L’Italia dei giornalisti

di Vito Manescalchi

L’Italia dei giornalisti è una delle peggiori facce dell’Italia democratica, perché essi per l’appunto, i giornalisti, dovrebbero raccontare, certo criticamente ma senza astio polemico personale, la realtà politica, economica, culturale di questo Paese, mentre non di rado i loro articoli e le loro narrazioni sono palesemente inficiate da moti umorali di simpatia o antipatia per questo o quel personaggio della vita pubblica, non causati da una pacata e obiettiva valutazione degli atti politici compiuti o delle misure economiche adottate e dei relativi risultati, ma semplicemente dal carattere, dal tipo di personalità, dalla forma mentis, dall’eloquio, e in definitiva da elementi non determinanti che non dovrebbero indurre in nessun caso un giornalista che si rispetti a trasformarsi in una specie di bulldozer predisposto a distruggere platealmente, con atteggiamenti visibilmente provocatori e interventi televisivi preconcetti, tendenziosi e inutilmente offensivi, il loro bersaglio.

Fare o tentare di fare di Renzi un politico parvenu senza né arte né parte, un politico che non riesca a connettersi sentimentalmente con il popolo, un politico incapace di guidare un partito per la sua presunta arroganza accentratrice, significa non solo trasformare la libertà di pensiero e di stampa in incontrollata e irresponsabile attività denigratoria ma anche e soprattutto in un pericoloso strumento di destabilizzazione politica. Perché, è certo lecito mettere in luce i probabili difetti caratteriali di Renzi ma non quando quei difetti vengano ritenuti più gravi per esempio dei difetti caratteriali di un Grillo o di un Berlusconi, in quanto un giudizio del genere è molto più simile ad una palese menzogna che ad un parere opinabile; perché, è certo possibile sostenere che Renzi sia decisionista ma non è altrettanto ragionevole negare che il suo decisionismo, diversamente da quello di un Grillo o Berlusconi, sia politicamente sensato e produttivo, in quanto grazie al suo modo di assumersi rapidamente e lucidamente la responsabilità dei propri atti senza sottoporsi a lunghe e defatiganti consultazioni con organi di partito e con gli stessi organi rappresentativi dello Stato, tra cui innanzitutto lo stesso parlamento notoriamente votato a dibattiti macchinosi, prolissi e confusi, sono cambiati o meglio si sono rafforzati, piaccia o non piaccia, la posizione e il peso politici dell’Italia in Europa e all’estero ed è anche se di poco migliorata la situazione economica nazionale, come né Prodi, né Berlusconi, né Monti, né Letta erano riusciti a fare precedentemente.

Prima di Renzi, in Italia c’era un eccesso paralizzante di assemblearismo: nel partito, nel parlamento, nel rapporto tra governo ed altri organi costituzionali e tra capo del governo e stampa o massmedia. Renzi ha compreso che in Italia si parlava troppo e si decideva troppo poco e ha avuto il coraggio di prendersi notevoli rischi ma anche il merito di provocare la fuoruscita dal PD di una sinistra imbelle e chiacchierona, peraltro sempre battuta e perdente sul piano elettorale e incapace di promuovere svolte significative per i ceti medio-bassi del popolo italiano; ha avuto anche il merito di attrarre sia pure parzialmente nell’orbita del PD strati sociali e professionali in precedenza schierati pregiudizialmente su posizioni antiPD; ha cercato di velocizzare la prassi parlamentare facendo spesso uso della “fiducia” sia pure nei limiti delle regole costituzionali e ponendo dei paletti ben precisi a interminabili quanto sterili dibattiti parlamentari al fine di varare provvedimenti legislativi ritenuti urgenti. E’ riuscito, almeno sino ad oggi, a depotenziare la tradizionale forza elettorale delle destre e l’irruenta comparsa sulla scena politica italiana di un movimento ad alto tasso di cialtroneria populistica quale il Movimento 5Stelle, che non è comunque da sottovalutare e che Renzi dovrà continuare ad affrontare con pazienza tattica certosina, visto il mixer di rabbia sociale e demagogia antistituzionale che caratterizza il partito di Grillo. Infine, ha ricoperto e ricopre a tutt’oggi dignitosamente, pur da semplice segretario del PD, un positivo ruolo di custode delle istituzioni democratiche ma non appare vittima dell’uso spesso strumentale che si viene facendo, anche per attaccare la sua persona, del credo istituzionale: si pensi alla sua molto criticata ma più che legittima presa di posizione contro Ignazio Visco, che non ha avuto la dignità di andarsene aggrappandosi invece alla sua poltrona proprio in virtù di una fiducia istituzionale priva di valore morale come quella datagli da Mattarella e Gentiloni, oppure alla “sparata” di Grasso che ha annunciato opportunisticamente le sue dimissioni dal PD pur sapendo che un governo può mettere “la fiducia” in perfetta ottemperanza a quanto prevedono la nostra Costituzione e gli stessi regolamenti parlamentari.

Ora, se questo è un quadro sufficientemente realistico in cui possa essere valutata l’attività politica di Renzi, è molto difficile comprendere perché certe stars del giornalismo italiano, come Floris o Travaglio, come Franco o Giannini o De Bartoli, ogni volta che ne hanno la possibilità e sia pure con differenti stili espressivi e comunicativi, indossino l’abito di combattimento contro Renzi, non di rado travalicando pure i confini della buona educazione e del confronto civile. Questo accade perché questi signori non tollerano che qualcuno in questo Paese possa essere più preparato, più capace e più incisivo degli altri, specialmente se si trovino in presenza di chi, nonostante certi apparenti insuccessi elettorali, continui a rivendicare energicamente la giustezza delle scelte fatte. Non lo tollerano, perché se in Italia un politico tende a diventare più famoso di tanti presunti mostri sacri del giornalismo nazionale, è inevitabile che costoro non si creino scrupoli nel tentativo di farlo fuori. Non sempre infatti il giornalista è un integro testimone della verità.

Vito Manescalchi

 

 

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