Galvano Della Volpe, marxista cristiano

Nel quadro della sua teoria dell’emancipazione generale dell’umanità, che aveva il suo fulcro nel lavoro libero dai processi coattivi e meccanici del sistema capitalistico e nel valore sociale oltre che economico dell’attività produttiva del lavoratore, il filosofo marxista Galvano Della Volpe sosteneva che proprio sul lavoro inteso come cosciente e libera attività personale si fondava «l’esigenza del “lavoro primo bisogno dell’esistenza”», ovvero «l’esigenza etica più rivoluzionaria dopo il messaggio cristiano dell’amore» (La teoria marxista dell’emancipazione umana, in “Opere”III, Roma, ed. Riuniti, 1972, p. 309). Non solo quindi riconosceva il valore universale del vangelo cristiano dell’amore ma considerava un effetto di tale vangelo l’istanza marxista del lavoro come principale e ineludibile bisogno dell’esistenza umana. Anzi, scriveva il filosofo di Imola, lo stesso Marx, con la sua filosofia del lavoro, pur liquidando «il cristianesimo tradizionale dogmatizzato e isterilito, sia confessionale che laico», non perdeva affatto «il sostanziale insegnamento cristiano dell’eguale dignità di ogni umano individuo» ma piuttosto lo sviluppava «al massimo concepibile scientificamente» e conservava in tal modo «il cristianesimo rovesciandolo», portando cioè «veramente in terra, nel mondo, la speranza cristiana dell’umana fraternità: donde il significato unico, incomparabile dell’ateismo marxista» (Ivi, p. 310).

Non ha qui importanza stabilire se e quanto sia corretta questa lettura del cristianesimo e dello stesso marxismo, anche se da ambedue i fronti sono quasi sempre provenute (per quanto il Regno di Dio effettivamente non sia solo una realtà altra da venire ma esista già hic et nunc in quanto esso, dice Gesù, è già in mezzo a voi), e sia pure per contrapposti motivi, critiche concentriche, ma ha invece molta importanza il constatare come uno dei più significativi pensatori marxisti italiani del 900, lungi dal demonizzare il vangelo di Cristo, lo tenesse in grandissima considerazione rivendicando addirittura una qualche filiazione del marxismo da esso e conferendo all’ateismo marxista un significato meno dogmatico e univoco e più problematico e aperto di quanto non appaia nella tradizione marxista italiana novecentesca e più in generale in tutta la vulgata marxista. Probabilmente Della Volpe sbagliava nel ritenere che Marx non fosse radicalmente ateo, ma, sebbene non possiamo essere certi che Della Volpe si sia convertito a Cristo anche sacramentalmente in punto di morte, secondo quanto recentemente raccontato dalla nipote suora, non c’è motivo di negare, alla luce di quanto sia pure rapidamente documentato nella sua opera, che il marxista Della Volpe avrebbe sempre avuto una sensibilità religiosa che lo avrebbe indotto a studiare il capitalismo a lui contemporaneo con tutte le sue implicazioni economiche, sociali, politiche, morali e culturali.

Ma cosa spinge Della Volpe a fare del marxismo, peraltro non inteso come «qualcosa di compiuto e intangibile» (ivi, p. 313) l’erede più schietto e coerente dell’«insegnamento cristiano», e a rivendicarne la “missione redentrice” (ivi, p. 311)? Questa operazione in parte può spiegarsi con la sua esigenza che non il liberalismo (e il suo derivato economico che è il liberismo) ma il marxismo appunto debba essere considerato l’erede più prossimo del cristianesimo evangelico e anche con la sua convinzione che il marxismo non è un compimento del liberalismo essendo in sé eticamente e politicamente autosufficiente, come autosufficiente in quanto religione è il cristianesimo, e non necessitando pertanto di alcuna “integrazione” di segno liberale.

Bisogna poi aggiungere che, subito dopo il crollo del fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, si poneva un problema urgente di ricostruzione nazionale e Della Volpe ben comprese che una ricostruzione democratica della vita nazionale italiana poteva essere affidata solo ad una collaborazione delle masse comuniste con le masse cattoliche e non con quei liberali che, volenti o nolenti, non erano stati capaci di bloccare l’avvento e la permanenza al potere per oltre vent’anni. Tra la seconda metà degli anni 40 e la metà circa degli anni 60, egli viene convincendosi della opportunità e necessità di una sempre più stretta collaborazione con le forze cattoliche e, nel 1966, due anni prima della morte, giunge ad affermare, pensando in particolare proprio alla situazione italiana, che «il culto di Dio è rigettato non in assoluto ma è conciliabile con la vita totalmente democratica di una società moderna (socialista)» (Della Volpe, Note -1966 -, in “Opere”, V, p. 496).

Oggi, purtroppo, nonostante le pesanti disillusioni dell’ultimo venticinquennio, ci si ostina a tutti i livelli a fare professione di fede liberale e liberista, mentre la società europea e quella italiana in particolare vengono reclamando oggettivamente come non mai intese politiche governative volte a recuperare valori comunitari e nazionali, egualitari e solidaristici, rispetto alle dinamiche individualistiche e privatistiche oltre che esasperatamente mercatistiche e socialmente disgreganti quali quelle veicolate da una globalizzazione scriteriata e velleitaria voluta ancora una volta, guarda caso, da personalità politiche del tutto sottomesse al credo liberale. Ci si ostina a fare professione di fede liberale, anche perché nel corso dei decenni la stessa sinistra riformista e progressista, nel suo pur variegato insieme di formazioni politiche parlamentari e governative, è venuta acquisendo, su temi sociali fondamentali quali il lavoro, l’assistenza sanitaria, il sistema fiscale e pensionistico, la scuola, una fisionomia molto simile a quella delle diverse destre liberali esistenti in Europa e in Italia. Gli stessi cattolici italiani, dopo il declino e la scomparsa della Democrazia Cristiana, partito interclassista ma in molti suoi esponenti, checché se ne dica, con una spiccata sensibilità per i temi del lavoro e della persona come dell’uguaglianza e della libertà, non hanno avuto né la forza né la volontà di riorganizzarsi in una forza politica capace di rappresentare armonicamente gli interessi dei diversi strati sociali e produttivi del nostro Paese e di resistere validamente ai dicktat transnazionali e sempre più aggressivi dell’Unione Europea.

Un tentativo non già di ricostituire ma di rimpiazzare il vecchio blocco cattolico, sia pure con una forse inevitabile apertura a componenti laiche della società e del mondo politico nazionale, è quello ancora in corso, e tra luci ed ombre, compiuto da Matteo Renzi, il quale però nel frattempo è stato capace di compiere un’operazione di portata storica: quella di liberare il PD dalla zavorra di quei “critici critici”, spesso fumosi e incomprensibili, di una sinistra italiana del tutto parassitaria e improduttiva. Solo che Renzi, per quanto uomo politico di grandi qualità e sinceramente proteso a creare in Italia condizioni generalizzate di maggiore benessere economico e sociale sia pure in un quadro politico internazionale dominato da oligarchie finanziarie particolarmente ciniche e aggressive, dovrebbe sforzarsi di tenere più presente, anche ai fini di una sua futura probabile attività di governo, la lezione e il monito del vecchio e religioso marxista Della Volpe: e cioè che il pensiero marxiano, non letto staticamente ma considerato nelle sue indubbie potenzialità teoriche e pratiche, è e può essere incomparabilmente più ricco e prezioso, sul piano etico-politico non meno che su quello economico e sociale, di sempre rinascenti forme di liberalismo. Già nel 1945 aveva scritto che dev’essere «ben chiaro che tutti gli sforzi di conciliazioni eclettiche o ibride di socialismo e liberalismo, sforzi che sono segno di confusione tanto morale quanto mentale, traggono la loro unica ragione intellettuale ed etica dalla persuasione ostinata, anzi dalla fede dogmatica, che il liberalismo resti l’ultima parola, quella definitiva, circa la “libertà”, la “dignità” e la “persona umana” (La teoria marxista dell’emancipazione umana, Opere, III, p. 309). 

 

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