Umanità ed eticità della guerra

  1. La guerra e il vangelo. Neutralismo o interventismo?

La guerra è sempre ai limiti della razionalità umana. Indipendentemente dal fatto che, nel mondo contemporaneo, muova da ragioni difensive piuttosto che offensive, quello che con essa ci si predispone a perdere è un numero così alto di vite umane, oltre che di beni materiali e di servizi amministrativi ed istituzionali, da indurre continuamente i contendenti a chiedersi se e quali benefici possano realmente derivarne anche in caso di vittoria e se i danni verosimilmente ingenti e disastrosi di un’eventuale sconfitta non potrebbero essere evitati rinunciando a combatterla, anche a prezzo della propria onorabilità nazionale e della propria sovranità politico-territoriale. Spesso non si danno le condizioni per rispondere ad entrambi gli interrogativi e la guerra segue il suo destino.

Tuttavia, da un punto di vista etico, chi brutalmente aggredisce per accrescere il proprio potere espansionistico o imperiale e chi subisce l’aggressione cercando di respingerla con le armi per non rendersi facile oggetto di conquista o per non essere annientato, non possono in alcun caso essere collocati sullo stesso piano di colpa, in quanto l’aggressore violento, che è verosimilmente il più forte, cerca di avere la meglio sull’aggredito, che è verosimilmente il più debole, non in modo pacifico o relativamente incruento, ma in ragione della maggiore forza fisica o militare di cui dispone, donde è umanamente e moralmente comprensibile che ad un’azione offensiva violenta debba corrispondere una reazione, se non uguale e contraria come in fisica, almeno abbastanza decisa o potente da neutralizzare almeno in parte gli effetti distruttivi dell’attacco bellico. Quando sia possibile,  e in molti casi è possibile, distinguere tra guerra offensiva e guerra difensiva, non c’è dubbio che la seconda abbia un valore umano ed etico di gran lunga superiore.     

Don Primo Mazzolari, figura certo carismatica della storia novecentesca della Chiesa cattolica, riteneva che fosse cristianamente insostenibile non solo la guerra offensiva ma anche la guerra difensiva, e questa posizione, che egli spesso esprimeva sotto anonimato, lo avrebbe posto nell’ultimo periodo della sua vita in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche. Da cattolico dico subito che, a mio avviso, Mazzolari avesse torto, sia perché, in rapporto a questo tema non mi sembra molto lineare la sua condotta di vita proprio in quanto presbitero, sia perché le sue tardive posizioni pacifiste sulla guerra appaiono ben poco chiare e persuasive sul piano logico-concettuale, talvolta abbastanza bizantine ed ermeneuticamente affidate ad un approccio eccessivamente letteralistico di brani evangelici in cui Gesù ricorre all’estremo paradosso solo per sottolineare e far capire ai suoi seguaci quanto debba rimanere distante dalla loro mentalità e sensibilità la tentazione di ricorrere alla forza fisica e alla difesa violenta persino in casi in cui siano provocati, minacciati o aggrediti da soggetti malvagi e perversi, ma non certo per escludere che possano darsi situazioni di vita o eventi storici in cui risulti necessario, nonostante ogni sforzo di pace e di pacificazione, l’uso della forza o delle armi.

Dicevo: la condotta di vita. Mazzolari, consacrato presbitero e nominato curato tra il 1912 e il 1913, due anni dopo, nel 1915, non solo è tra i fautori dell’interventismo democratico (interventismo, non neutralismo), ma si arruola come volontario nella prima guerra mondiale fino a diventare cappellano militare nel 1918. Nel 1925, dopo aver manifestato pubblicamente la sua avversione al fascismo, viene denunciato dai fascisti del mantovano per essersi rifiutato di cantare il Te Deum in ringraziamento del fatto che Mussolini fosse scampato all’attentato che aveva ordito contro di lui il politico socialista e pluridecorato tenente colonnello Tito Zaniboni. Infine, molto attiva sarebbe stata la sua partecipazione alla Resistenza sollecitando i giovani a fare altrettanto. D’altra parte, alla fine della guerra non avrebbe esitato ad accettare la qualifica di partigiano dell’Anpi di Cremona. Non si può dire che un curriculum del genere sia proprio caratterizzato da insensibilità per la cultura militare, da totale refrattarietà a sentimenti di avversione per comportamenti ritenuti malvagi, odiosi e violenti, e a moti di reazione attiva, a scopo difensivo, contro atti di prepotenza, di sopraffazione delittuosa o bellica, a danno della libertà personale, della dignità umana e della democrazia.

Ma anche sul piano teorico, o meglio sul piano biblico-esegetico, non brilla certo per lucidità e precisione l’approccio di don Primo al tema della guerra, e segnatamente al tema della guerra difensiva. Nel suo celebre opuscolo “Tu non uccidere” scrive che «la guerra difensiva è insostenibile anzitutto perché è difficile distinguere chi è l’aggredito e chi l’aggressore. Qual è la guerra giusta e quella ingiusta? Può bastare l’affidarsi alla cronaca pura, alle semplici date, per stabilire chi attacca per primo, chi offende e chi si difende? Tutto è così complesso e intricato […]. Oggi soprattutto si fa sentire più evidente l’impossibilità di discernere se una guerra è giusta o no, e se si può ancora parlare di aggressori e di aggrediti». Purtroppo, qui viene esibita una argomentazione sofistica della peggiore specie, la cui banalità appare del tutto evidente non appena si replichi a Mazzolari in questi termini: tutte le volte che risulta non solo possibile ma persino agevole distinguere tra aggredito e aggressore, tra una guerra sacrosanta di difesa della propria o altrui vita, indipendenza, della propria libertà, dei propri beni, lingua e cultura, ed una guerra sconsiderata e brutale di conquista, aggressione e distruzione, non c’è proprio nulla che possa apparire “complesso e intricato” e diventa non solo possibile ma doveroso, evangelicamente doveroso, portare soccorso, ognuno secondo le sue forze e possibilità, a chi è in difficoltà, a coloro che sono concretamente soggetti al pericolo di perdere beni, affetti e la vita stessa.

Mi spiace, ma talvolta lo spirito di verità, questo è il caso, impone di muovere obiezioni spiacevoli persino a persone di immensa levatura spirituale com’è stato certamente il fratello Primo Mazzolari, che peraltro fu fatto personalmente segno della violenza fascista. E’ vero, altresì, che, sulla falsariga della sua interpretazione della non violenza, si è venuto sviluppando un filone di pensiero cattolico, spesso prevalente anche nella pubblica opinione, che punta sull’immagine della croce come compiuta rappresentazione della volontà radicalmente sacrificale di Dio, ma l’errore in cui qui si viene incorrendo con disinvolta sicumera esegetica consiste nell’isolare tale immagine dal complessivo contesto oblativo-sacrificale della missione salvifica di Cristo e quindi nel coglierne un significato parziale, incompleto, che non rende giustizia all’intero disegno divino di redenzione dell’umano. In particolare, non è affatto corretto commuoversi di fronte al crocifisso senza capire come e perché il Cristo, oltre che per fondamentali motivi profetico-scritturali, sia giunto ad essere crocifisso senza che egli muovesse un dito per impedire quella mostruosità.

Infatti, il Cristo crocifisso è lo stesso che si oppone in modo spesso veemente alla cultura e alla cultura religiosa del suo tempo, che non esita a proclamarsi Figlio di Dio sapendo bene di provocare l’invidia, la gelosia, la rivalità, l’odio, l’aggressività di parte del suo popolo, e più segnatamente di quei sacerdoti, di quei rappresentanti ufficiali della divinità, avvezzi ad usare quest’ultima in modo spesso strumentale come copertura ideologica di esigenze tutt’altro che spirituali, di esigenze materialissime di potere, di facile arricchimento, di visibilità e influenza sociali. Il Cristo crocifisso è così lo stesso che rovescia violentemente i tavoli del Tempio, funzionali a indebite commistioni tra l’umano e il divino, il pagano e il sacro, il diabolico e la purezza, l’empio e la santità della fede. Piuttosto penoso è il tentativo, soprattutto “cattolico”, di edulcorare proprio questo gesto violento, di indignata reazione spirituale di Cristo ad un modo vergognoso, blasfemo, sacrilego di percepire e testimoniare la presenza di Dio nella propria ed altrui esistenza. Così come patetici sono i tentativi di ridimensionare gli scatti nervosi, indispettiti, indignati di Gesù verso quegli stessi discepoli spesso tardi di mente e riluttanti ad accettare per intero la volontà del loro Signore.

Ora, Gesù viene crocifisso non a prescindere da tutto questo ma a causa di tutto questo, non perché egli si fosse presentato nella sua Palestina come persona ben educata, compìta, sempre rispettosa verso tutto e tutti, in particolare verso l’ordine e il pensiero religiosi del suo tempo, tollerante persino verso chiunque si mostrasse incline a fare sottili o grossolani usi strumentali della sua predicazione (per esempio, verso tanto ipocrita e sepolcrale fariseismo oppure verso quegli spiriti ribelli e violenti quali gli zeloti che non sapevano coniugare lo spirito religioso di giustizia con uno spirito di moderazione e di pace, con un ricorso saggio, avveduto, paziente, strettamente difensivo, alle misure estreme, alla forza o alla resistenza armata), e assolutamente incapace di irritare, turbare, sconvolgere i suoi interlocutori, o nel senso della loro conversione o nel senso di un loro ulteriore e peccaminoso irrigidimento spirituale: Gesù, giusto e santo per antonomasia, viene condannato a morte perché la sua presenza, la sua predicazione, la sua opera risultano non occasionalmente ma costantemente destabilizzanti per le logiche consuetudinarie e contrapposte del mondo, decisamente sfuggenti a tutti i tentativi di irrigidirne o imbalsamarne il chiarissimo e inequivoco ma anche complesso e problematico significato, inesorabilmente severe nei confronti di quanti, per i motivi più diversi e inconfessati di pigrizia spirituale o di comodo personale e comunitario, siano inclini a non onorarne integralmente l’insegnamento e a declinare in forma meccanica o rigidamente fatalistica il dovere creaturale di sottomissione alla volontà del Padre.

Gesù viene crocifisso non perché non avesse mai dato fastidio, non perché il suo modo di amare avesse creato solo simpatia, approvazione, consenso, intorno alla sua figura, non perché non avesse mai pestato i calli a nessuno, non perché la sua mitezza e umiltà di cuore lo rendessero remissivo verso le iniquità, le prevaricazioni, le offese e i delitti del mondo, e lo inducessero ad esortare i suoi seguaci a lasciar correre qualunque tipo di misfatto, a lasciarsi vilipendere, annientare o massacrare in tutti i modi possibili e immaginabili, ma viene crocifisso per la ragione esattamente opposta, per aver sempre lottato contro le complesse, profonde e ramificate strutture di peccato nei diversi ambiti storico-esistenziali del genere umano, per aver fatto capire chiaramente a tutti che su questa terra bisogna essere sempre pronti ad immolarsi proprio in ragione dello spirito di verità, di carità, di giustizia, che deve essere esercitato tanto verso la propria interiorità quanto verso tutte le forme di male che agiscono nel mondo e di cui ogni soldato di Cristo deve farsi intrepido e diligente testimone. Peraltro, fermo restando il precetto evangelico di perdonare l’offensore, di amare i nemici e di pregare per i persecutori, tutti termini e concetti che necessitano di profonde rivisitazioni esegetiche e su cui mi sono personalmente soffermato in alcuni miei libri, sembra difficile trovare una corrispondenza tra il significato generalmente attribuito alle celebri parole pronunciate da Gesù moribondo, “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”, e lo specifico contesto storico-evangelico in cui ha luogo la sua crocifissione.

Quelle parole, infatti, generalmente interpretate come una richiesta di perdono per l’intera umanità, genericamente e astrattamente intesa, in realtà non sono riferite all’universo mondo ma a quegli uomini, quei soldati romani, quei pagani, che, pur insultando, irridendo, oltraggiando sotto la croce ed oltre ogni limite di decenza il Signore, non possono realmente aver coscienza della loro blasfemìa, rendersi conto della loro sacrilega empietà, perché, a differenza di tanti ebrei, dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli anziani, essi non hanno mai avuto di fatto l’opportunità di ascoltare, di conoscere il Cristo, di essere partecipi delle sue opere prodigiose.  

In questo senso, dire per esempio, come ha fatto il teologo Luigi Lorenzetti (Guerre ingiuste, pace giusta: dove va la morale cattolica?, Bologna, Pardes, 2004), che estendeva il divieto di uccidere, non senza un eccesso di fanatismo religioso, persino agli animali, che «chi accetta la necessità della guerra, si schioda dalla croce non potendone sopportare l’impotenza del fare giustizia», significa proporre un’interpretazione unilaterale e soggettivistica, virtualmente ingenerosa e inutilmente dogmatica, perché l’assoluta necessità della guerra e della difesa armata può essere accettata semplicemente per difendere altruisticamente la vita donata da Dio e che a nessun uomo è dato di violare. Non si dimentichi che Gesù, quando venne arrestato nell’Orto degli Ulivi, si assicurò, prima di consegnarsi alle guardie, che ai suoi discepoli non venisse torto un capello, e disse di non chiamare in suo aiuto le legioni angeliche del Padre solo perché doveva adempiersi la profezia scritturale della sua morte, senza che peraltro a correre rischi di essere violato in modo cruento fosse il suo Regno.

Ora, gli esseri umani, che non dispongono né della prescienza divina, né delle speciali qualità taumaturgiche e sovrannaturali del Cristo, e che sono tuttavia chiamati a prendersi cura responsabilmente e amorevolmente del loro prossimo bisognoso, specie se la sua incolumità sia fortemente a rischio, hanno talvolta non tanto il diritto quanto proprio il dovere di proteggerlo anche con la forza o con le armi. Altro è la retorica evangelica, altro è la logica evangelica, altro è il voler ricamare sull’amore evangelico in modo irrealistico e innaturale, altro è lo sforzarsi di intendere che Gesù chiede ai suoi seguaci di astenersi dal rispondere alla violenza offensiva con altrettanta violenza offensiva ma non di rinunciare a qualsiasi tipo di violenza difensiva per salvaguardare in determinati frangenti la propria e altrui integrità fisica e morale, salva facendo la disponibilità spirituale del cristiano ad immolarsi senza opporre resistenza quando appaia ormai vano e anzi controproducente ogni tentativo di salvare la propria vita.

La croce non esclude ma presuppone la lotta contro i falsi valori e gli idoli del mondo, la preparazione interiore alla morte non comporta l’indifferenza per la vita e soprattutto per la vita di chi si trova in pericolo ma una spontanea e immediata reazione di solidarietà attiva verso quest’ultimo. Caino viene maledetto da Dio, ma Caino non è chiunque faccia genericamente violenza all’altro: non è chi ricorre alla violenza per salvare se stesso da un pericolo mortale  e, ancora di più, un familiare, un conoscente, un amico, uno sconosciuto, non disponendo di altri modi e mezzi per evitare la propria e altrui soppressione. Caino è biblicamente chiunque uccida per motivi moralmente abietti, riprovevoli, disonorevoli, come sono quelli che hanno a che fare con l’avidità, la gelosia, l’invidia, la rivalità, la prepotenza, il risentimento e la vendetta per un presunto o reale torto personale subìto, dunque per motivi che disattendono l’ordine morale fissato da Dio e le stesse leggi stipulate dagli uomini.

Colui che uccide per sottrarre la propria tribù, la propria famiglia, la propria comunità di appartenenza o la propria gente o nazione, all’oppressione violenta e sistematica di un nemico dispotico e malvagio, non compie un atto di giustizia, e tuttavia compie un atto comprensibile e giustificabile, in questo senso legittimo, non solo umanamente ma agli occhi stessi di Dio, il quale, si ricordi, non solo non rimprovera e non punisce Mosè, il prediletto da Jahvè nell’epoca veterotestamentaria, che uccide un sorvegliante egiziano reo di colpire a morte i suoi fratelli ebrei, ma lo incarica, quasi pregandolo data la forte e persino irritante ritrosìa di Mosè ad accettare l’incarico divino, di affrontare a viso aperto il faraone e di portare in salvo il popolo di Israele facendolo fuggire dall’Egitto.

Anche Sansone, altro consacrato a Dio ed altro “eroe” della religiosità ebraica, prima di uccidere se stesso con tutti i filistei, invoca il Signore con fede appassionata e sincera: «Signore Dio, ricòrdati di me! Dammi forza ancora per questa volta soltanto, o Dio, e in un colpo solo mi vendicherò dei Filistei per i miei due occhi!» (Giudici 16, 28). Si dirà: ma il Vecchio Testamento è superato, l’antica legge ebraica viene soppiantata dalla nuova legge dell’amore, della rinuncia alla ritorsione o alla vendetta, annunciata da Gesù. Senonché, è proprio Gesù che, prevedendo, anzi prendendo atto di questa obiezione, non esita a precisare:

Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5, 17-20).

Peraltro, lo stesso Gesù non si esime dal manifestare la sua indignazione, la sua santa e violenta collera nel cortile del Tempio in cui si faceva commercio di cose sacre sporcando l’immagine di Dio con una mentalità avida e venale appartenente solo all’uomo peccatore e, per di più, blasfemo. Ma, venendo al brano citato, secondo i rabbini ebrei contemporanei è molto faticoso, su punti importanti della Torah, riconoscere che Gesù non avrebbe abolito, ma solo ulteriormente sviluppato e dato compimento a quest’ultima. Per esempio, per restare in tema, proprio l’affermazione di Gesù secondo cui non bisogna resistere al malvagio, non bisogna opporsi con la forza a chi ci percuota e percuota il prossimo in modo ingiusto, essi osservano, non si limita a contrastare semplicemente delle cattive interpretazioni umane della Legge, delle deviazioni dal nocciolo stesso della volontà di Dio, ma giunge a violare uno dei nuclei fondanti dell’insegnamento rivelato da Dio a Mosè e trasmesso al popolo d’Israele. Non resistere a chi è malvagio non sembra affatto proponibile come approfondimento dell’“occhio per occhio”, ma sembra quasi contenere da una parte l’implicita autorizzazione del malvagio a colpire impunemente i poveri, i miseri, i bisognosi, gli innocenti, i giusti, tutti coloro che oggettivamente possono essere alla mercè di atti di cattiveria, prepotenza, oppressione, e dall’altra il disconoscimento della facoltà dell’aggredito di difendersi in modo adeguato e proporzionato all’entità della violenza ricevuta, mentre secondo la Torah fedelmente intesa è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, proteggere la vita propria e altrui in quanto dono di Dio, contrastare i nemici di Dio. La Torah non giustifica affatto chi si lasci opprimere e perseguitare senza opporre resistenza, non giustifica né il codardo, né il superbo che non vuole sporcarsi le mani con quanti offendono, delinquono, corrompono. Per la santa Legge di Israele è un inderogabile obbligo morale e religioso quello di prendere posizione, sia pure nei limiti delle proprie possibilità e capacità, contro chi agisce deliberatamente contro il prossimo e contro Dio, così come è da ritenere del tutto legittimo l’uso della forza soprattutto se ci si venga a trovare in condizioni di grave pericolo di vita.

Ma, in realtà, come notava con grande acutezza esegetica il rabbino inglese contemporaneo Claude Joseph Goldsmid Montefiore in alcune sue importanti e rispettose opere sul cristianesimo, il Discorso della Montagna, rivolto da Gesù ai suoi discepoli e a coloro che avessero voluto condividerne la fede, non aveva per oggetto i contrasti, le liti, le controversie che spesso possono sorgere tra gli uomini sul piano giuridico, politico, sociale, economico o militare, tutte questioni che avrebbero potuto e dovuto essere affrontate e risolte in base alle leggi vigenti dello Stato, bensì le modalità relazionali e comunicative che gli stessi credenti avrebbero dovuto sforzarsi di adottare reciprocamente con una certa larghezza di vedute, con generosità, con lungimiranza, e anche in rapporto a quanti fossero stati privi di fede religiosa. Scrive infatti il rabbino Montefiore: «Gesù non pensava alla giustizia pubblica, all’ordine legale delle comunità civili, all’organizzazione degli stati, ma solo al modo in cui i membri della sua comunità religiosa dovevano agire gli uni verso gli altri e verso coloro che erano al di fuori del loro particolare stato religioso. La giustizia pubblica non rientrava nel suo discorso» (C. G. Montefiore, I Vangeli sinottici , 2 voll., vol. 1, 2a edizione, London: Macmillan, 1927, p. 71. Altro testo che denota grande sensibilità di questo studioso ebreo per il cristianesimo di Gesù e per la predicazione paolina, è: Judaism and St. Paul , London, Max Goschen Ltd, 1914).

Era alla sua Chiesa embrionale che parlava Gesù ed è come se, proprio al fine di salvaguardare l’unità di quest’ultima, avesse inteso esortarne i membri ad amarsi reciprocamente anche a fronte di incomprensioni, antipatie personali, pretese arbitrarie soggettive, atti occasionali di prevaricazione o di prepotenza, a ridimensionare ogni volta la gravità di un contrasto o di un’offesa, per evitare il divampare del risentimento, dell’odio, della maldicenza, dell’inimicizia e delle divisioni, e senza peraltro rinunciare, per via ordinaria, a riprendersi, a rimproverarsi, a correggersi vicendevolmente in spirito di verità e carità. A questo Gesù faceva riferimento quando, discostandosi apparentemente dalla legge del taglione, in realtà la completava, la portava a compimento. Sì, bisognava che l’errante, il peccatore, il trasgressore si facesse carico di aver infranto determinate regole di comportamento all’interno della comunità religiosa e, in linea di principio, occorreva far rispettare in qualche modo il codice etico-comportamentale che la stessa comunità si era data, badando tuttavia a non comprometterne la tenuta, la solidità, la complessiva unità spirituale, in tutti quei casi in cui qualcuno, per motivi caratteriali o imprevedibili fattori umani, cominciasse a dar di matto, assumendo atteggiamenti particolarmente arroganti e minacciosi e certo non rassicuranti né per i singoli, né per la stessa compagine ecclesiale.

Non si può non notare, tuttavia, che anche qui nelle frasi usate da Gesù non compaiono mai espressioni estreme come “se uno ti vuole massacrare di botte, lasciati massacrare” oppure “se uno violenta con brutalità e senza alcuna attenuante tua moglie o tua figlia, perdonalo senza fare tante storie”, o ancora se uno devasta e distrugge la tua terra, non farci caso. Persino l’amore più incondizionato ha limiti evangelici invalicabili e questi limiti sono quelli al di là dei quali il reo potrà ottenere la misericordia di Dio e degli uomini solo attraverso una richiesta non finta e non occasionale di perdono, attraverso una intera vita di pentimento, di dura e sincera conversione. Va infine precisato che, quando Gesù invita ad amare i nemici e a pregare per i propri persecutori, egli non intende dire semplicemente nemici e persecutori in senso religioso, politico, ideologico o militare, ma anche in senso più generalmente umano, giacché è ben noto, sulla base di una lunga e consolidata esperienza storica, che non di rado i peggiori nemici e persecutori si trovano nella propria chiesa, nel proprio partito, nel proprio ambiente di lavoro, nella propria nazione non meno che nel proprio condominio. Ecco: cosa si può fare verso costoro, oltre che tentare di contenerne, certo anche in virtù di tutti gli strumenti civili, giuridici e normativi di cui è possibile disporre, l’odio che hanno nei nostri confronti e di limitarne i danni che vorrebbero infliggerci? Quali che siano le misure difensive adottate, un cristiano deve comunque amare i propri nemici, nel senso che deve essere pronto a soccorrerli se necessario, e pregare per i propri persecutori, nel senso di invocarne a Dio la conversione, anche se, per contro, è inevitabile che un seguace di Gesù, che voglia realmente condividerne il Calvario e la croce, possa trovare il suo destino di gloriosa realizzazione solo in quanto sia disposto, a causa di Gesù, a subire le offese, gli oltraggi, le umiliazioni, i maltrattamenti e le persecuzioni sperimentati dal loro divino Maestro.

Ora, se questa ricostruzione ha un fondamento sufficientemente solido, se ne ricava la conferma che effettivamente Gesù non abolisce la legge ma la integra nel rigoroso rispetto della sua originaria logica religiosa, così come se ne può inferire la distinzione di fondo che il Cristo avrebbe plasticamente fissato nel concetto del dover dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Gesù non intendeva interferire nella sfera della comunità civile e politica che aveva la sua autonoma regolamentazione negli ordinamenti giuridico-istituzionali dello Stato, preposti a garantire la tutela dei diritti e dei valori riconosciuti ai sudditi. A Cesare, appunto, quel che è di Cesare. Gesù non nega quindi la legittima difesa riconosciuta dalla Torah, perché riconosce che lo Stato ha il monopolio dell’uso legittimo della forza e i sudditi, da una parte, non possono sottrarsi ad esso, dall’altra possono utilizzare i mezzi di difesa da esso resi possibili, ma aggiunge alla facoltà di ricorrere alla forza nell’ambito di problematiche legali o di sempre possibili e ricorrenti controversie territoriali e strategico-militari tra Stati diversi, una nuova, possibile e auspicabile dimensione di comportamento nel quadro dei rapporti ecclesiali ed interconfessionali.

  1. Ucraina: una guerra difensiva disperata ma giusta. Un ex impero tra terrore e decadimento.

Molti intellettuali italiani, non avendo il coraggio di confessare pubblicamente la loro dipendenza ideologica e forse non solo ideologica dalla Russia oggi di Putin, continuano ad esercitarsi nell’acrobatica arte di dare ad intendere che la loro richiesta di una cessazione dei combattimenti in Ucraina sia strettamente connessa alla umanissima preoccupazione per la sopravvivenza dello stesso popolo ucraino, al timore che gli ucraini, col perdurare della guerra, possano subire danni sempre più ingenti e irreversibili. Sarebbe necessario fermare in qualunque modo, anche sottoscrivendo le condizioni di Mosca, le ostilità per evitare un nuovo e tragico olocausto. In realtà, questa motivazione è assolutamente falsa, ipocrita, perché il vero motivo per il quale si vuole o si vorrebbe la fine della guerra con annessa, inevitabile capitolazione ucraina, è l’incontenibile paura che, alla fine, possa uscirne sconfitta non l’Ucraina, ma la grande Madre Russia, simbolo universale, a partire dalla seconda metà dell’ottocento, di tutte le rivolte populistiche e di tutte le rivoluzioni popolari che, nel corso del secolo successivo, sarebbero state condotte nel nome e nel segno di un qualche socialismo collettivistico e, almeno formalmente, anticapitalistico.

Ma la mitologia rivoluzionaria, scaturita dalla storia russa del XIX e XX secolo, è venuta diffondendosi e radicandosi nell’immaginario comune dell’Europa e del mondo più attraverso una ricezione generica e approssimativa, non di rado romantica, di epocali e avventurosi avvenimenti che avrebbero segnato indubbiamente la cultura e la vita contemporanee, che non alla luce di studi analitici, rigorosi, realistici ed esaustivi, da cui pure sarebbero emersi aspetti e dinamiche decisamente inquietanti e ripugnanti tanto della mentalità colta che della mentalità plebea di gran parte del popolo russo. Ciò ha fatto sì che persino gli aspetti più barbarici, degenerativi, terroristici e regressivi della vita sociale e politica russa restassero sempre marginali, nella percezione occidentale, rispetto agli apparenti splendori della pur articolata e complessa epopea rivoluzionaria russa. La stessa eroica resistenza antinazista del popolo russo, che avrebbe favorito la vittoria degli stessi eserciti occidentali, viene spesso enfatizzata a sproposito oppure oltre misura, dal momento che quella resistenza fu determinata dalla oggettiva e strettissima necessità storica per lo stesso popolo russo di impedire che fosse sconfitto e assoggettato dai nazisti, dopo che Stalin non aveva esitato ad allearsi con Hitler (non lo si dimentichi mai!), non già da un’esigenza morale di popolo di non far mancare al resto dell’umanità il proprio contributo umano, morale, politico e militare, alla lotta contro il piano germanico di annientamento del genere umano.

Tra i russi di allora e i russi odierni che plaudono al genocidio graduale ma implacabile posto in essere da Putin in Ucraina, non c’è soluzione di continuità. Cinici e spietati erano allora, anche se costretti a combattere sulla difensiva per l’integrità del loro territorio e per la salvaguardia della loro sovranità nazionale, cinici e spietati sono oggi. Non si intende generalizzare, naturalmente, ma in linea di massima si può affermare che l’identità non solo di un folle paranoico e criminale come Putin ma dello stesso popolo russo, e ad eccezione di poche ma eroiche personalità della cultura e della politica russe, non solo non è oggi ma non è mai stata realmente rassicurante e aperta, a dispetto del suo leggendario e vetusto internazionalismo teorico-politico, all’umanità larga, internazionale del mondo. Questo quadro, però, non può che concorrere ad esaltare il coraggio civile ed intellettuale di un pugno di intellettuali russi non asserviti né al potere dittatoriale, né alle quantità megagalattiche di denaro erogate dal capo del Cremlino ad un notevole numero di “utili idioti” disposti a servire con burocratica e infallibile diligenza  il loro munifico padrone.

Quella appena pronunciata non è una miserabile illazione di chi scrive. Lo scrittore moscovita Sergej Lebedev, di 41 anni, che è una delle voci più prestigiose della letteratura russa contemporanea, ha espresso un giudizio molto severo verso il suo Paese, senza risparmiare gli stessi intellettuali russi che «negli ultimi vent’anni hanno chiuso gli occhi di fronte al regime … I grandi della letteratura russa», quasi tutti perseguitati dai diversi sistemi autoritari e oppressivi del potere russo, da quello autocratico zarista a quello leninista, a quello stalinista, a quello durissimo ma relativamente più umano di Nikita Chruščëv, e a quello infine, dopo la breve parentesi del governo virtualmente democratico di Gorbačëv (artefice della famosa perestrojka e della libertà), della repressiva restaurazione putiniana, «sono sempre stati assai sensibili alla causa della libertà, dei diritti umani e della lotta alla repressione. Ma nel recente passato la cultura ha evitato di trattare quei temi» (Intervista di R. Michelucci, Lebedev: «Russia, troppi intellettuali hanno chiuso gli occhi sul regime», in “Avvenire” del 19 aprile 2022).

Lebedev non ha fatto mancare il suo coraggioso sostegno al popolo ucraino: «In Ucraina oggi vediamo il coraggio, la responsabilità, la solidarietà. In Russia soltanto la profonda negazione della realtà, l’impotenza o la lealtà verso i criminali. L’idea di vicinanza (o fratellanza delle nazioni, come veniva chiamata nell’Unione Sovietica) è sempre stata determinante per la Russia come strumento di dominio. È stata un modo per cancellare la soggettività, l’indipendenza e il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina. Ora parlare di vicinanza è irrispettoso nei confronti della lotta e della sofferenza degli ucraini, perché l’aggressore usa la stessa narrazione per giustificare le sue azioni omicide». La “fratellanza delle nazioni”, dice chiaramente l’intellettuale russo, sin dai tempi dell’Unione sovietica, ma probabilmente anche dai tempi dell’impero zarista, «è sempre stata» usata dalla Russia come «strumento di dominio». E alla domanda se la guerra contro l’Ucraina debba considerarsi come la guerra di Putin oppure come la guerra dell’intero sistema politico e statale russo, Lebedev risponde significativamente: «No. Quella della Russia contro l’Ucraina non è solo la guerra di Putin ma un crimine di Stato su vasta scala. In un modo o nell’altro, l’intera Federazione Russa ne condivide le responsabilità. Quindi, anche se la caduta del regime potrà ripulire l’immagine della Russia, per rimetterci in marcia verso la democrazia abbiamo bisogno di giustizia, di chiarezza e di punizioni esemplari nei confronti di chi si è macchiato di crimini contro l’umanità». Ma l’esplicita critica ai suoi connazionali intellettuali lascia intendere che la crisi della Russia non sia solo di natura politica e circoscrivibile alla sua attuale fase storica, ma sia molto più profonda ed estesa.

E’ significativo quello che ricordava, pochi anni or sono, Ezio Mauro a proposito di quei bolscevichi che avrebbero costituito per diversi decenni, anche nelle università europee e americane, il modello più paradigmatico di intelligencija russa: «Maksim Gorgkij, amico di Lenin dal 1905, già nel giugno del ‘17 coltiva una forte critica nei confronti dei bolscevichi. Prima nelle lettere private (“sono i veri idioti russi, li disprezzo e li odio ogni giorno di più”), poi in un articolo sul suo giornale, Novaja Zhizn: “Sia Lenin che Trotzkij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell’uomo. Sono già intossicati dal malefico veleno del potere, come si capisce dalla condotta vergognosa decisa nei confronti delle libertà democratiche, a partire dalla libertà di parola fino alla libertà personale”. Gorkij polemizzerà con Zinovev, capo del partito a Pietroburgo, parlando di crimini vergognosi, con Dzerzhinskij, denunciando l’arresto delle migliori menti della Russia. Andrà all’estero, poi tornerà a ricevere gli onori del regime che gli ammazzerà il figlio, e finirà nel più ideologico cimitero sovietico, le mura del Cremlino. “Ha un talento artistico prodigioso – dirà di lui Lenin – , ma per quale motivo deve intromettersi nella politica”?» (Gli intellettuali traditi, in  “La Repubblica” del 22 luglio 2017).

Ma, per capire perché la violenza, la violenza criminale molto più che rivoluzionaria, non sia spiegabile semplicemente con le particolari e tumultuose contingenze storiche successive alla rivoluzione d’ottobre del 1917, ma sia radicata nel DNA dell’anima russa e, più segnatamente, all’indomani dell’introduzione in Russia del comunismo leninista, peraltro molto diverso da quello elaborato da Marx, presso cui sarebbero stati formati, educati, indottrinati, generazioni e generazioni di uomini e donne che, per tutto il 900, si sarebbero sempre mostrati imperturbabilmente fedeli al potere costituito, oggi si può leggere un libro molto istruttivo e ben documentato come quello di Gianluca Falanga, Non si parla mai dei crimini del comunismo, Roma-Bari, Gius. Laterza&Figli, 2022, in cui si legge che la violenza, il terrore di massa (con massacri, fucilazioni, pubbliche impiccagioni, deportazioni e arresti di massa), furono imposti senza soluzione di continuità in tutto il periodo compreso tra il “Terrore rosso” di Lenin e il “Grande terrore” di Stalin. L’autore precisa che non si tratta di criminalizzare in modo indiscriminato il movimento comunista novecentesco, in quanto molti vi videro un’ideologia di lotta per la conquista di migliori condizioni di vita, per un’emancipazione umana che doveva realizzarsi al di là delle libertà e dei diritti liberali, né si tratta di criminalizzare in blocco i comunisti, molto spesso vittime dei regimi che si proclamavano comunisti.

Michail Bakunin aveva per tempo avvertito il pericolo che la dittatura del proletariato, centrale nella visione di Marx, fosse di fatto funzionale non già all’avvento di una società di liberi e di eguali ma all’avvento di una classe burocratica invadente e oppressiva che si sarebbe presto separata dalle masse popolari e ad esse contrapposta. Ed è quello che si sarebbe puntualmente verificato anche con l’avvento storico del comunismo reale, del comunismo sovietico, benché la dittatura sovietica non avrebbe avuto assolutamente nulla di proletario essendosi rivelata piuttosto come dittatura di una banda di criminali spesso travestiti da intellettuali. Non è un caso che comunisti come Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg, di ben altra statura umana e morale, avversassero la statolatria sovietica e contestassero apertamente la natura dittatoriale e oppressiva dello stesso partito comunista sovietico, benché risultasse francamente difficile distinguere tra Stato e partito.

Di fatto, la cultura della violenza, del terrore, della repressione sistematica, che nell’ideologia comunista sovietica, doveva servire alla modernizzazione di una Russia misera e arretrata e all’emancipazione di un popolo sempre abbastanza isolato e arretrato rispetto alla cultura e ai valori sociali europei, non solo non avrebbe mai prodotto un risultato così ambizioso ma sarebbe risultata costantemente funzionale al mantenimento di un potere autocratico e dittatoriale di cui non le masse operaie e contadine russe avrebbero beneficiato nel tempo ma esclusivamente, spesso anche in modo diretto, loschi figuri di origini non di rado umilissime e dediti a pratiche criminali di ogni genere che, percorrendo con furbizia e spregiudicatezza diversi e importanti scalini della scala sociale e politica, talvolta impadronendosi del potere, avrebbero stabilmente incorporato nell’esercizio  ordinario di governo e negli apparati più sensibili dello Stato.

Si può affermare, non certo a torto, che, per tutto questo concorso di fattori, di mentalità, di stili di vita, di pratiche governative e istituzionali sempre al limite della legalità e largamente refrattarie a criteri tradizionali di umanità e moralità, il cinismo, lo spirito di menzogna, l’indifferentismo etico, la natura corruttiva della condotta individuale e sociale, la strumentalizzazione della fede religiosa a fini di bieco potere, esprimono un tratto costitutivo predominante anche se non esclusivo di una umanità russa contemporanea forgiatasi, in massima parte, su modelli ideologici di pensiero elaborati dai vecchi bolscevichi e del tutto svincolati da ordini o codici etici di qualsivoglia natura. E’ ancora oggi impressionante l’incitamento all’odio di classe e all’omicidio contenuta in un documento bolscevico pubblicato in data 18 agosto 1919, ancora prima che l’opposizione politica al regime leninista potesse organizzarsi,  nel primo numero di “Krasnyj Mec” (“Il gladio rosso”), giornale della Čeka, corpo speciale di polizia politica e antesignana del KGB, di Kiev: «Respingiamo i vecchi sistemi di moralità e umanità inventati dalla borghesia allo scopo di opprimere e sfruttare le classi inferiori. La nostra moralità non ha precedenti, la nostra umanità è assoluta perché si basa su un nuovo ideale: distruggere qualsiasi forma di oppressione e di violenza. A noi tutto è permesso perché siamo i primi al mondo a levare la spada non per opprimere e ridurre in schiavitù, ma per liberare l’umanità dalle catene … Sangue? Che il sangue scorra a fiotti! Perché solo il sangue può tingere per sempre la nera bandiera della borghesia pirata, trasformandola in uno stendardo rosso, la bandiera della Rivoluzione. Poiché solo la morte definitiva del vecchio mondo può liberarci per sempre dal ritorno degli sciacalli».

Ci si può meravigliare se, dati gli effetti lungamente persistenti di precoce, autoritaria e capillare catechizzazione psicologica, intellettuale e morale delle masse russo-sovietiche e sia pure in un contesto storico certamente diverso da quello del primo ventennio del XX secolo, un erede sostanzialmente fedele della tradizione bolscevica riesca anche oggi a ricevere un largo consenso popolare in relazione alla cosiddetta guerra di denazificazione in Ucraina? Non è che il “dissenso” russo possa essere derubricato a fenomeno marginale della storia russa contemporanea, ma non c’è dubbio che gran parte del popolo russo sia rimasto e resti ancora prigioniero di quell’antica mistificazione etico-politica leninista e bolscevica costruita con glaciale e ben calcolata determinazione criminale. Il mito della superiorità culturale, etica e civile della razza russa, della sua stessa invincibilità guerriera, fu ed è il vero cancro che ancora impedisce al popolo russo di esercitare una costruttiva funzione di cooperazione e di pace nel consesso delle nazioni, certo imperfette ma libere e democratiche del mondo, e di liberarsi in pari tempo dalla demoniaca e improduttiva ideologia del terrore.

Un grande studioso italiano di storia e cultura russe ha scritto che ci fu certamente un dissenso russo «ma di una Russia che aveva alle spalle settant’anni di sovieticità o … di sovietizzazione. … Il “dissenso” in tutta la sua gamma di posizioni ideologiche e culturali non fu un movimento di radicale rifiuto della sovieticità». Nonostante diversi vagheggiamenti ideali, con nomi molto promettenti quali “socialismo dal volto umano” oppure “eurocomunismo”, abbiano preso corpo, dopo gli anni ’70, in tutta l’Europa orientale ancora sottoposta al tallone sovietico, la realtà «era che», specialmente ma non unicamente in Russia, «la “spinta propulsiva” della “rivoluzione d’ottobre” non si era “spenta” … ma si dimostrava sempre più negativa, quale risultava fin dal suo inizio, se la si sottoponeva a un libero esame storico e intellettuale» (V. Strada, Dal rifiuto al dissenso: il contributo dell’emigrazione intellettuale, in “Ventunesimo secolo”, a cura di Victor Zaslavsky, vol. 11, n. 29, ottobre 2012, pp. 31-39, Rubbettino Editore). Tuttavia, grazie al dissenso, «la cultura russa si ricongiungeva alla cultura europea» e, tra gli intellettuali russi emigrati in Europa, uno merita di essere particolarmente ammirato e menzionato, uno di quei pochi che avrebbero fatto lodevoli sforzi per lasciarsi definitivamente alle spalle i pesanti condizionamenti ideologici anche sul loro spirito esercitati dalla sanguinaria pedagogia rivoluzionaria di origine leninista-stalinista: Victor Zaslavsky. Questi, come storico e sociologo, ha saputo dare, scrive Strada, «un contributo alla comprensione della realtà sovietica tanto più prezioso in quanto scevro dell’emozionalità che legittimamente può animare un fuoriuscito e compenetrato invece da una lucidità di analisi che ha fatto eccellere la sua opera tra gli studi sul comunismo».

Tuttavia, la matrice bolscevica primonovecentesca della storia russa sarebbe apparsa ancora talmente pervasiva nella coscienza collettiva dei russi di fine novecento da indurre un altro fuoriuscito, Vladimir Emel ‘janovič, a scrivere, prima di morire a Parigi nel 1995, un articolo pubblicato sulla rivista dell’emigrazione da lui diretta (“Kontinent”) e significativamente intitolato “Commemorazione funebre della Russia”: «Io non voglio vivere in una Russia neobolscevica dove come predicatori di democrazia si esibiscono corruttori di professione della Russia, ex membri candidati del Politburo, insegnanti di provincia di marxismo-leninismo, economisti della “Pravda”, capi della direzione politica dell’esercito, e ceckisti matricolati … (cioè i membri della prima polizia politica sovietica, la Cekà, che da ultimo si chiamò KGB)». L’attuale potere oligarchico-dittatoriale, saldamente esercitato da Putin grazie al colpevole consenso ricevuto dalla stragrande maggioranza della sua gente, riflette in modo molto significativo sia la fondatezza del giudizio e della angosciata preoccupazione di Maksimov, sia il drammatico, silenzioso ma attivo, protrarsi di un sempre vivo e solo riadattato verbo bolscevico nella mentalità e nella coscienza etico-civile russe di questo tempo.  

Ora, questa sia pure sommaria ricostruzione storica di più di un secolo di vita, di cultura, di politica e di guerra del popolo russo non è certo finalizzata a dimostrare che i russi siano diavoli in persona, e tuttavia essa può forse consentire di comprendere come, anche nel caso dell’invasione dell’Ucraina, le ragioni che ne sono alla base non potranno essere ritrovate in ragioni storiche specifiche e contingenti, in cause anche remote ma quanto meno riconducibili a reali e legittime controversie politico-territoriali, ma solo o essenzialmente nell’ancestrale, immorale, dispotico e violento spirito di conquista, espropriazione, sopraffazione, annessione, oppressione, sempre tacitamente o propagandisticamente legittimato dal modo stesso di pensare, di operare e di vivere di un popolo russo educato a forme di pensiero, di cultura e di arte, talvolta anche interessanti e originali, ma sempre o prevalentemente acritiche e insopportabilmente dogmatiche. Solo la Crimea può essere, in qualche misura, oggetto di possibile e comprensibile controversia, fermo restando che a) essa, anche prima del 1954, anno in cui Kruscev ne avrebbe fatto dono all’Ucraina secondo il mito abilmente diffuso dalla propaganda russofila, «era già una parte effettiva dell’Ucraina sovietica, dal punto di vista infrastrutturale, geografico ed economico. Non a caso, l’approvvigionamento idrico ed elettrico della Crimea continua, ancora oggi, a farsi tramite l’Ucraina» (G. Perri, Davvero la Crimea è sempre stata russa?, in “strade online”); b) essa, «sebbene a maggioranza russa e russofona, votò nel 1991 per l’indipendenza dell’Ucraina, di cui divenne una Repubblica autonoma, l’unica presente nello Stato ucraino (una sorta di Alto Adige)» (ivi).

Nel caso dell’Ucraina non ci sono questioni, ragioni contrapposte da mettere sul tavolo della discussione per essere risolte e ricomposte in una nuova e superiore sintesi. C’è solo un atto politico-militare del tutto unilaterale e arbitrario, profondamente radicato nella natura aggressiva e predatoria dei russi, la quale, come si è mostrato, non ha mai avuto nella cultura, nell’etica, nella stessa fede un adeguato o valido contrappeso. C’è solo un’invasione, un tentativo di occupazione militare quanto più estesa possibile, per venire a capo, anche con l’appropriazione delle preziose risorse naturali ucraine, di una crisi economica e sociale strisciante che, prima o poi, potrebbe costringere ad una nuova condizione di miseria un popolo che, sin dal 1917, non ha mai conosciuto una stagione di vero e durevole sviluppo economico e di dignitoso benessere sociale. Ma c’è anche da osservare che, per quanto Putin sia molto più simile ad un immondo avanzo di galera che ad un rispettabile capo di Stato, la sua decisione di attaccare l’Ucraina non si rivelerà probabilmente un errore di strategia destinato ad isolare la Russia non tanto dal mondo, essendo ancora relativamente numerose le nazioni sulla cui collaborazione essa potrà ancora contare, quanto dall’Europa, per il semplice fatto che un isolamento russo dal resto del continente europeo si era prodotto prima dell’occupazione militare con rapporti sempre più tiepidi e infruttuosi tra Unione Europea e Federazione Russa che non potevano non condannare quest’ultima ad una irrilevanza economica e geopolitica sempre più manifesta.

Putin invece, non è dato sapere se intenzionalmente o fortunosamente, con la mossa contro l’Ucraina, proprio nell’aggravare i rapporti con l’Europa, oltre che con gli Usa, ha finito per porre di nuovo la Russia al centro dell’attenzione mondiale ed europea, in quanto la politica russa del terrore, per quanto puerile e destinata storicamente ad essere catalogata come prodotto di insana e cronica follia, non può non destare costante e profondo allarme in tutti gli Stati e i popoli europei, spezzando così proprio l’isolamento verso cui sembrava essere avviata la Russia stessa. In un certo senso, ma anche in un contesto storico-politico profondamente diverso da quello europeo contemporaneo, Putin ha cercato di ispirarsi al suo antenato, lo zar e poi imperatore di Russia, Pietro il Grande, il quale, commentava Piero Gobetti in una recensione del 1923, «con la sua politica non risolveva una crisi, ma la inaugurava, non rendeva europea la Russia, ma la metteva accanto all’Europa, perché l’antitesi le desse la sua coscienza» (Il problema della civiltà russa, in “L’Ora”, Palermo, 23 novembre 1923).

Il fatto è che, nella sua opera espansionistica “di riconquista” di molti territori di presunta origine russa, Pietro non avrebbe minacciato militarmente l’Europa, anche perché privo del nucleare in possesso di Putin e anche in considerazione del fatto che a quel tempo (siamo nel ‘700) i grandi Stati europei non coltivavano interessi particolarmente ambiziosi di politica estera che potessero infastidire l’Impero russo, mentre oggi le cose stanno molto diversamente e, fermo restando che almeno i popoli europei non potranno mai astenersi dal portare soccorso al popolo ucraino e stare dalla sua parte anche militarmente, bisognerà vedere se il rapporto antitetico, che oggi è stato ricreato ed è in via di apparente consolidamento, tra Russia putiniana ed Europa continentale ed extracontinentale, procurerà almeno uno di questi possibili effetti: una nuova e rafforzata consapevolezza dell’identità nazionale russa; il totale annientamento degli Stati e dei popoli in lotta; un isolamento crescente e obbligato della Russia con una sua conseguente, lenta e inesorabile disfatta storico-politica ed economico-finanziaria; un ripristino delle relazioni internazionali sulla base di accordi fortemente penalizzanti per una delle due parti in causa.

Una cosa, di certo, non resterà immutata: la credenza secondo cui da una rivoluzione come quella bolscevica dell’ottobre 1917 possano ragionevolmente scaturire, in modo diretto o indiretto, le condizioni per una realizzazione del “sol dell’avvenir”. Il socialismo storico, quello già realizzato e quello che potrebbe essere ancora realizzato, non potrà mai generare dal suo infecondo e perfido seno la luce necessaria in un prossimo avvenire ad illuminare i popoli della terra. D’altra parte, sempre più numerosi sono i Paesi dell’ex galassia sovietica che, subdorando un ennesimo crollo del sistema economico-produttivo russo e la concreta possibilità di un nuovo giro di vite da parte di Mosca nei suoi rapporti con le ex repubbliche del defunto impero, vengono esprimendo in modo sempre più urgente la richiesta di entrare a far parte dell’Unione Europea. In realtà, per la Russia sembrerebbe profilarsi un orizzonte forse ancora imperiale per quanto riguarda, in parte, le sue prove muscolari di forza, l’uso del terrore come strumento propagandistico di pressione sulle politiche governative degli Stati occidentali, ma certamente nefasto per quanto si riferisce alle sue capacità di tenuta sistemica nel prossimo ventennio.

In un suo saggio molto accurato, preciso, equilibrato e più che attendibile, il gesuita russo padre Vladimir Pachkov ha evidenziato che l’economia russa, sotto il governo putiniano, dipende strettamente dallo sfruttamento del sottosuolo , per cui il capitalismo russo, pure da Putin incentivato e reso più efficiente rispetto al sistema economico sovietico, riesce ad espandersi in modo molto limitato: vale a dire non secondo una diversificazione e uno sviluppo del settore industriale e terziario, ma secondo una concentrazione di ricchezza nelle mani di poche persone, che costituiscono poi l’élite al potere. Anziché «favorire l’ascesa di una classe media e di una imprenditorialità autonoma e al passo con i tempi, si promuovono, a mezzo di un’economia estrattiva di risorse naturali, quelle persone che sono al servizio dello Stato e da esso dipendono» (V. Pachkov, La Russia di Putin, in “La Civiltà Cattolica”, Quaderno 4121, vol. 1, 5 marzo 2022, pp. 482-488), ovvero, anziché puntare su uno sviluppo più lento ma anche socialmente più ampio e redditizio, si consente a funzionari di partito e di Stato di arricchirsi a proprio piacimento, rendendo peraltro possibile una notevole fuga di capitali che, tra il 2014 e il 2018, ha raggiunto quota 320 miliardi di dollari, mentre ad oggi ben il 21% della popolazione complessiva vive in povertà (ivi).

Per quanto riguarda la Russia è una dinamica che si ripete ciclicamente sin dalla rivoluzione d’ottobre: si cerca sempre di fare qualcosa per il grande popolo russo, per le masse contadine e operaie, per i ceti intermedi e tecnocratici che in qualche modo, nel frattempo, ad essi si sono aggiunti e che vengono utilizzati, ad eccezione di un certo numero di trattamenti privilegiati concessi anche nella patria dei grandi rivoluzionari comunisti con grande larghezza di vedute, come eroica forza-lavoro nelle ricorrenti guerre imperiali, ma poi, siccome il fulcro strutturale del sistema di potere è costituito da una forma mentis puramente ideologica, ad emergere storicamente è sempre l’attitudine ladronesca e accaparratrice dei “rivoluzionari”, di quelli che gestiscono le varie fasi storiche del processo rivoluzionario, dei “dirigenti” politici e dei pianificatori economici e finanziari, per cui la Russia si ritrova sempre a celebrarsi come grande potenza politica e militare, pur rimanendo costantemente un nano sul piano economico e sociale e, personalmente, direi anche e soprattutto culturale, visto che, in linea di massima, tutto quello che di culturalmente grande, originale e universale, la Russia è riuscita ad esprimere in modo stabile e duraturo nel corso del novecento, è stato principalmente l’insieme di opere, riflessioni e analisi, ricostruzioni storiche e dossier politico-sociali, che un certo numero di fuoriusciti, di intellettuali russi, emigrati per motivi di stretta necessità dalla madrepatria, ha via via portato alla conoscenza della società e della cultura europee e mondiali.

Dopo l’aggressione ai danni dell’Ucraina, è davvero molto difficile prevedere il futuro del mondo. La Russia, come è stato scritto, è ancora “un impero che non vuole morire”. Tuttavia essa, «anche sotto Putin, è la conferma che il destino di un Paese è determinato dalle sue tradizioni e dalla sua storia, e che profondi cambiamenti, nel bene o nel male, possono attuarsi solo molto lentamente» (ivi), che è quello che “i rivoluzionari di professione”, molto più pronti ad agire che a riflettere, di solito non sono abituati a fare: «oggi il rischio di rimanere isolata e di vivere una drammatica stagnazione economica è molto reale» (ivi). Ma, per la Russia, esiste un rischio molto più grande, nel senso che, negli ultimi due secoli, le sue armate sono riusciti a salvarla da Napoleone Bonaparte, poi da Hitler. Nel malaugurato caso in cui non un atto di eroismo ma un atto, sia pure improbabile, di autolesionismo, che è un’altra caratteristica del temperamento arrogante e sprezzante di un certo uomo russo, dovesse indurre Putin a provocare un conflitto nucleare, bisognerà verificare, da parte dei sopravvissuti, se la sua Russia sarà stata in grado di salvarsi anche dalla NATO. Di sicuro, Putin e tutti i russi o non russi di tutti i tempi che, satanicamente esaltati, ne avranno condiviso la mentalità e le opere criminali, non potranno mai salvarsi né dal giudizio di Dio, né dalle sue legioni angeliche.

Francesco di Maria

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