili o rispondenti al grado reale di preparazione dei candidati.

Luporini avrebbe rimproverato al suo partito di perdere “pezzi” importanti di consenso politico-elettorale proprio a causa del suo disimpegno verso tutti quei giovani che chiedevano maggiore libertà, democrazia e giustizia sociale, senza rendersi conto che la fede della stragrande maggioranza di essi in quei valori etici e politici fosse probabilmente molto meno salda di quel che egli stesso potesse immaginare, e che, di conseguenza, il distacco delle masse giovanili dal partito non fosse dovuto tanto all’imperizia e all’insensibilità di quest’ultimo verso i nuovi bisogni sociali emergenti dalla storia quanto alla divergenza teorica e pratica di prospettiva di un vasto fronte giovanile solo nominalmente “di sinistra” rispetto a certe dure e serie idealità statutarie che gli organi dirigenti del partito avevano doverosamente e giustamente ereditato dalla sua storia più eroica e gloriosa. Non è detto che un partito politico debba morire per colpa dei suoi vertici, può anche morire per colpa della sua base, o per colpa di ambedue le parti. Nel caso del PCI (e nei limiti cronologici di esistenza di tale sigla), è molto difficile stabilire se la sua fine sia stata determinata più dagli uni che dall’altra o se ne siano stati entrambi e in egual misura corresponsabili, ma proprio per questo, aposteriori, certe critiche mosse da Luporini ai compagni di partito possono apparire oggi un po’ frettolose, ingenerose e pretestuose.

Se, sul piano specificamente politico, a Luporini ha potuto fare difetto una certa mancanza di realismo e in qualche frangente anche di coerenza etica, anche sul piano della teoria etica e dello stesso impegno morale, dove naturalmente non c’è essere umano che non debba farsi perdonare qualcosa di importante, egli ha lasciato indicazioni in parte ancora preziose e in parte suscettibili di essere discusse e commentate criticamente. Nelle “Radici della vita morale” del 1964 (9), egli veniva concependo la morale non in senso normativo o legalistico come insieme di norme imperative e regole ingiuntive, ma in senso empirico-situazionale come attitudine a giudicare il lecito e l’illecito e a distinguere tra essi non in base a codici etici aprioristici e predeterminati o a valori definiti ontologicamente, ma in base a sentimenti naturali di empatia, intelligenza e compassione, naturalmente sollecitati da situazioni problematiche di volta in volta diverse  e richiedenti un’assunzione personale di rischio. Qui, la soggettività luporiniana non evocava la interiorità spiritualistica del cristianesimo, considerata addirittura come «ipoteca paurosa, metafisica, che grava su di noi da secoli», ma piuttosto «l’uomo spirituale dentro l’uomo vivente, corporeo, materiale»10, che però, a ben vedere, non poneva certo in grave pericolo il concetto cristiano dell’interiorità personale.

Ma, in tale saggio, in sostanza Luporini prendeva posizione contro un’etica rigoristica e, più precisamente, contro l’etica kantiana dei doveri e delle intenzioni, contrapponendo ad essa un’etica, verrebbe da dire weberiana, della responsabilità, anche se, nel caso specifico, il pensiero dell’attento lettore correva piuttosto allo spirito oggettivo e all’etica pubblica di Hegel. Per lui, infatti, non agiva bene chi voleva agire bene ma solo chi volesse creare migliori condizioni di vita per gli uomini. Ma, ancora una volta, mancando di essere consequenziale nella sua riflessione, non si chiedeva se fosse realisticamente possibile tentare di creare migliori condizioni comunitarie o collettive di vita, mettendo da parte la propria idea personale, e non necessariamente superficiale o inessenziale, di bene morale. Il fine e le opere, per Luporini, dovevano prevalere su doveri e intenzioni, anche se la soggettività morale, da lui tanto evocata e sottolineata, era tutt’uno con l’emotività sentimentale individuale, le cui possibili implicazioni sono plurime e di cui il filosofo di Ferrara avrebbe sempre segnalato la forza e il ruolo nella vita morale soggettiva e intersoggettiva degli esseri umani.

Luporini poneva qui un tema molto delicato, anche perché esso si presta ad opzioni soggettive diverse, che hanno a che fare con il tipo di emotività soggettiva di ogni singolo individuo, con la sua specifica sensibilità morale, con il suo carattere e la sua indole, con la sua formazione spirituale. Se, come diceva Luporini, la soggettività deve intendersi nella sua specifica e irripetibile naturalità, ancor prima che nella sua dimensione storico-sociale, allora la risposta di ogni essere vivente, e ancor più di ogni umana soggettività, agli stimoli dell’ambiente esterno, non potrà essere necessariamente uniforme ma dovrà essere verosimilmente difforme e diversificata, e ci sarà sempre chi propenderà per un’etica kantiana o per un’etica hegeliana o weberiana, oppure anche chi si riserverà di volta in volta di optare per una di queste soluzioni o anche per soluzioni ulteriori o alternative.

Il punto dolente della posizione luporiniana riguarda piuttosto la proposizione da lui adoperata e l’ambiguo senso logico e morale che essa veicola: chi è, in realtà, che vuole creare migliori condizioni di vita collettiva, oltre che individuale? Chi mette da parte senso del dovere e intenzioni morali per rapportarsi ad altri soggetti o ad altri poteri e istituzioni con una certa disinvolta elasticità, da cui non sia possibile escludere aprioristicamente né la menzogna, né un compromesso al ribasso, con tutte le conseguenze che possano derivarne, pur di raggiungere determinati obiettivi o realizzare vantaggiosi progetti, oppure chi, quantunque con enorme sofferenza, sia disposto a mandare qualunque cosa per aria, non già per conservare integro e “puro” il proprio io, ma per non concorrere ad introdurre nella comunità umana e nel mondo sociale e politico-culturale, germi di falsità, corruzione, decadenza etico-civile, e persino di improduttività e spreco economici?

E, giusto per restare in tema con la storia intellettuale e politica di Luporini, chi fu dalla parte di una morale responsabile e di una politica lungimirante, finalizzata al bene comune, in occasione della repressione sovietica della rivolta ungherese del ’56 o dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel ’68? Chi fu, chi furono? Quegli intellettuali e politici marxisti e comunisti italiani che, nel nome di una realpolitik di sfuggente utilità collettiva, assistettero silenti ai crimini dell’esercito russo-sovietico in entrambe le circostanze oppure quei pochi di pari fede comunista che protestarono, affrontando a viso aperto l’espulsione o l’allontanamento volontario dal proprio partito? Per quanto riguarda i fatti di Praga, si è già detto come Luporini si astenesse, mentre 12 anni prima, sui fatti ungheresi, si era attenuto, senza batter ciglia, alla condanna ufficiale del partito dei “controrivoluzionari” ungheresi, condividendo con intellettuali prestigiosi, come per esempio Concetto Marchesi e Antonio Banfi,  e con il suo carissimo amico Pietro Ingrao, la responsabilità di uno dei momenti più oscuri e vergognosi della storia del comunismo italiano. Ingrao, sull’Unità del 25 ottobre del 1956, nell’editoriale intitolato Da una parte della barricata a difesa del socialismo, scriveva: «Bisogna scegliere: o per la difesa della rivoluzione socialista o per la controrivoluzione bianca, per la vecchia Ungheria fascista e reazionaria». Si deve ritenere che, in quel frangente, Cesare Luporini rivendicasse, sia pure forse tra dubbi e perplessità, la sostanziale razionalità e il significato etico della sua scelta a favore della “difesa della rivoluzione socialista”, anche se molti continuano a pensare che egli allora non abbia affatto voluto creare migliori condizioni di vita per gli uomini.

Quattro anni prima di morire, pur schierandosi contro lo scioglimento del PCI, appariva ormai disilluso e privo di quell’entusiasmo rivoluzionario che non gli era mancato fino a tutti gli anni sessanta: sentiva, infatti, il bisogno di precisare che l’espressione “comunismo reale” dovesse ritenersi solo “una mistificazione concettuale” e che il comunismo, pur denotando un “movimento reale”, ovvero non meramente illusorio o fantasioso, rimaneva tuttavia «un orizzonte», ideale o utopico, «di libertà e liberazione», non più una “necessità”, come aveva pensato in chiave ideologica Marx, ma una semplice, anche se  significativa, “potenzialità e possibilità”11. Che, evidentemente, ad Achille Occhetto dovette apparire troppo poco per sentirsi indurre a non sciogliere il PCI.

  Com’è noto, gli ultimi anni Luporini li avrebbe trascorsi, forse tra amarezze e  rimorsi, quasi esclusivamente in compagnia del suo Leopardi e anche questo costituisce un segno di come egli, in fondo, sia rimasto intimamente legato al suo giovanile approccio esistenziale ai problemi morali e spirituali non contingenti dei singoli individui. Nel 1987, nell’edizione napoletana, curata dall’editore Macchiaroli, di nuovi studi su “Il pensiero di Giacomo Leopardi”, Luporini scriveva righe di memorabile e struggente bellezza etica, di cui forse persino amici a lui cari non avrebbero colto tutte le implicazioni: la virtù «dipende esclusivamente dalle forze del singolo: allorché non si lascia piegare, anche se è costretto ad accettare una sconfitta inevitabile da parte dei meccanismi sociali e politici che lo emarginano, e quindi a restare nella sua “disperata solitudine”. Tale virtù è la capacità di testimoniare il vero contro tutto, di non abbassare il capo e dunque di avere il coraggio del rifiuto e della contestazione. Piú che il “lamento” (che c’è, ma è lamento sempre accoppiato all’ ”odio”, e la meditazione sull’odio è uno dei grandi motivi leopardiani fin dalla giovinezza) o la stessa protesta, è la virtù contestativa ad essere esaltata da Leopardi (e anche da lui operata conferma, non rumorosa, semplicità nella sua privata pratica di vita). Nulla di istituzionale le resiste (a cominciare, direi, dalla famiglia). Il bersaglio maggiore di tale contestazione è il potere degli uomini su altri uomini, e quindi il potere politico». 

Francesco di Maria

NOTE

1 M. Moneti,  Filosofia e politica in Cesare Luporini, nel quadro della “Giornata di studi su Cesare Luporini”, in “Annali del Dipartimento di Filosofia”, XV (2009), p. 221.

2 Ivi, p. 225.

3 V. Franco, Cesare Luporini e le crisi degli anni ’70: liberare Marx dal marxismo, Biblioteca delle Oblate, Firenze, 9 febbraio 2023, in occasione della presentazione del libro inedito di C. Luporini, Libertà e strutture. Scritti su Marx (1964-1984), a cura di Rosario Croce, Pisa, Edizioni della Normale, 2022.

4 G. Azzolini, Lo storicismo marxista nell’Italia degli anni Settanta, in “Filosofia italiana”, XVI, 29 marzo 2021, p. 96, in cui, come può constatarsi, si cita direttamente dalle opere di Luporini.

5 F. Cerutti, Due domande sul pensiero politico, in “Giornata di studi su Cesare Luporini”, cit., p. 230.

6 Cfr. S. F. Magni, Luporini e Ingrao. Le lettere del disaccordo, in “Critica marxista”, giugno 2020, p. 81.

7 C. Luporini, Religione e problemi del mondo attuale, in “Il Contemporaneo”, 1965, n. 3, pp. 23-25.

8 C. Luporini, Marx e noi, in Critica marxista, 1983, nn. 2-3, pp. 14 ss.

9 AA.VV., Morale e società, Atti del Convegno promosso dall’Istituto Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 43 e sgg.. Il saggio luporiniano Le radici della vita morale era apparso in Belfagor, XIX (1964), pp. 669-687.

10 Relazione di C. Luporini al Convegno di Studi su “Il problema della soggettività”,  Roma, 11 dic. 1961.

11 C. Luporini, Il comunismo potenziale e possibile, in “Il Manifesto” del 19 novembre 1989.

 

 

 

 

 

Francesco Luciani

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