Matteo Renzi e il mondo del lavoro

A Matteo Renzi vanno riconosciuti diversi meriti politici: di aver salvato il PD da un ulteriore e pesante ridimensionamento elettorale togliendo tempestivamente anche se spregiudicatamente il governo dalle mani di uno spento e infruttuoso Enrico Letta, di aver affrontato a viso aperto
images (30)Grillo e il suo movimento bloccandone le eccessive e pericolose ambizioni di potere e di governo e determinandone un vistoso insuccesso elettorale, di aver proposto un significativo mutamento di strategia politica relativamente al rapporto dell’Italia con l’Europa attraverso critiche non massimalistiche ma comunque ben centrate e motivate, di aver svecchiato letteralmente il suo partito rispetto alla sua tradizionale e vetusta mentalità burocratica e al sostanziale immobilismo politico dei suoi vertici consentendogli di sfondare la prodigiosa soglia del 40% dei voti, di aver saputo coinvolgere buona parte di un elettorato cattolico sospettoso verso la nomenclatura di origine comunista presente nel PD, di aver ridato fiducia a una platea consistente di cittadini con la decisione di abbassare l’Irpef sul lavoro dipendente e con la scelta di trasferire una parte del carico fiscale alla rendita finanziaria per alleggerire fiscalmente le imprese industriali
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Ma nel frattempo cominciano ad emergere chiaramente anche alcuni limiti abbastanza evidenti e senz’altro evitabili dello stesso governo Renzi in particolare per ciò che riguarda il cosiddetto Jobs Act che sarebbe l’ampio piano di riforme del mercato del lavoro che il politico toscano intenderebbe attuareimages (26), perché qui, come ha giustamente osservato la sociologa del lavoro Chiara Saraceno, ancora una volta come in passato si tende a ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti e non l’insufficienza della domanda dovuta alla mancanza di lavoro sufficientemente stabile e di salari adeguati. Complessivamente il piano riformatore di Renzi costituisce un’ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro che, specialmente nel settore privato, contribuisce ad estendere la precarietà dei giovani penalizzando soprattutto le donne.

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Il Jobs Act renziano, anch’esso funzionale molto più al capitale che non al lavoro, anzi non tanto ad un capitalismo capace di far decollare l’economia e sanare la piaga della inoccupazione, della disoccupazione o del lavoro dequalificato e sottopagato, quanto a piccoli o grandi interessi di bottega di imprenditori privi di scrupoli che con o senza penali pecuniarie per essi pur previste dal disegno renziano continuano ad essere liberi di fare quel che vogliono e a sfruttare la forza lavoro dei images (29)giovani o dei dipendenti assunti come e quando vogliono, appare fonte di “precarietà infinità”, di spreco delle professionalità giovanili, di insufficiente produttività e di scarso aumento della ricchezza nazionale.

E’ vero che Renzi ha promesso per il prossimo anno un alleggerimento fiscale anche a favore di pensionati e precari, ma egli stenta ancora a comprendere che, fermo restando il principio di licenziabilità per comprovata improduttività personale, la permanenza e anzi l’ulteriore radicamento dei contratti a termine, a progetto o di “collaborazione esterna”, non fa che rendere ancora più critica la situazione occupazionale in genere, con un abbassamento inevitabile della qualità del lavoro e con una ulteriore perdita di competitività dell’Italia sul piano internazionale. D’altra parte, se fosse vero che una delle ultime modifiche del testo renziano originario prevede la presenza dei lavoratori nel consiglio di amministrazione delle aziende, si sarebbe indubbiamente in presenza di una novità suscettibile di sviluppi interessanti e convenienti, questa volta in modo equanime, sia per il mondo imprenditoriale sia per il mondo del lavoro. Ma, al riguardo, non pare ci sia ancora alcunché di definitivo.

Quel che molti in questo Paese, e sinora non sembra fare eccezione Renzi, non vogliono capire è che, se è vero che in Italia abbiamo buoni e corretti imprenditori che fanno di tutto per tenere insieme gli interessi della propria azienda o impresa e gli interessi del tutto legittimi di dipendenti e operai, e che come tali vanno certo aiutati e premiati dallo Stato, altrettanto vero è che esiste un mare di lestofanti e arrivisti che non si accontentano mai del profitto raggiunto e che se per caso oggi guadagnano centinaia o migliaia di euri in meno rispetto allo scorso anno non esitano a ridurre corposamente lo stipendio dei dipendenti se non a licenziarne alcuni. Ed è principalmente, benché non esclusivamente, quest’ultimo caso largamente diffuso del mondo del lavoro italiano che anche il governo Renzi tende a non vedere o a sottovalutare alquanto e quindi a non prevedere affatto nella sua annunciata riforma del lavoro.

Lo stesso presupposto da cui parte Renzi e tutti i liberisti di questo mondo è sbagliato: e cioè che lo Stato non sia tenuto a creare lavoro, ma solo a stimolare gli imprenditori, con provvedimenti legislativi adeguati, ad investire e a creare occupazione e posti di lavoro. E’ sbagliato, perché se e quando c’è una disoccupazione non solo galoppante ma giunta ai livelli altissimi cui è giunta la disoccupazione in Italia, è lo Stato e non altri che deve farsene primariamente e direttamente carico con provvedimenti di legge appropriatiimages (28)Il fatto è che Renzi non sa dove trovare i soldi per fare tutto quel che vorrebbe fare e anche per rimanere sufficientemente fedele ai patti fiscali e monetari europei oltre che per continuare ad avere la fiducia dei mercati finanziari e per tener fede all’impegno di onorare il debito pubblico sin qui contratto. Ed è per questo che avverte la necessità di non caricare lo Stato di incombenze troppo gravose. Ma sussiste la concreta minaccia che per un testardo amore per l’Europa e i mercati finanziari lo Stato italiano possa fallire non solo nei suoi piani di riorganizzazione interna del mondo del lavoro ma proprio come Stato tout court. E Renzi, che non è un ingenuo, certamente lo sa.

L’odierna proposta del Movimento 5 Stelle di essere più collaborativo verso il governo, rafforzandone il potere contrattuale rispetto ai suoi odierni alleati e alla stessa dissidenza interna al PD, potrebbe tornare a Renzi di grande utilità, oltre che tornare di utilità allo stesso movimento politico di Grillo e alla nostra stessa nazione: dipenderà dai modi e anche dai toni in cui e con cui tale proposta verrà articolata e dalla qualità del non detto da parte di coloro che, sia pure da posizioni politiche in parte diverse, si siederanno eventualmente ad uno stesso tavolo di confronto e di lavoro.

 

 

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