La Russia di Putin tra ideologia nazista ed empietà ateistica

  1. L’autocratismo nazifascista e la missione imperiale della Russia nel pensiero di Ivan Aleksandrovič Ilyin.

Non è ancora molto nota in Europa e in Italia la figura di Ivan Ilyin, un filosofo russo vissuto tra fine ’800 e metà ‘900, molto citato nei suoi discorsi da Putin e ben conosciuto nella stretta cerchia dei suoi più fidati oligarchi. Aristocratico moscovita di nascita e di ideali nazionalistici, benché di idee anarchiche in giovinezza secondo un costume molto diffuso tra i figli dell’aristocrazia russa prima della rivoluzione bolscevica del 1917, riteneva che la Russia avesse una missione imperiale, espansionistica, da compiere in Europa e, sia pure indirettamente, nel mondo intero, al fine di poter preparare il ritorno di Dio sulla terra e il giudizio con cui avrebbe giudicato i popoli. Fu anticomunista e antidemocratico e, in quanto controrivoluzionario, fu esiliato insieme a molti altri intellettuali, ottenendo poi una cattedra universitaria in Germania, dove avrebbe insegnato e manifestato la sua ammirazione prima per il fascismo nazionalista di Mussolini, poi per il nazionalsocialismo di Hitler.

E’ significativo che, essendo morto in Svizzera nel 1953, proprio Putin abbia fatto riportare in Russia le sue spoglie facendolo commemorare fastosamente. Per Ilyin, la Russia era un’entità etnico-storica fortemente unitaria, appartenente al continente euro-asiatico accomunato da una stessa spiritualità, in virtù della quale fascismo, nazismo e nazionalismo russo potevano essere legittimamente considerate come manifestazioni diverse ma simili di tale identità spirituale. La Russia doveva essere certo rinnovata spiritualmente ma non certo sotto il governo bolscevico che aveva trasformato lo Stato in una banda di ladri e di parassiti condannando l’intera società russa alla miseria e all’asservimento politico, bensí sotto l’egida della Chiesa ortodossa, che però sotto il regime leninista sarebbe stata quasi completamente distrutta, e di un governo autoritario ma responsabile e capace di tendere alla realizzazione della giustizia sociale. Ilyin, che della religiosità aveva una concezione strumentale e puramente razionalistico-metafisica e storico-immanentistica di stampo hegeliano, era cosí convinto della superiorità etico-politica del modello nazional-fascista da pensare dopo la fine della seconda guerra mondiale che, nonostante gli errori commessi da Mussolini e Hitler, sia Franco in Spagna che Salazar in Portogallo avrebbero confermato la fondatezza delle sue idee.

Nel suo saggio del 1950, ‘Le conseguenze mondiali di uno smembramento della Russia’, il filosofo russo previde che l’Unione Sovietica prima o poi sarebbe crollata e si sarebbe smembrata, rinfocolando così le bramosie di allargamento territoriale dei principali paesi europei e di un paese extraeuropeo cone il Giappone: della Germania che avrebbe pensato di togliere alla Russia l’egemonia su Ucraina e Paesi Baltici, dell’Inghilterra che avrebbe pensato di mettere le mani sul Caucaso e sull’Asia Centrale, del Giappone che, sempre in disputa con la Russia sin dall’ottocento circa la sovranità su alcune isole dell’arcipelago delle Curili a nord dell’Oceano Pacifico, continua ancor oggi a contestare alla Russia di aver occupato fraudolentemente tali isole alla fine della seconda guerra mondiale ma anche in seguito alla Conferenza di Yalta, nella quale i russi prendevano l’impegno di entrare in guerra contro il Giappone entro tre mesi dalla fine delle ostilità sul continente europeo.

In particolare, Ilyin si soffermava sull’importanza strategica per la Russia del territorio ucraino, nel senso che perdere quest’ultimo avrebbe significato consentire agli eserciti europei di attaccare con una certa facilità il cuore stesso del pure sconfinato territorio russo: in tal senso, riteneva che la sopravvivenza stessa del popolo russo esigesse una ferma e incondizionata opposizione alla possibilità che gli ucraini potessero mai ottenere o darsi una qualche forma di indipendenza. Peraltro, il teorico russo prevedeva che, se non militarmente, l’Europa e, più in generale, l’Occidente avrebbero cercato di indebolire la Russia, veicolando in essa con forme sempre più ampie di libero mercato i valori stessi della civiltà occidentale come la libertà, la democrazia, il pluralismo, in modo da neutralizzarne per sempre i piani nazionalistici ed imperialistici.

Per tutto questo Ilyin, alla luce della doppia vocazione russa a vivere a cavallo tra il continente europeo e quello asiatico, avrebbe per tempo i connazionali a non cedere a tali pressioni occidentali e a reggersi fiduciosi su un regime autocratico, da affidare a persone capaci di assicurare l’ordine e di farsi rispettare in patria, di concedere al popolo le elezioni che però avrebbero dovuto avere solo la funzione di confermare «la subordinazione» di quest’ultimo al “capo”, di consentire infine alla grande Russia di ritornare a Dio, in una sorta di visione mistico-palingenetica, per mezzo non solo di una rimozione o repressione sistematiche di qualsiasi libertà puramente individuale e di una pluralità atomizzante che, congiuntamente all’utilizzazione di lacrimevoli princìpi umanitari, avrebbero presto portato ad una polverizzazione di grandi valori tradizionali quali la compattezza familiare, la natura organica e profondamente collettivistica della società, la subordinazione della stessa libertà personale agli interessi dell’intero corpo sociale e a quella ragione di Stato, a prescindere dalla quale comincerebbe a sfaldarsi ogni possibilità di prosperità del popolo russo e ogni prospettiva politica di poter influenzare la storia complessiva del mondo.

Lo stesso diritto, che è il fondamento necessario e universale di qualsiasi statualità e che ha la funzione di limitare gli stessi eccessi del potere autocratico, deve presupporre, secondo Ilyin, la coscienza del diritto, il fatto che il diritto trovi il suo vero valore non già nella sua datità positiva o storica, nella sua semplice esistenza, ma nella consapevolezza che il rispetto della legge non sia qualcosa di meccanico, di estrinseco rispetto alla coscienza, bensí proprio un’emanazione spontanea e incontenibile della stessa coscienza morale, per cui obbedire alla legge si deve per obbedire alla coscienza che impone tale obbedienza e non semplicemente in virtù del significato coercitivo che la legge riveste in tutte le sue implicazioni e applicazioni pratiche. Al “capo” preconizzato da Ilyin tutto questo sarebbe stato necessario per apparire autorevole, risoluto e degno di essere rispettato in tutto il mondo. Si danno scopi “superiori” di fronte ai quali tutto è lecito. In questo avevano creduto uomini come Mussolini e Hitler, in questo sembra aver creduto decisamente un autocrate affetto da delirio narcisistico e nichilistico di onnipotenza come Putin, il quale non disdegna ancor oggi di richiamarsi a teorici estremi, a ideologi di forme fasciste o naziste di nazionalismo sovranista e collettivistico, a teorici e ideologi in cui abbonda molto di quello spiritualismo mistico di una importante tradizione russa di pensiero e che si trova ad essere spesso coniugato come antindividualismo, antimaterialismo, antirelativismo, antiprogressismo, e per contro come teleologismo e missionarismo mistici, da cui poi tende a derivare, come nello stesso Putin, una speciale predilezione per la comunità, lo Stato, la Patria, l’uniformità di pensiero, la Verità, l’autocrazia, l’Uomo forte reso tale dallo stesso, coeso, supporto della comunità. Beninteso, le cose nobili di questo programma si trovano solo nel Putin teorico, ideologico, pubblico o politico, dal momento che in quello privato, intimo, esistenziale, disinibito, scorrono invece quintali di individualismo, utilitarismo,  immoralità, sozzo edonismo e sfrontato pragmatismo, e infine ripetizione meccanica di invariabili  e oppressivi schemi di potere, bieco bellicismo e spietato imperialismo militarista.

  1. La Russia tra mito imperiale e rimozione della memoria storica.

Non c’è dubbio che la Russia, negli ultimi tre secoli di storia, ha sempre potuto vantare una vocazione nazionalistica e una tradizione imperiale: una vocazione nazionalistica di invasione, conquista e occupazione, non certo di liberazione ed emancipazione com’è invece quella del popolo ucraino, e una tradizione imperiale di puro dominio, oppressione, vessazione e sfruttamento, completamente priva di un qualche disegno di civilizzazione di aree etniche e popolazioni europee ed euroasiatiche ancora al di fuori di ogni pur minimo processo di modernizzazione. Il nazionalismo russo, a differenza di tante altre forme di nazionalismo del mondo moderno e contemporaneo, ha sempre fatto tutt’uno con una volontà politico-statuale di radicale e violento disconoscimento della libertà altrui, della sovranità di altri popoli, e il suo imperialismo, in misura ben più accentuata e in modi probabilmente più efferati rispetto agli imperialismi occidentali, è venuto cosí esercitandosi in forme particolarmente oppressive e repressive nei confronti di tradizioni, culture, usi e costumi dei popoli via via sottomessi. In questo senso, il nazionalismo ucraino, quali che siano le specifiche ragioni della sua complessa genesi storica, è certamente indicativo di una lotta per la libertà e l’indipendenza rispetto alle ingiustificate pretese imperiali russe.

La Russia, a differenza di quel che è accaduto con e per la maggior parte delle nazioni occidentali coinvolte in fenomeni storici di natura coloniale e neocoloniale, espansionistica ed imperialistica, non ha mai fatto abbastanza i conti con la sua storia, e più che ereditandone consapevolmente luci e ombre, è come rimasta regressivamente prigioniera di un passato di fasti e di gloria da cui risultano rimossi molte delle cause, delle ragioni, di quei fasti e di quella gloria, molte delle pagine più oscure e torbide delle sue guerre, delle sue vittorie militari e dei suoi trionfi imperiali. Il popolo russo, in vero, non è mai stato capace di riconoscere pubblicamente gli errori e gli orrori, le contraddizioni e le responsabilità delle sue classi dirigenti, così come non è mai parso realmente consapevole della sua opacità etico-politica, della sua sostanziale e conformistica condiscendenza alle diverse forme di potere sempre invariabilmente autoritarie e repressive da cui la loro storia, spesso di povertà, di miseria e sottosviluppo, di ignoranza e superstizione, è venuta ad essere scandita. Dall’era autocratica zarista all’era rivoluzionaria del terrore bolscevico e sovietico, leninista e stalinista, all’odierna era del neoimperialismo militaristico di Putin, la storia della Russia è sempre stata, senza soluzione di continuità, una storia più subìta che agita, una storia di riverente anche se sofferta sottomissione di massa al potente o al regime di turno, di incontrastata anche se improduttiva espropriazione collettiva, di apologetica anche se spesso forzata celebrazione di forza e di eserciti rivoluzionari, di pensiero critico vivace ma fondamentalmente incapace di costruire alternative politico-culturali a compagini dittatoriali e/o oligarchiche di potere.

Le masse russe, così lungamente e abilmente mobilitate e manovrate da sedicenti e spesso demagogiche minoranze di rivoluzionari illuminati, non sono mai apparse in grado di esprimere dal proprio interno un’autonoma volontà di dar vita ad una statualità realmente rappresentativa di bisogni economici, di istanze civili e di esigenze istituzionali largamente diffuse e sentite nella totalità della e delle popolazioni russo-sovietiche. Si sono, con indefettibile obbedienza e rassegnazione, adagiate su decisioni, strategie, programmi o piani elaborati e provenienti dall’alto, dalle gerarchie costituite, fingendo di non vedere i crimini individuali e collettivi che nel frattempo venivano compiuti, i lager o gulag che periodicamente venivano allestiti, i processi farseschi che venivano celebrati. In sostanza, la Russia popolare, la Russia sociale, la Russia culturale, pur essendo stata la terra che ha dato i natali alla moderna pratica comunista e ad uno dei suoi essenziali princìpi ispiratori, vale a dire l’autocritica, non ha mai saputo cosa fosse l’autocritica, non l’ha mai esercitata se non in qualche covo di sconsiderati e isolati terroristi antirussi, non ha mai voluto e saputo darne prova neppure nei momenti più critici e più drammatici della sua storia.

Ciò è accaduto, tuttavia, non a causa del pur ferreo e pervasivo sistema repressivo russo, ma per scelta, per scelta corresponsabile di un popolo evidentemente propenso a valutare come la migliore opportunità possibile quella di nutrirsi della sua storia di gloriose imprese militari e indimenticabili conquiste territoriali, di mitologia rivoluzionaria e grandezza imperiale, rimuovendo in pari tempo la storia peggiore, e quindi le torture, le fucilazioni, le deportazioni di massa, la censura più intollerante di qualsiasi anelito ad un minimo di libertà civile e politica, la più dogmatica ed ottusa chiusura ai modelli e agli ordinamenti giuridico-istituzionali occidentali. E’ significativo che il periodo della perestroika di Gorbacev sia stato archiviato immediatamente nella memoria collettiva dei russi come qualcosa di estraneo alla loro anima, di superfluo e anzi di dannoso rispetto all’unicità dell’identità egualitaria del popolo russo. Gorbacev stesso sarebbe stato defenestrato dalla mattina alla sera nell’assordante silenzio della società russa, nella sostanziale indifferenza delle sue forze politico-parlamentari e dei suoi mezzi di comunicazione di massa: quasi un’operazione necessaria per la salvaguardia della grande tradizione patriottica russa e del prestigio politico russo nel contesto internazionale. Ancora oggi una figura politica come Gorbacev viene rimpianta dalla pubblica opinione russa assai meno di figure “sanguinarie” come Stalin e lo stesso Lenin. E il motivo non può essere occasionale.

Da un sondaggio effettuato nel 2018 dal Centro Ricerche indipendente e non governativo russo Levada, risultava che i due terzi della popolazione russa rimpiangesse la vecchia e potente Unione Sovietica, non beninteso il comunismo di cui questa era nominalmente portatrice, ma la solida e inespugnabile struttura statuale e politico-militare che aveva saputo condizionare notevolmente la storia economica e politica internazionale dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta. Il cittadino medio russo percepiva a quel tempo un senso di sicurezza: un lavoro quasi sempre stabile, uno stipendio modesto ma garantito, una casa angusta ma accogliente o confortevole, i servizi amministrativi, assistenziali e sanitari, come la stessa istruzione scolastica, sempre gratuiti e accessibili a tutti, la lotta al vagabondaggio e al parassitismo sociale, differenze abbastanza contenute e comunque non scandalose tra i redditi degli alti dirigenti dello Stato e quelli dei comuni cittadini o dei lavoratori, e poi soprattutto la consapevolezza di appartenere ad un grande e potente Stato, che si era coperto di gloria nella resistenza antinazista ed era rispettato e temuto in tutto il mondo.

Tutto il resto veniva rimosso, dimenticato, cancellato: per esempio, il fatto che tutti gli ideali continuamente promossi ed esaltati dallo Stato dittatoriale, come l’amicizia e anzi la fratellanza tra i popoli, la costruzione di una grande società priva di divisioni o conflitti interni e spontaneamente solidale, l’assenza di vizi come l’egoismo, l’avidità, la competitività, o di perversioni dette “capitalistiche” come una certa mollezza comportamentale, l’amore per il lusso e il superfluo, l’esibizionismo sessuale, in realtà fossero frutto di semplice e bieca propaganda ideologica. Che quello Stato così rassicurante, solido e glorioso, fosse pur sempre uno Stato totalitario, fondato sulla menzogna sistematica, sull’intolleranza per qualsiasi tipo di opposizione politica, su una concezione meramente strumentale del diritto e della legge oltre che della fede religiosa ove consentita, su una mentalità sospettosa e complottista, su anonime o non pubblicizzate pratiche repressive e poliziesche, stragi e omicidi di massa, non poteva compromettere la salda fede che il popolo riponeva spontaneamente in esso.

Bisognava, per la tenuta della gloriosa epopea russa, non dare troppa importanza a certe contingenze negative, a certe contrarietà della storia. Peraltro, che quel leggendario Stato sovietico, pur assicurando a molti un pezzo di pane e servizi di primissima necessità, a fronte di attività lavorative durissime e malpagate, non fosse stato capace di elaborare un modello economico realmente soddisfacente e competitivo con il modo di produzione capitalistico, di proporre un’economia davvero capace di produrre benessere e prosperità per tutti, non semplici beni e servizi di sussistenza ma di qualità e di maggiore o migliore qualità, attraverso una tempestiva e coraggiosa apertura alle offerte e alle domande della ben più florida, anche se intrinsecamente contraddittoria, economia occidentale, non doveva essere enfatizzato oltre misura, sebbene si trattasse di una verità macroscopica e umanamente avvilente.

Che l’economia socialista, verso la fine degli anni ottanta, dopo non essere mai stata in grado di generare vera ricchezza materiale, arrivasse così drammaticamente al collasso, con un progressivo e sempre più intenso deficit di merci, con l’irreperibilità galoppante di essenziali beni di consumo e con conseguenti code chilometriche ai negozi di importanti città come Mosca o San Pietroburgo, con il frequente ricorrere al contrabbando e a forme di mercato nero per procurarsi alimenti e merce varia, diventata nel frattempo anche illegale, non era una questione di cui si dovesse parlare ad alta voce, come anche degli abusi e delle prevaricazioni del governo centrale, delle censure, dei crimini, delle deportazioni, dei processi sommari, degli affari loschi e delle mille pratiche corruttive dell’ordine statuale e sociale: tutto ciò poteva al più essere bisbigliato, costituire oggetto di pettegolezzo, di semplice dicerìa o chiacchiera, ma non certo essere riconosciuto, formalizzato, utilizzato come argomento di critica politica e come strumento di lotta politica, perché in quel caso si sarebbe rischiato non di nuocere a questo o a quel capo politico ma di danneggiare e indebolire il sistema stesso dello Stato, i suoi collaudati meccanismi repressivi e organizzativi, le sue strategie imperiali di comando e di risposta o reazione alle avverse congiunture, strategie che dovevano invece rimanere perfettamente integre e funzionali soprattutto nei momenti di crisi e di maggiore difficoltà della nazione russa.

Il male della Russia, probabilmente di gran lunga superiore al poco e opinabile bene intellettuale e morale, oltre che economico e commerciale, che vi si poteva trovare, nell’immaginario collettivo del suo popolo poteva essere solo bisbigliato, sussurrato, non diffuso né tanto meno partecipato ai suoi nemici, perché in gioco era la compattezza granitica della identità nazionale russa, a prescindere dalla quale nessun russo avrebbe potuto guadagnare qualcosa ma solo perdere pesantemente la memoria stessa delle proprie radici e la ragion d’essere della propria esistenza. Nel frattempo, mentre la coscienza di quel male raggiungeva anche le ex repubbliche sovietiche i cui cittadini, a differenza di quelli di stretta nazionalità russa, avevano lungamente sperimentato sulla propria pelle come sulla propria economia le storture, le anomalie, le abnormità via via più spersonalizzanti del sistema sovietico, gli inganni e le mistificazioni nascoste dietro solenni e roboanti proclami patriottici ma sempre più chiaramente percepibili e riconducibili al loro significato reale, Putin, che, pur essendo stato per molti anni al servizio del KGB, comunista non era mai stato data la sua maggior vicinanza ideale ad un’ideologia nazifascista, si incaricava, verso l’inizio del terzo millennio, di imprimere un nuovo e più dinamico indirizzo alla vita economica del suo paese, una maggiore vivacità tanto al mondo delle relazioni economiche e sociali interne che ai rapporti economici internazionali, agli scambi finanziari e commerciali con le più progredite aree del mondo occidentale e asiatico ma anche con i cosiddetti paesi “emergenti”.

Con molta abilità, furbizia, spregiudicatezza Putin, questa volta senza spargimento di sangue, a cui si sarebbe tuttavia riservato di ricorrere qualora i suoi piani fossero falliti, veniva restituendo un clima di normalità, di rinata tranquillità alla sua Russia, una inedita possibilità di arricchimento, fino al punto di inaugurare quella che sarebbe stata definita da alcuni come la Belle Époque putiniana, con servizi funzionanti, stipendi regolarmente pagati, persino con una certa apertura a quel mondo civettuolo e tutto occidentale dello spettacolo, della trasgressione, del gossip, della vita comoda e lussuosa, di cui primi beneficiari sarebbero stati i famosi e famigerati “oligarchi” russi, tutte cose sostanzialmente impensabili ai tempi dei grandi leaders sovietici, da Kruscev fino allo stesso Garbacev, anche se non si può certo affermare che Putin abbia trasformato la Russia, dove esistono ancora molti monopoli di Stato e dove la privatizzazione dei mezzi produttivi e dei beni di consumo non è ancora capillarmente estesa o generalizzata, in una società tipicamente capitalista del mondo occidentale, soprattutto in senso politico, dal momento che la sua struttura è rimasta fortemente autoritaria e le libertà di cui in essa è possibile usufruire risultano ancora alquanto limitate e sottoposte al rigido controllo del potere politico.

In realtà, Putin non ha pensato e non pensa né ad una Russia comunista, né ad una Russia liberale e capitalista, se non per quegli indubbi benefìci che possono derivare da una vita civile apparentemente più libera, più dinamica, più fluida, meno controllata e sorvegliata, e da un’economia aperta e basata sugli scambi, anziché chiusa e autocratica. Egli pensa, tuttavia, con grande rimpianto, all’Unione Sovietica, il cui crollo egli avrebbe definito “una catastrofe mondiale”, pur senza mai interrogarsi sulle cause non certo occasionali (e, per esempio, riconducibili all’ansia modernizzatrice di Mikhail Gorbacev) ma strutturali che l’hanno provocato; pensa all’Unione Sovietica come modello di Stato fortemente centralizzato e militarizzato ma anche capace di far pervenire le sue direttive in ogni più sperduto angolo del suo immenso territorio, di far applicare e rispettare ovunque le leggi vigenti o emanate dal governo centrale, di far attuare ogni minima disposizione burocratica e finanziaria persino nell’ufficio più modesto e sconosciuto della camaleontica amministrazione statale, di provvedere puntualmente a stroncare sul nascere ogni disordine e ogni minaccia all’ordine costituito e alla difesa dei confini nazionali. Che, a ben vedere, è lo stesso pensiero da sempre coltivato dalla stragrande maggioranza del popolo russo: non tanto l’Unione Sovietica come patria e vessillo del comunismo internazionale, né come possibile terreno di coltura di modelli politici e sociali estranei alla tradizione storico-culturale russa, ma come esempio paradigmatico di esaltazione della forza unificatrice e organizzatrice dello Stato. Nella parte più profonda dell’anima russa non si trovano o non si trovano più gli ideali rivoluzionari di origine marxista-leninista, così come non vi si possono trovare stabilmente sentimenti di condivisione degli ordinamenti giuridico-politici ed economico-sociali occidentali non avendone mai fatto diretta e duratura esperienza, ma si trova invece un profondo bisogno di sicurezza e un connesso bisogno di protezione statuale, si trova quindi il germe di una indefinita e straripante volontà di potenza pronta ad arginare qualunque tipo di pericolo o di minaccia, si trova il culto della forza dello Stato, un vero e proprio culto statolatrico più che della personalità di questo o quel provvisorio capo politico e un culto statolatrico spesso di gran lunga superiore ai culti della più antica e sincera religiosità russa, anche se persino Stalin, per sconfiggere le armate naziste ormai ad un passo dalla vittoria, si sentì costretto ad un certo punto a sacrificare, sia pure forse per motivi di pura e semplice realpolitik, la sua illimitata fede statolatrica alla fede nel Dio-Padre del cristianesimo: questo accadde quando, via radio, esortò tutti i combattenti russi di Leningrado a resistere con tutte le proprie forze all’assedio nemico non più chiamandoli, come aveva sempre fatto sino a quel momento, “compagni” e “compagne” ma “fratelli” e “sorelle”.

Putin non è né comunista, né stalinista, ma conserva la stessa disinvolta abilità di Stalin nel coniugare il tema dell’amore collettivo per la patria con quello dell’amore più intimo e personale per la divinità: naturalmente in funzione del mantenimento del potere personale e di quel capitalismo parziale, se non autocratico, che in parte serve alla ricchezza nazionale, ma in parte serve ad un continuo incremento di profitti, anche illeciti, privati e personali. Allora il presidente della Federazione russa, forte della formazione ricevuta da Ivan Ilyin, è un populista nazionalista di apparente ma ingannevole ispirazione etico-religiosa. Fino a quando il popolo condividerà le sue idee, egli resterà capo indiscusso del suo popolo, non però di altri popoli appartenuti alla sfera sovietica, non di quello russo-ucraino che ha capito per tempo il perfido disegno espansionistico di questo feroce capopopolo di riappropriarsi di una regione non più asservita dell’impero. Fino a quando il popolo russo coltiverà nel suo spirito una esasperata volontà di potenza, sentimenti totalitari anche in rapporto ad alcune delle ex repubbliche oggi ribelli dell’Unione Sovietica, sentimenti nazifascisti di avversione contro le loro popolazioni con conseguente proposito  di annessione territoriale e violazione della loro indipendenza, confermerà in pieno di essere animato dalla stessa ideologia nazifascista fatta propria dall’intera dirigenza politica dello Stato sovietico e, come tale, questo popolo non potrà che restare escluso da rapporti di qualsivoglia natura con tutti i popoli che al nazifascismo un tempo si erano opposti non solo per necessità ma soprattutto per intima convinzione e irreversibile e libera decisione.

Non solo Putin ma il grosso del suo popolo tende a rimuovere il marcio dell’impero dalla memoria storica, nel senso che il primo agisce adottando la politica della “disinformazione” sistematica, facendo in modo che, come già accaduto per l’amplissima e deprimente documentazione storica sulle isole Solovki e sui Gulag con i registri di milioni di deportati, anche oggi vengano eliminate dalla circolazione testimonianze e carte compromettenti per centinaia di signori russi, arricchitisi come e con Putin, grazie alle molteplici attività corruttive e criminali svolte da quest’ultimo sin da quando era giovane e povero giovinotto aspirante ad entrare nei famigerati servizi di sicurezza sovietici del KGB. Cosa fa ancora in questi giorni per difendere la sua patria contro il terrorismo, contro gli stessi “terroristi ucraini” che vorrebbero a suo dire minare le fondamenta dello Stato russo? Obbliga compagnie telefoniche e i provider di Internet a conservare per un lungo semestre conversazioni, sms, chat, soprattutto quelle più confidenziali degli utenti, in modo che i “servizi di sicurezza”, come al solito, possano controllare in modo capillare oppositori e dissidenti, suscettibili in seguito di essere arrestati o semplicemente ammoniti e multati, di essere avvelenati o fatti sparire per sempre. Ora, certo, parte del popolo russo viene represso e perseguitato, ma la parte più consistente di esso, in fondo condivide, approva, giustifica intimamente questi metodi come ha sempre fatto nella sua lunga storia. E diventa allora molto facile capire, senza sminuire la complessità delle cose, perché in Russia il consenso popolare venga producendosi e riproducendosi senza soluzione di continuità intorno a figure così carismatiche ma anche così ciniche, perverse ed efferate.

Nella storia del popolo russo è radicata, in massima parte, un’anima bipolare, che da una parte si manifesta come razionalità, idealità, spiritualità, religiosità, dall’altra come autoritaria affermazione della propria identità etnica e nazionale, orgogliosa intolleranza, sprezzante e persino omicida volontà di potenza. Non si vuole certo generalizzare, ma troppe volte, e sia pure in forme non sempre uniformi, l’esperienza storica è venuta riscontrando la correttezza di questa che, più che una semplice congettura, è venuta profilandosi agli occhi di molti come una dolorosa ma verace constatazione. Bipolari sono tutti quei russi che vogliono vedere solo la luce, peraltro talvolta presunta, e mai le ombre e le tenebre del loro passato e del loro stesso presente. Ma, poiché sanno che non possono liberarsi da ombre e tenebre, tendono ad irrigidirsi, come accade a tutti i soggetti bipolari affetti da sindrome maniaco-depressiva, a deformare la realtà, a compiere gesti irragionevoli e violenti contro cose e persone che tendono ad ostacolare la loro mal repressa energia pulsionale e l’esercizio della loro violenza irrazionale, con l’ulteriore e conclusiva aggravante che tentano poi goffamente di negare o razionalizzare i crimini o i delitti commessi.

Questo è dunque quello che accade in Ucraina, la cui gente, non avendo nelle proprie vene sangue esclusivamente russo ed avendo soprattutto a lungo subìto le vessazioni imperiali comunisto-sovietiche, ha deciso di ribellarsi apertamente ai russi e al loro despota per aprirsi, nel nome e nel segno della propria indipendenza storica, alla libertà del “mondo libero”, della civiltà europea e occidentale. Che il popolo ucraino non costituisca in senso proprio una “nazione”, che esso abbia commesso errori e persino crimini in passato, che esso coesista con cospicui ma pur sempre limitate formazioni neonaziste, che essa sia appartenuto per lunghissimo tempo alla sfera d’influenza del Cremlino, che in questo modo i confini russi rischino di essere ancor più facilmente che in passato violati, sono tutti elementi di cui si può o si deve tener conto ma che nulla possono togliere al sacrosanto diritto di un popolo di vivere come vuole, di allearsi con chi vuole, di battersi strenuamente per la difesa della propria sopravvivenza, dei propri beni e della propria libertà. La verità è che un’Ucraina aperta ad una prospettiva antidittatoriale, antiautoritaria e illiberale del potere, un’Ucraina che, per quanto ancora politicamente e civilmente immatura e moralmente non esente da pratiche corruttive, mostra di volersi aprire alla democrazia, non può che costituire agli occhi delle popolazioni russe un cavallo di Troia predisposto a minare prima o poi i rigidi assetti russi di potere e la mentalità conformistica su cui poggiano e a contagiare beneficamente ma sovversivamente una società russa per troppo tempo costretta, ne fosse o meno consapevole, in quanto vittima, ad ubbidire ai suoi carnefici e ad assecondarne la volontà.

Gli ucraini, diversamente dai falsi fratelli russi, non hanno voluto dimenticare nulla della loro storia. Premesso che è la Russia a nascere dall’Ucraina come Rus’ di Kiev, sorta verso la fine del IX secolo, e non viceversa, sin da prima della rivoluzione d’ottobre gli ucraini sono già fieramente antibolscevichi e si proclamano indipendenti da Mosca. E’ qui l’atto di nascita dell’atteggiamento costantemente intimidatorio, repressivo, vessatorio, durante tutto il novecento, della Russia nei confronti del popolo ucraino. Qui sono le radici dell’Holomodor (“sterminio per fame”), di quella carestia che, solo in parte originatasi per cause naturali, ma in misura molto maggiore amplificata dai russi in modo deliberato per punire gli ucraini, tra il 1931 e il 1933 avrebbe provocato la morte di quattro o cinque milioni di ucraini. E’ significativo che il Parlamento Europeo abbia riconosciuto nel 2008 all’Holodomor lo status di crimine contro l’umanità proprio per la deliberata volontà del governo sovietico di non tenere minimamente conto dei bisogni alimentari della popolazione ucraina e di punirla per non aver voluto accogliere e fare proprie le direttive di Lenin e dei suoi bolscevichi ai tempi della Rivoluzione d’Ottobre. Ma la sequenza dei crimini sovietici contro gli ucraini è impressionante e molti osservatori occidentali che evidentemente non la conoscono, provano oggi stoltamente persino un certo fastidio verso il popolo guidato da Zelens’kyj per la particolare veemenza e la strenua, quasi parossistica, determinazione della sua resistenza armata all’invasore ed aggressore russo. La dekulakizzazione stalinista (molto simile alla denazificazione putiniana), cioè l’assassinio di massa degli agiati contadini ucraini che non avevano voluto aderire alla collettivizzazione forzata, insieme ad un’ondata spaventosa di repressione terroristica di massa che, tra il 37 e il 38, avrebbe provocato circa 800.000 vittime in molte delle repubbliche socialiste sovietiche, ivi compresa l’Ucraina; il complesso e drammatico periodo dell’occupazione nazista con milioni di ucraini deportati e costretti ai lavori forzati in Germania e successivamente internati da Stalin per “collaborazionismo”; il reiterato tentativo di russificare in particolare l’Ucraina occidentale con continue deportazioni di massa in Siberia e di ripopolarne il territorio con diversi e nuovi gruppi etnici al fine di ostacolare o annientare la guerriglia indipendentista antisovietica.

Come ci si possa stupire che l’odierna resistenza ucraina, ucraina e non occidentale, come si continua a ripetere con sciocca e risibile saccenteria, alla Russia di Putin, sia così intransigente e ostinata, alla luce di un quadro storico multisecolare (qui sommariamente descritto e rappresentato solo in riferimento al 900) da cui, a partire dall’inizio del secondo millennio, emerge un costante rapporto antagonistico tra russi e ucraini, tra nazionalismo russo e nazionalismo ucraino, tra spirito russo di dominio e spirito ucraino di autonomia e indipendenza, tra imperialismo russo e sovranismo ucraino, tra economia collettivistica russa ed economia ucraina basata sulla proprietà privata e la libera iniziativa, non è possibile comprendere se non rinunciando ad una lettura serena e obiettiva della storia complessiva dei rapporti intercorsi tra Russia e Ucraina. Teorici e simpatizzanti occidentali della sinistra classica, dovrebbero riflettere sul fatto che nel 1939, un anno prima di essere assassinato in Messico, il rivoluzionario bolscevico ma di origini ucraine Lev  Trockij avrebbe scritto che «la questione ucraina è destinata a svolgere un ruolo enorme nella vita dell’Europa nel prossimo futuro» e (La questione ucraina del 22 aprile 1939). 

  1. L’orrore come regola di vita

Prima che in Germania il nazismo nasce nella Russia rivoluzionaria e bolscevica del ’17. Se il nazismo evoca il terrore allo stato puro, la disumanità più cinica e glaciale, l’orrore più nauseabondo ed efferato, il più spaventoso inferno terreno, non c’è alcun dubbio che la prima forma già compiuta di psicologia e di mentalità naziste trova le sue origini nella Russia di Lenin e Stalin. Si pensi alle isole Solovki (note anche come “le isole delle lacrime”), un arcipelago del Mar bianco vicino al Circolo Polare Artico, che, a partire dalla metà del ’500, avevano ospitato un grandioso monastero di frati ortodossi dediti al lavoro e alla preghiera, circondato da un vero e proprio paradiso naturalistico, intriso di mistica religiosità e in cui i monaci, con arte sapiente, avevano realizzato canali e strutture molto complessi e ingegnosi di di ingegneria idraulica, piccoli ma preziosi spazi di lavoro artistico e artigianale, case e villaggi confortevoli, chiese ed edicole religiose e insomma una vera e propria comunità, peraltro anche molto estesa, che non mancava di nulla essendo dotata di tutti i servizi ad essa necessari. Le Solovki, quindi, per diversi secoli e ancora alla vigilia della rivoluzione, avevano costituito un luogo di stupefacente bellezza, di silenziosa e feconda produttività, di armoniosa e proficua vita civile scandita da momenti quotidiani di preghiera e di ringraziamento religioso. 

Ma con la presa del potere dei bolscevichi quell’antico e suggestivo complesso monastico, uno dei maggiori centri di spiritualità della Chiesa ortodossa russa, viene considerato come “simbolo oscurantista” e quindi trasformato, a partire dal 1922/23, prima in un enorme campo di “rieducazione al lavoro”, poi in una enorme prigione, in cui venivano praticate terribili forme di repressione, il cui frequente esito era costituito da malattie spesso irreversibili e dalla morte dei detenuti, anche se bisogna precisare che solo con Stalin le condizioni di vita dei detenuti qui rinchiusi sarebbero diventate realmente insostenibili e orripilanti (Sull’argomento è utilissimo leggere il volume di F. Bigazzi, Il primo Gulag (le isole Solovki), Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2017). In questo gigantesco lager che sarebbe stato chiuso solo alla morte di Stalin, avrebbero trovato la morte, tra maltrattamenti, privazioni e stenti raccapriccianti e non meno mostruosi di quelli che si sarebbero poi verificati nei lager nazisti dei tedeschi di Hitler, oltre un milione di persone, uomini e donne, di diversa estrazione sociale e culturale, professione, fede religiosa, orientamento ideologico e politico, tutti indistintamente bollati dai regimi di Lenin e Stalin come criminali, sovversivi, traditori della patria, nemici del popolo e del socialismo. Anche gli ebrei, particolarmente numerosi in una città come Odessa, non ebbero naturalmente vita facile nella Russia comunista, anche se i più intraprendenti tra essi, magari impegnati professionalmente nell’industria e nel commercio, avrebbero trovato spesso il modo di ingraziarsi i loro persecutori, finendo alla fine addirittura per condividerne la mentalità oppressiva, l’avidità finanziaria, la brama di potere, il cinismo morale.

Si pensi, per esempio, a Naftaly Frenkel, significativamente definito da Aleksandr Solzhenitsyn nel suo celebre “Arcipelago gulag” come “instancabile demone dell’Arcipelago”, dove Frenkel venne incaricato, pur essendo stato a sua volta condannato ai lavori forzati alle Solovki, di organizzare e dirigere il lavoro degli stessi detenuti, in altri termini di sfruttare nel modo più redditizio possibile per la stessa economia russa tutti i deportati e i prigionieri politici. Ma se Frenkel, al quale i testimoni avrebbero attribuito persino esplicite simpatie naziste ed hitleriane, fu fortunato riuscendo anche a morire serenamente nel suo letto nel 1960, uguale destino non avrebbero avuto molti altri ebrei e, in realtà, una forte vampata conobbe l’antisemitismo sovietico sotto Stalin tra il 1947 e il 1949, antisemitismo che però, in modo strisciante e non dichiarato, avrebbe continuato a serpeggiare anche nei decenni successivi in Unione Sovietica.

A resistere e a sopravvivere miracolosamente alla lenta e straziante agonia imposta, senza alcuna pietà umana e senza alcun ritegno morale, dall’infernale regime carcerario e persecutorio di quello splendido luogo destinato in origine dalla natura e da Dio ad uomini e donne in cerca di pace, di quiete, di riposo, al fine di ritemprare la propria vita spirituale, sarebbe stata solo una sparuta minoranza di esseri umani dotati di incrollabile volontà e di fede morale e religiosa talmente granitica e inalterabile da renderli indenni alle contingenze più terribili e dolorose, finendo a volte per sopravvivere al loro corpo e alla loro stessa vita. Si trattava in genere di monaci e di figure di elevata spiritualità, capaci di vincere contro le torture, i soprusi, la stessa morte, semplicemente perché capaci di rinunziare a tutto, che è quello che sarebbe accaduto anche con un gigante del pensiero, della scienza e della teologia della Russia primo novecentesca: il monaco ortodosso Pavel Florenskij. Questi avrebbe davvero rinunziato a tutto, alla fama, agli onori, agli affetti più cari, senza mai rinunziare a Dio e alla sua vita nello spirito di Dio, che è spirito di verità, giustizia e carità.

Peraltro, Florenskij non si sarebbe mai rifiutato di offrire il suo aiuto e il suo servizio di scienziato alla sua patria. Arrestato una prima volta nel maggio del 1928 perché ritenuto, in quanto pope, socialmente pericoloso, controrivoluzionario, “un oscurantista, una minaccia per il potere sovietico”, egli sarebbe stato inviato in un lager della Siberia occidentale nell’agosto del 1933, e qui sarebbe stato incaricato di condurre ricerche sul gelo perpetuo e sulla sua possibile utilizzazione in campo elettromagnetico, realizzando importanti scoperte circa i liquidi anticongelanti e al permafrost. Successivamente, l’1 di settembre 1934 viene per l’appunto trasferito nelle isole Solovki dove diresse con successo un laboratorio per l’estrazione dello iodio e di un polissaccaride, cosiddetto agar-agar, usato come gelificante naturale che viene ricavato da alghe marine appartenenti a diversi generi. Pur in condizioni molto precarie di lavoro e di vita e con un esiguo numero di strumenti tecnici, avrebbe altresì approfondito aspetti rilevanti di chimica organica e botanica. Il regime comunista e sovietico, per ringraziarlo di tanto impegno e di tanta generosità, lo avrebbe fatto giustiziare a Leningrado, oggi San Pietroburgo (la città natale di Putin), l’8 dicembre 1937. Di notte, per nascondere l’infamia di uno degli atti politici più vergognosi e ingrati verso uno dei figli più insigni, integri e giusti della nazione russa.

D’altra parte, l’irriconoscenza dei potenti, zar o dittatori che fossero, e spesso di gran parte delle stesse masse popolari, verso i grandi e veri spiriti liberi di questa nazione, sembra essere un tratto distintivo della struttura etnico-culturale russa, molto più predisposta a celebrare retoricamente le vittorie e le glorie conquistate sul campo e riconosciute dalle gerarchie al potere che non a discernere criticamente tra la verità e la falsità degli accadimenti umani, tra valori morali e spirituali necessari e imperituri di cui la gente di Russia  dovrebbe alimentarsi con una serietà e coerenza che non le si possono ad oggi riconoscere e annunci propagandistici di natura prettamente ideologica e criminale dei quali sembra ancora nutrirsi, in misura ben più consistente, la sua frenetica ma spesso empia e sanguinaria giornata terrena.

Il nazismo, pur battuto militarmente sul campo di battaglia dalle armate e dai partigiani sovietici, è parte integrante della razza russa e di una civiltà euro-asiatica che della forza fisica, dell’esercizio indiscriminato e spietato della violenza e del terrore, nonostante tanto apporto interno di intelligenza, di sensibilità e di arte, era venuta facendo, molto prima dell’avvento di Hitler al potere, il perno, il fulcro centrale del suo destino storico. Se e quando questo destino possa essere costretto ad una radicale inversione di marcia, non è dato sapere, ma era ormai e sarà sempre più necessario denunciare con chiarezza che la malattia mortale, il nichilismo razzista, distruttivo e annientatore del ’900, lungi dall’essere stati estranei alla trionfale storia della Russia aristocratica, zarista, leninista-stalinista, sono profondamente e costitutivamente connaturati ad essa, come sta ancora a dimostrare inequivocabilmente in queste ore la persistente, implacabile, determinazione putiniana a mandare in scena, nella storia del mondo, una nuova e indimenticabile “teologia dell’olocausto”.

Non sono parole eccessive: per rendersene conto basterebbe ricordare che, ben prima che comparisse all’ingresso di Auschwitz la famosa e truculenta massima: “il lavoro rende liberi”, ne era esistita un’altra molto simile proprio sulle isole Solovki che recitava non meno sinistramente: “Il lavoro fortifica l’anima e il corpo”. Era il 1919, quando Lenin, Lenin non Stalin, requisiva le isole Solovki, trasformandole così in un modello infernale di repressione, e inaugurando quello che è stato chiamato dal grande storico franco-bulgaro Tzvetan Todorov «il secolo delle tenebre», espressione con cui apriva nel marzo del 2000 un convegno senese su “Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo”, pubblicato poi con questo titolo all’inizio del 2001 da Bruno Mondadori: «se il settecento è il secolo dei lumi», egli diceva, «il novecento è il secolo delle tenebre». Solženicyn, quando era rinchiuso nei “campi di rieducazione”, pensava talvolta che ad un immenso paese come la Russia mancassero uomini di genio, spiriti eletti talmente profondi e ispirati da riuscire a congiungere una sapienza eterna, sia di natura umana che divina, con la fiera vitalità della cultura e della storia, con l’amore stesso della nazione.

A dire il vero, per quanto riguarda in particolare il versante divino di quella sapienza, almeno uno di quegli spiritti eletti poteva e doveva essere rinvenuto in Pavel Florenskij che invece la Russia avrebbe completamente dimenticato per decenni e decenni dopo la sua morte: solo dopo il 1991, con l’apertura degli archivi segreti del KGB, apertura tuttavia interrotta in seguito da Putin, il mondo russo ma soprattutto il mondo tout court cominciò a riappropriarsi di una gigantesca anima del XX secolo. Con la guerra in corso in Ucraina, uomini come Florenskij, pacifici ma combattenti e non abituati ad indietreggiare dinanzi a minacce e a torture di qualsiasi genere, e sempre guidati dalla luce della fede e dal coraggio della verità e della giustizia amorevole, potrebbero contribuire a dare una grande speranza di rigenerazione materiale e spirituale all’intera umanità.

Tuttavia, per chi vuol capire l’essenziale, sussistono ormai oggettive possibilità di comprensione razionale e demistificante, ovvero, volendo lasciare la conclusione ad un ottimo giornalista italiano come Vittorio Ferla: «Il paradosso è che, in questa guerra, un erede del nazismo effettivamente esiste, ma è lo stesso tiranno russo. “Con l’invasione dell’Ucraina, Putin, la sua cerchia ristretta e i generali stanno ora rispecchiando il fascismo e la tirannia di 70 anni fa, ripetendo gli errori dei regimi totalitari del secolo scorso”, dichiara il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, con la cruda schiettezza che spesso contraddistingue gli anglosassoni. Che, peraltro, di bombardamenti nazisti se ne intendono: la capitale Londra fu colpita nel settembre del 1940.

La verità è che le somiglianze tra l’aggressione russa odierna e la guerra di conquista di Hitler in Europa dopo il 1939 sono più d’una. C’è un dittatore che ha ordinato l’invasione di un territorio straniero autonomo per l’autoesaltazione della propria nazione. Lo ha fatto senza essere stato provocato da un attacco da parte del paese invaso, perseguendo i suoi obiettivi in violazione degli accordi bilaterali e internazionali e del diritto riconosciuto nelle carte dell’Onu. L’invasione è giustificata sulla base di false pretese di supremazia storica, ideologica e, perfino, mistico-religiosa. Si propaga un mito secondo cui le vittime dell’aggressione vengono di fatto liberate dall’oppressione. I militari hanno agito barbaramente, puntando direttamente la popolazione civile con l’obiettivo della sua eliminazione fisica, etnica e culturale. Nel frattempo, la popolazione civile è vittima di una manipolazione ideologica totalitaria» (V. Ferla, E’ proprio Putin il miglior erede della paranoia nazista, in sito online “Libertà eguale”, 11 maggio 2022).

Francesco di Maria

 

 

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