Il vezzo accademico della complessità

Si tratta in vero di un vezzo umano, che si manifesta tuttavia in forma tipica particolarmente nell’atteggiamento mentale e nel gergo dell’accademico. Se voi parlate con un logico professionista, con uno di quei logici accademici che leggono montagne di libri, di saggi, articoli specialistici, atti convegnistici e seminariali, non tanto per capire quel che dicono e pensano altri studiosi della loro stessa disciplina quanto per non restare quantitativamente arretrati rispetto alle conoscenze e alla novità del settore, vi sentite spiegare virtualmente, perché molto di quel che dicono non sempre risulta poi così chiaro e incontrovertibile come essi pensano, che, quando la gente comune o mediamente istruita viene proponendo ragionamenti in qualsiasi campo dello scibile umano, in realtà il valore logico del suo argomentare è molto scarso e inefficace rispetto alle più sofisticate ed evolute acquisizioni teorico-linguistiche della logica.

Lo stesso vale per storici delle idee (mentre gli storici generalisti, pur molto precisi e documentati, sono molto meno pignoli e molto più concreti), per filosofi della scienza, della biologia, della politica, dell’economia, del diritto, per filosofi morali, estetici, teoretici, e l’elenco potrebbe includere molte altre figure di superspecialisti filosofi, che, non esitando a sciorinare periodicamente elenchi infiniti di esemplificazioni critico-bibliografiche che dovrebbero dimostrare l’estrema complessità di questo o quel campo di indagine, pensano altresì di dimostrare l’eccelsa e raffinata qualità della loro “scienza”.

Ora, non c’è dubbio che il sapere critico non possa più fondarsi sul mito di discipline a sé stanti e necessiti sempre più non solo di specifici contenuti culturali e di tematiche essenziali attinenti questo o quel campo di studio ma anche di conoscenze logico-metodologiche, linguistico-semantiche e lessicali, e persino estetico-stilistiche non improvvisate né raccogliticce, ma derivanti da precisi intrecci inter e multidisciplinari. Tuttavia, personalmente ho trovato sempre stucchevole quell’attitudine esibizionista di molti accademici che tendono non solo a sottolineare, per esempio durante le loro lezioni universitarie, la natura realmente complessa di determinate forme dell’indagine culturale, ma anche a reiterare enfaticamente la loro  dichiarata vocazione specialistica anche o proprio in ordine al tema della complessità, tutte le volte che avvertano il bisogno psicologico di distinguersi in linea di principio dalla massa di cultori delle loro medesime discipline di riferimento o, più in generale, dalla massa di coloro che si cimentano sui loro stessi oggetti di ricerca. Dopotutto, sarebbe molto semplice, di volta in volta, senza ricorrere alla prosopopea della complessità, intervenire criticamente su uno studio o sul pensiero altrui, per far notare all’autore i motivi per i quali egli peccherebbe di semplicismo, oppure, al contrario, di palese eccedenza analitico-argomentativa. Ma il problema è che la complessità non è solo e tanto una caratteristica strutturale del sapere contemporaneo, bensì anche, forse in prevalenza, una strategia autoreferenziale di autopromozione scientifica, filosofica, culturale.   

Ricordo che un mio docente universitario fiorentino, il professor Paolo Rossi Monti, che era un eccellente studioso di problemi storico-filosofici, capace di scrivere libri tanto interessanti quanto gradevolissimi per forma e per stile, ma anche un pessimo docente, nel senso che non era in grado di tenere una lezione sufficientemente organica, lineare e coinvolgente, era avvezzo a innervosirsi tutte le volte che gli si faceva notare come fossero quasi completamente incomprensibili le lezioni che venivano a tenere alcuni suoi “ospiti”, il più delle volte, suoi giovani allievi ormai proiettati verso una splendida carriera universitaria. Ricordo che una mia collega di corso ebbe una volta l’ardire di contestare polemicamente a Rossi che un grande filosofo come Bertrand Russell, a differenza dei suoi allievi arabeggianti, aveva pubblicato tre volumetti di storia della filosofia in forma semplice e piana.

Non l’avesse mai fatto: Rossi, tutto rosso in volto, reagì dicendo che quell’opera di Russell, cui si era fatto riferimento, era paragonabile a “Grand Hotel”, un giornale scadente dell’epoca. Può darsi avesse ragione, ma Rossi partiva dal presupposto che i discorsi filosofici seri non potessero andare disgiunti da un linguaggio tecnicamente elaborato e sofisticato, anche se un linguaggio siffatto poi si fosse rivelato inadatto a comunicare i suoi contenuti tematici in modo comprensibile. In realtà, la verità stava in mezzo, giacché, come avrebbe dovuto insegnare a Rossi uno dei suoi maestri, Eugenio Garin, si possono trasmettere conoscenze complesse molto meglio con un linguaggio preciso ma chiaro, lineare e brillante, elegante e intellegibile, che non con un linguaggio troppo tecnico, troppo astratto e sofisticato, criptico e al limite involuto. Garin sarebbe stato non solo un insigne maestro di pensiero ma anche un eminente maestro di insegnamento, uno straordinario esempio di didattica forbita e comunicativa, appassionante e coinvolgente, purtroppo ormai inesistente nelle aule universitarie italiane.

Ho voluto ricordare questo episodio della mia vita universitaria, ma su certi aspetti divertenti e tuttavia censurabili della identità accademica italiana, si potrebbero scrivere molti libri. Certo, non sono infrequenti né casi di semplicismo filosofico, né casi di pedanteria linguistico-terminologica e di oscurità logico-concettuale. Sono due difetti contrapposti ugualmente gravi e spesso non occasionali, cui spesso non è possibile porre rimedio, perché il rimedio dovrebbe essere portato sulle stesse capacità intellettive più che intellettuali dei loro autori, ma in tutti quei casi in cui può accadere normalmente di trovarsi in presenza di difetti o limiti di questa natura, prima di emettere un giudizio di condanna, sarebbe sufficiente impegnarsi a cogliere almeno il senso complessivo del ragionamento o del discorso che si tenta di proporre.

Peraltro, la tendenza a parlare continuamente di complessità tematica in qualunque ambito disciplinare e soprattutto in quello filosofico, quasi a voler terrorizzare chiunque vi si voglia cimentare e a voler tentare preventivamente e aristocraticamente di discriminare tra studiosi riconosciuti dal sistema universitario e più o meno noti tra gli addetti ai lavori e studiosi non appartenenti a quel sistema e ugualmente noti anche se non necessariamente tra addetti ai lavori con il naso troppo all’insù, è un vezzo accademico semplicemente insopportabile, dietro cui si cela una sorta di ingiustificato “senso di superiorità”, innanzitutto perché sta allo studioso o all’oratore far emergere la struttura eventualmente complessa di una problematica attraverso il suo scrivere o il suo dire, senza alcun bisogno di autopromuoversi nel nome della presunta o reale complessità, ma poi perché non di rado la complessità viene invocata a sproposito, specialmente quando si avverte la necessità di giustificare persino in modi palesemente raffazzonati e aleatori l’oggettiva inafferrabilità di uno scritto o di un discorso: “Tu non capisci, ma in effetti quel che sto dicendo è molto complesso …!”, “voi restate perplessi, ma le vostre perplessità nascono dalla complessità della materia o della questione trattata ..!”.

In realtà, non c’è nulla di complesso che non possa essere adeguatamente e nitidamente spiegato o chiarito, almeno tra persone che condividano gli stessi interessi e che prestino attenzione alle cose che vengono dette o scritte. Un problema connesso a tale vezzo, è quello per cui certi accademici non si sentono mai capiti, mai compresi a sufficienza.  Ma questo fenomeno può avere due significati: il primo è quello per cui i loro studi vengono producendo, soprattutto sul piano etico, esistenziale, spirituale, effetti talmente devastanti e destabilizzanti da suscitare reazioni e giudizi non solo negativi ma anche molto risentiti, offensivi al limite del lecito, ma un accademico che fosse vittima di un trattamento del genere, al di là di qualche momento di sconforto e di depressione, dovrebbe sentirsi tutto sommato gratificato dalla consapevolezza di aver detto e scritto cose verosimilmente non banali perché inusuali e inattese oltre che profonde e originali, anche perché, con o senza critiche, accademico era e accademico resta; il secondo, invece, è quello per cui quegli accademici si sentono talmente superiori a colleghi e, soprattutto, alla gran massa dei non accademici, che esibiscono, per mezzo di una strategia di preventiva autoreferenzialità, un timore di non essere compresi semplicemente funzionale allo scopo di mettere in sicurezza la presunta elevatezza del proprio lavoro.

Un’orgogliosissima quanto stupida e infantile autoreferenzialità è sempre stato il principale problema di un illustre accademico italiano, che avrebbe potuto essermi ma non volle essermi amico né da adolescente, né da affermato studioso e docente universitario, per sua e non certo per mia sfortuna, e che mi diceva da giovane liceale: “la mia paura è che io non sarò compreso”, offendendosi terribilmente quando io rispondevo: “Ma tanto tu sei ateo, perché non dovresti essere compreso”? Per anni e anni non ci saremmo rivolti più la parola, quando, a causa di un suo grave lutto familiare, molto più tardi sarei stato io a riavvicinarmi a lui. Purtroppo, non era cambiato nulla: l’incomunicabilità tra noi era rimasta intatta e oggi si è trasformata in reciproca insofferenza, anche se per motivi diversi e opposti. E, siccome io non ho mai recriminato per i danni che ha cercato di procurare alla mia immagine e al mio lavoro, immagino che anche lui non sarà minimamente tentato di recriminare per la profonda e franca disistima che ancora una volta gli manifesto sia e soprattutto in quanto uomo, sia anche in quanto intellettuale, certo molto colto, capace e ampiamente meritevole di occupare una prestigiosa cattedra universitaria, ma, gramscianamente, “non intelligente”.

Francesco di Maria

 

 

 

 

 

 

 

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