La fede tra verità e ideologia

E’ molto facile che, nel quadro della sua esperienza di fede, un cristiano smarrisca la fede o la sostituisca con l’ideologia ovvero con un ordine di idee e di valori che, pur richiamandosi al vangelo e al dovere della testimonianza religiosa, in realtà ne tradiscano o ne esprimano in modo parziale o arbitrario lo spirito e la funzione. Accade allora che la fede si trasformi in un atteggiamento moralistico e di chiusura verso il vero senso veritativo delle molteplici e urgenti problematiche della nostra quotidianità. Papa Francesco indica nella preghiera la cura preventiva e necessaria che può preservare o guarire dal morbo ideologico1. Senonchè, poi, anche la preghiera, persino nelle sue forme più avvedute e sentite, può non bastare a liberare il credente dai pregiudizi e dal fariseismo morale e religioso se la sua mente e il suo cuore non siano predisposti correttamente e reiteratamente a percepire il sacro e ad ascoltare la Parola di Dio. Si danno, infatti, diversi modi di credere, di pregare, di testimoniare la fede nelle verità rivelate, e non è affatto semplice tenerli rigorosamente separati da pericoli sempre in agguato di ideologizzazione della fede. Persino Giobbe potrebbe essere tentato di tradire la sua fede con una preghiera non più fiduciosa ma semplicemente rassegnata e rinunciataria2.  Non vi è mai nulla di scontato: come dimenticare i rimproveri tante volte rivolti da Gesù ai suoi stessi discepoli perché incapaci di intuire le sue intenzioni e di intendere le sue parole?

Oggi, per esempio, è ideologico o non è ideologico sostenere nel nome del vangelo che l’accoglienza dei migranti vada sempre e comunque sostenuta e incoraggiata da Stati e comunità locali, oppure che sia doveroso astenersi dal mandare armi e dall’aiutare militarmente i fratelli ucraini dalla feroce aggressione dello Stato e dell’esercito russo di Putin? E’ ideologico o non è ideologico individuare il criterio decisivo del discernimento morale nel foro della coscienza personale e soggettiva piuttosto che in oggettive e sovrannaturali norme divine, oppure benedire, sempre nel nome del vangelo, le coppie gay? E’ o non è ideologico collocare sullo stesso piano tutte le religioni del mondo senza pregiudizialmente affermare la superiorità spirituale e religiosa della religione cristiana e cattolica? E’ o non è ideologico parlare continuamente della misericordia divina come dell’unico attributo qualitativo della divinità, omettendo spesso e volentieri che il Dio di Gesù è anche un Dio di giustizia e di insindacabile giudizio?

Il papa regnante dice spesso che non bisogna essere mai rigidi, intransigenti, ma sul fatto che il Cristo sia il Figlio unigenito di Dio, che Dio sia uno e trino, che i presbiteri, in quanto già presbiteri, non abbiano più facoltà di sposarsi mentre gli uomini già sposati abbiano facoltà di essere ordinati presbiteri e ministri di Cristo, su cose del genere, sarà o non sarà doveroso e quindi non ideologico, mostrarsi rigidi, inflessibili, amorevolmente intransigenti? Bisogna insegnare solo quello che Cristo ha insegnato, non altro, ma nessuno può illudersi di avere completamente nelle proprie mani la perfetta chiave della verità, talvolta neppure chi sia salito, non necessariamente per volontà dello Spirito Santo, sulla cattedra di Pietro. Una volta disse papa Francesco: la Chiesa non è un Parlamento, in cui soltanto si discute, «la Chiesa è un’altra cosa, la Chiesa è la comunità di uomini e donne che credono e annunciano Gesù Cristo, ma mossi dallo Spirito Santo, non dalle proprie ragioni. Sì, si usa la ragione, ma viene lo Spirito a illuminarla e a muoverla»3. Già, ma spesso accade che, per quanto illuminata e sostenuta dallo Spirito Santo, anche la ragione più santa venga contrastata e neutralizzata da ragioni umane, talvolta oltremodo autorevoli, non solo non autorizzate dallo Spirito Santo ma persino contrastanti con il suo benefico soffio di verità e di amore.

Né il Vangelo, né la fede sono un’ideologia, anche se, nella storia della Chiesa, non di rado entrambi si sono prestati ad essere usati strumentalmente al servizio di interessi e scopi ideologici. Chi oggi ha il compito di governare e guidare la Chiesa di Cristo, lo sa bene e forse dovrebbe usare maggiore cautela nel rivolgere i suoi strali pastorali ai “cristiani ideologici”, dal momento che dal virus ideologico possono essere colpiti non solo quei “cristiani rigidi, moralisti, eticisti, che però non sono capaci di amare”, ma anche quei cristiani che parlano sempre di amore, carità, bontà, pace, in modi retorici o più o meno melliflui, dimenticando completamente i “comandi” di Cristo ed amando il prossimo secondo logiche umanitarie di questo mondo, non secondo logiche oblative severamente ed esclusivamente sottoposte alla legge e alla volontà del Padre.

Ma, beninteso, il rapporto tra fede e ideologia non è sempre e necessariamente di reciproca esclusione. Infatti, così come gli idéologues francesi del ‘700, cioè gli illuministi-enciclopedisti settecenteschi, che si richiamavano prevalentemente a princìpi sensistico-materialistici, antiteistici, antiautoritari e anticlericali, avrebbero cercato di applicare i metodi della scienza moderna allo studio dell’uomo, con specifiche ricerche sul rapporto tra corpo e mente (Cabanis) e sul linguaggio (conte di Volney), e della società, con particolare riferimento ai problemi economici (Jean Baptiste Say), non senza contribuire ad un effettivo progresso delle conoscenze umane e ad una rivisitazione critica e demistificante dell’etica tradizionale e delle religioni positive4 allo stesso modo gli intellettuali di fede cristiana e cattolica dell’era moderna si sarebbero preoccupati, in linea con i predecessori delle epoche passate, di stabilire in che modo e in che senso i princìpi evangelici potessero essere applicati alla vita personale, comunitaria, economica, sociale e politica dell’uomo, di individuare quindi le condizioni spirituali di legittimità e le implicazioni pratiche della fede in relazione ai vari aspetti dell’esistenza di individui e popoli nella storia generale dell’umanità.

Che poi la ragione (laica) potesse o non potesse fare a meno, e in che misura, della fede, e che la fede cristiana e cattolica fosse o non fosse, e a quali condizioni, compatibile con un esercizio critico e antidogmatico della ragione, che questi temi venissero a configurarsi come temi particolarmente impegnativi e significativi di discussione, è senz’altro vero, ma non nel senso che il relativo dibattito comportasse un indebolimento delle ragioni e della stessa razionalità interna della fede e della cultura religiosa fondata sulla Rivelazione, traendone al contrario beneficio l’intero dibattito filosofico-culturale. Tuttavia, così come la parola ideologia, nel corso dell’ottocento e già con Napoleone Bonaparte, che prese a definire ideologi gli intellettuali inclini a dare rappresentazioni arbitrarie o distorsive della realtà, sarebbe venuta acquisendo anche un significato negativo, spregiativo, soprattutto in Marx ed Engels, che avrebbero considerato ideologico, e quindi falso o mistificante, cioè non razionale e non scientifico, qualunque assunto sprovvisto di riscontri storico-empirici e di oggettività razionale, allo stesso modo anche in ambito religioso e cattolico si sarebbe posto un problema di corretta ricezione esegetica, di legittima acquisizione ermeneutica, di attendibile e qualificata  interpretazione ed elaborazione critico-culturali dei contenuti biblico-evangelici nel quadro della tradizione della Chiesa e delle sue più ispirate posizioni di sapienza teologica.

In altri termini, anche per i cattolici si sarebbe posto in modo sempre più pressante, sotto l’incalzare di avvenimenti storici non di rado drammatici e imprevedibili, il problema di tracciare, volta a volta, una chiara linea di demarcazione tra il senso originario e costitutivo della Parola di Dio e le interpretazioni più o meno soggettive, opinabili, parziali, tendenziose o incomplete, quindi ideologiche, che di essa venissero date, all’interno stesso della Chiesa, in rapporto a istanze prettamente teologiche e pastorali o a specifiche esigenze di dialogo e di confronto con il sapere laico e l’universo morale e politico dei non credenti o di soggetti comunque estranei alla comunità cattolica: problema oltremodo difficile e non sempre suscettibile di essere risolto con immediatezza, nella complessa e travagliatissima storia della Chiesa, attraverso pur autorevoli interventi delle alte gerarchie ecclesiastiche.

La Chiesa di Cristo, che è nel mondo senza essere del mondo, deve pure poterne ascoltare le voci, le grida, le contestazioni, per valutare, alla luce della Parola verginale e incontaminata di Dio, che cosa di esse possa o debba essere doverosamente accolto e valorizzato, che cosa invece non possa e non debba trovare alcuna possibilità di accoglienza e integrazione nell’economia cristologica ed ecclesiale della salvezza. Da una parte a contendersi il campo sono la razionalità critica o la scienza e l’ideologia, dall’altra, ma su un versante parallelo o non necessariamente antitetico, un rapporto antagonistico tende a sussistere anche tra la fede nel Logos divino e nelle verità rivelate e un ricorrente approccio critico deformante ai contenuti dogmatici e teologico-spirituali della fede stessa.

Il senso negativo del concetto di ideologia è quello che interessa prendere in considerazione in questa trattazione, ma va certo precisato che tale concetto, nel corso del novecento,  sarebbe venuto assumendo anche un significato più descrittivo, più generico o avalutativo, pur continuando a conservare «un significato più specifico e ristretto, che viene utilizzato per indicare dottrine e movimenti politici precisi (comunismo, nazismo, fascismo), accomunati da alcune caratteristiche: la presenza di un retroterra teorico più o meno elaborato, che pretende di fornire una spiegazione esaustiva (e definitiva) dei processi storici e sociali; il tentativo di trasformare totalmente la società e l’uomo, secondo un preciso modello; l’intensa partecipazione emotiva dei militanti, spesso simile alla ‘fede religiosa’; il ruolo-guida di un partito dotato di una ferrea e capillare organizzazione»5.

Oggi, in vero, rischia di potersi configurare come ideologico in questa ultima più specifica e ristretta accezione anche un certo centralismo, anzi meglio un certo dirigismo pontificio, troppo spesso e per diversi aspetti più simile ad una pretesa di governo politico di tipo autoritario che ad un doveroso ma responsabile ed equilibrato esercizio di governo spirituale e pastorale ed è giunta l’ora di dire anche a riguardo di papa Francesco, con la massima parresìa possibile, che l’uso ricorrente e preoccupato che egli fa della parola ideologia, appunto temendo il diffondersi di usi ideologici della fede nella Chiesa, in realtà suona ad un crescente numero di cattolici come approssimativo, contraddittorio e persino beffardo, visto che proprio il suo pontificato appare costellato, come nessun altro pontificato precedente, da tutta una serie di inedite ma inquietanti interpretazioni o deduzioni teologiche e persino da taluni toni vocali indispettiti e sussiegosi, generalmente non caratterizzanti lo stile umano e pastorale di un papa, che hanno già prodotto profonde lacerazioni nella coscienza religiosa di molti fedeli, sempre pronti a rivedere idee e convinzioni personali ma non certo assunti teologici ed etico-morali ampiamente e solidamente consolidati nel quadro della più ispirata riflessione bimillenaria della Chiesa e che dovrebbero essere destinati a rimanere punti assolutamente fermi della dottrina cattolica.

Tutti i cattolici sono e devono essere preoccupati, non solo il papa, che la fede non diventi ideologia, ma il problema è che, purtroppo, nel caso del papa, tale timore venga assolvendo più che altro, di fatto, una funzione autoprotettiva, vale a dire di protezione ideologica verso determinate e ormai caratteristiche sue prese di posizione su questioni cruciali del tempo, come l’incontenibile fenomeno migratorio, il rapporto sempre più teso e conflittuale tra blocchi politici e statuali contrapposti, l’asserita sacralità ambientalistica della natura, la vertiginosa evoluzione-involuzione dei costumi sessuali, familiari e sociali, solo per citarne alcune tra le più rilevanti. Non sono certo questioni che possano essere risolte a parole o a cuor leggero, anche se autorevolmente enunciate e ripetute sino alla noia dall’attuale successore di Pietro, che però sembra semplificare la complessità che gli si squaderna davanti  con soluzioni che a molti appaiono avere molto di gratuitamente riduttivo e ideologico e ben poco di legittimamente spirituale e religioso.

Se l’accoglienza da riservare nei limiti del possibile ai migranti si trasforma in un dovere tassativo, aprioristico e assoluto, costi quel che costi, e addirittura in una sorta di apologia teologica del migrante come tale; se uno dei più potenti ed autocratici Stati del mondo pretende di cancellare dalla faccia della terra un intero popolo per impossessarsi del suo territorio e delle sue risorse naturali e un papa si limita a parlare di pace e pacifismo a prescindere dalla realtà oggettiva dei fatti; se il culto della terra e dell’ambiente naturale come il rispetto del clima e di tutti i suoi parametri  finiscono per essere evocati ossessivamente e idolatricamente senza che lo stesso pontefice si preoccupi di ricordare ogni tanto che tuttavia il mondo avrà una fine; se si viene affermando in modo ambiguo che persino l’indole sessuale più malata o perversa può essere peccaminosa ma non certo criminale trascurando di precisare che agli occhi di Dio non si dà crimine più riprovevole di quello che scaturisca dal peccato o dalla violazione, quale che sia, della legge di Dio, si deve pur riconoscere che sussistano validi motivi per ritenere che molti interventi del papa in carica, molti passaggi di questo pontificato siano in realtà come avvolti in un denso fumus di natura tipicamente e drammaticamente ideologica.

Se, come afferma Francesco, il cristianesimo non è né ideologia, né filosofia, allora è lui che, per primo, dovrebbe guardarsi dal proporre spericolati ragionamenti proprio in chiave ideologica e filosofica, oltre che teologica, anche se tra i primi due termini passa un duplice rapporto: sia di possibile continuità che di possibile discontinuità. Anche quando afferma che «il cristianesimo non è tanto la nostra ricerca nei confronti di Dio ma la ricerca di Dio nei nostri confronti»6, il papa rischia un mezzo naufragio ideologico, per il semplice motivo che Dio cerca appassionatamente la sua creatura non per necessità ma solo, per sua libera e generosissima scelta, per sollecitare la creatura a cercare il suo sommo e unico bene in Dio. Una eccessiva responsabilizzazione ontologica di Dio nei confronti dell’uomo, quasi che sul piano teologico e storico la dimenticanza umana di Dio e del suo volere potesse ritenersi più comprensibile e tollerabile rispetto ad una ipotetica o eventuale dimenticanza divina dell’uomo e delle sue necessità, finisce infatti inevitabilmente per depotenziare nell’uomo come singolo e come specie la coscienza del senso del peccato e del suo obbligo di fedeltà alla legge divina e per risultare abbastanza funzionale a quell’ideologia permissiva e falsamente emancipativa che è parte drammaticamente costitutiva e integrante della cultura e della civiltà fondamentalmente nichilistiche del XXI secolo.

La Chiesa, beninteso, ha dovuto fare sempre i conti con le diverse ideologie prevalenti o dominanti del mondo: il Concilio Vaticano II fu accusato di essersi lasciato condizionare dall’ideologia marxista e comunista, in decenni in cui marxismo e comunismo godevano di maggiore credibilità e fascino rispetto ad epoche successive; poi, sotto i pontificati di papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, avrebbe avuto anche in Italia un momento di notorietà e visibilità mediatica la corrente del cosiddetto conservatorismo teologico (teocon), condiviso e sostenuto non tanto per motivi di fede personale quanto per motivi strettamente culturali ed etico-civili anche da esponenti della cultura laica non credente (da Pera a Ferrara, da Fallaci ad Adornato o a Galli della Loggia). Tale corrente ideologica sarebbe stata di poco preceduta e in qualche modo alimentata dal neoconservatorismo cattolico americano di pensatori come Novak, Weigel, Neuhaus, Sirico, portatori di un’ideologia cattolica di estrazione liberale e liberista e quindi funzionale al capitalismo americano e occidentale o, se si vuole, ad un tentativo pur sempre problematico di eticizzazione del modello capitalistico di sviluppo7.

Ma, beninteso, l’ideologia non è qualitativamente altro dal sapere razionale; è solo una sua possibile articolazione e vi viene assolvendo una funzione conoscitiva, ora di natura più critica, ora di natura più dogmatica, e basata su una interdipendenza di fattori descrittivi e avalutativi (corrispondenti, in linea di massima, ai fatti così come sono e ai dati oggettivi della realtà) e di fattori valutativi e critico-contestativi (corrispondenti a criteri di ordine etico, politico, religioso, alternativi a forme date e diffuse di comportamento e di vita intellettuale e civile). In definitiva, tra scienza e ideologia sussiste solo una differenza di funzione euristica, non una differenza di valenza o dignità conoscitiva, giacché da una parte è ormai chiaro  che non è che lo scienziato o il ricercatore siano in assoluto più neutrali o indipendenti nel giudizio e più attrezzati sul piano logico-metodologico di quanto non siano il filosofo o il teorico politico, né si può ragionevolmente affermare che la ricerca scientifica, a differenza del lavoro ideologico di scavo o di critica antideologica, viva necessariamente più di dubbi che di certezze, in quanto la storia della scienza è piena di dubbi ma anche di certezze, di congetture e confutazioni ma anche di teorie e assunti dogmatici, mentre la storia delle ideologie, pur carica di certezze dogmatiche, è anch’essa continuamente suscettibile di revisioni, approfondimenti, correzioni e integrazioni, mutamenti paradigmatici di prospettiva, che stanno ad attestare che anch’essa è attraversata da una sottesa corrente o dinamica profondamente critica e antidogmatica di pensiero.

Questo, peraltro, non significa perdere di vista la distinzione-differenza funzionale tra un approccio scientifico secondo cui si tratti di cogliere e di spiegare nel modo più preciso e oggettivo possibile il funzionamento di qualcosa, di un fenomeno naturale o sociale oppure, più in generale, le leggi di funzionamento del mondo, e un approccio critico-razionale che potrà risultare più o meno ideologico solo aposteriori ma che si proponga comunque, in base alla sua stessa statutaria funzionalità programmatica, non solo di interpretare conoscitivamente il mondo ma anche di giudicarlo in senso valoriale ed eventualmente di trasformarlo sul piano economico-sociale ed etico-politico o prevalentemente spirituale. Scienza e ideologia o critica della ideologia e della stessa ideologia scientifica, sono due istanze distinte e quindi non confondibili ma non necessariamente antitetiche o incompatibili della conoscenza critico-razionale.

Ora, per quanto riguarda il rapporto tra fede religiosa, e più specificamente tra fede evangelico-cristiana, e ideologia, non bisogna dimenticare che la parola fede, per il cristiano, evoca l’apertura mentale al Logos divino, che è la ragione per antonomasia, e l’adesione spirituale alle verità massimamente universali quali sono quelle rivelate da Cristo. Dunque, chi basa la sua vita sulla fede non compie una scelta di natura puramente emozionale ma anche meditata e giustificata intellettivamente e non assume una posizione irrazionale ma, al contrario, almeno per via congetturale, una posizione di attendibile razionalità perché fondata sul sapere e sull’opera della persona storica del Cristo e, di conseguenza, non priva di concreti e significativi riscontri storico-fattuali, accertati su una larga base intersoggettiva di una determinata epoca, anche se non, o meglio se non ancora riproducibili secondo uno dei princìpi della moderna scienza sperimentale (ma, come è ben noto, ancora oggi non tutto ciò che è vero o ha portata veritativa in senso scientifico-conoscitivo, può essere necessariamente riprodotto in laboratorio). Ciò premesso e precisato, resta tuttavia da capire che la fede può essere acquisita in modi diversi e non tutti ugualmente legittimi, cioè non tutti ugualmente conformi alle modalità originarie di accesso ad essa previste e prescritte dalla originale predicazione di Cristo. Resta cioè da capire che la fede può essere acquisita in modi più o meno ideologici, a seconda del grado spirituale di libertà intellettuale e di giudizio morale di colui che ritenga di poterla e doverla condividere, interiorizzare e farla propria.

Ora, quando si legge che «Dio è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido!», non è intransigente e non è identitario, né esprime risentimento verso un mondo caotico e disordinato, sempre incerto e inquieto, sempre smarrito e alla ricerca della sua vera identità, sempre indecifrabile e sorprendente, mai suscettibile di essere rinchiuso in determinati e definitivi orizzonti di senso, per cui non c’è mai alcun valore e alcuna pratica spirituale di vita pure in apparenza ineccepibili e virtuosi che possano essere idolatrati, ci si sente tentati  di scambiarlo con qualche bizzarro e immaginifico intellettuale vagamente cattolico che venga esercitandosi nella retorica arte di raffigurare l’infinita sapienza divina come principio e fonte di creativo disorientamento conoscitivo, etico e spirituale, più che come garanzia di stabile ed eterna veridicità di chiari e inderogabili comandamenti sovrannaturali8.

Ma, in realtà, l’autore di un siffatto cristianesimo retorico e letterario, secondo cui tutta la vita e la storia in cui i credenti sono chiamati a testimoniare la loro fede sarebbero letteralmente dominati dalla suspence, dall’incertezza, dall’instabilità, dalla relatività più precaria, nonché da esodi senza mete sicure e obiettivi definitivi, è proprio papa Francesco, il successore nominale o istituzionale di quel Pietro, che, nelle parole di Cristo, avrebbe costituito il fondamento roccioso e indistruttibile delle sue inequivocabili, immutabili e perenni promesse soteriologiche ed escatologiche.

Un cristianesimo sempre a rimorchio e in balìa delle vorticose correnti del mondo e della storia umana, sempre funzionale a processi di adattamento a qualunque tipo di emergenza del processo storico di sviluppo e non anche di trasformazione e modellamento spirituali delle forme date di prassi morale e religiosa tanto personale che comunitaria e sociale, sempre aperto alle novità, quali che siano e indipendentemente dalla loro qualità, dove il futuro di Dio venga configurandosi sempre e solo come qualcosa di indecifrabile, enigmatico e oscuro, come qualcosa di indeterminabile e di genericamente possibile più che come qualcosa di sicuro e irreversibile, come qualcosa di informe, di caotico, di fluido, piuttosto che come qualcosa che, pure nel quadro di una realtà molto complessa e problematica, veicoli un piano ordinato di certezze spirituali e di valori inalterabili e permanenti, un cristianesimo di questa natura rischia di delegittimare continuamente la Rivelazione che Gesù volle porre a disposizione del genere umano proprio per consentire ad esso di orientarsi sempre fiduciosamente nel marasma storico ed esistenziale del suo cammino..

Si può anche sostenere che «il futuro non è la combinatoria delle nostre attese e delle nostre aspettative. Sarebbe un abbaglio far risiedere la speranza nella pura proiezione combinatoria dei nostri desideri. La speranza è il non ancora conosciuto, che è capace di sorprenderci, traboccante. Il motore della speranza è, in definitiva, il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta»9, ma non sarebbe altrettanto opportuno precisare che il futuro, nella prospettiva cristiana, può essere non solo l’inatteso e il sorprendente ma anche la tragica fine di ogni possibile attesa e di ogni aspettativa di senso, di liberazione, di vita, proprio per evitare che la fede, sotto il costante e asfissiante condizionamento di una realtà perennemente nebulosa e non decodificabile, finisca per restare completamente orfana di verità?

Non bisognerebbe anche esortare responsabilmente, in virtù di una santa vocazione sacerdotale universale o ministeriale, a disciplinare pensieri, sentimenti e azioni e a preparare tanto il futuro che la speranza, per non rischiare di rimanere travolti, e non semplicemente di essere scossi e incentivati, da un futuro permesso da Dio ma a lui non gradito, e di trovarsi disperatamente a corto di qualsiasi speranza? Ma, soprattutto, come si può non avvertire la necessità evangelica, teologica, sacramentale di affermare che la speranza cristiana nasce essenzialmente dalla fede nella misericordia di Dio, più che dal timore di non ricevere ciò che si attende, e quindi dal dubbio, dall’incertezza, dalla precarietà inquieta, nasce cioè dalla certezza che Dio non mi negherà la sua misericordia se io avrò fatto del mio meglio, mi sarò impegnato al meglio delle mie possibilità e delle mie forze, per rispettare e onorare la sua giustizia, per guadagnarmi il suo perdono e il suo aiuto già in questa vita e il suo eterno sorriso in quella futura?

C’è un’antica preghiera cattolica, più chiara e significativa di certe dissertazioni filosofiche e teologiche, peraltro di dubbio e solo presunto valore teorico, che sarebbe tempo di riportare in vigore nelle nostre chiese e che recita così: «Mio Dio, spero dalla tua bontà, per le tue promesse e per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Signore, che io possa goderti in eterno». Questa preghiera si chiama appunto atto di speranza. Tale atto, che può contenere un moderato o contenuto elemento di ansia desiderante, di trepidante attesa, non può nascere da paura, da timore istintivo come sono quelli che incute invece, per evidenti motivi biologici, la malvagia violenza o la morte. Paura o timore può darsi propriamente solo se è traballante la nostra fede negli insegnamenti di Cristo, anche al di là dei nostri errori e peccati ricorrenti per superare i quali vanno sempre sinceramente richieste le necessarie grazie divine, solo se incerta e precaria è la nostra fede nelle verità e nelle promesse da lui proclamate.

La fede timorosa è una fede che coesisterebbe contraddittoriamente con la fiducia incondizionata che bisogna invece riporre nelle promesse evangeliche di ottenere, a determinate condizioni, la vita eterna. La fede implica invece il timor di Dio, che è altra cosa dai sentimenti un po’ infantili di paura o timore di cui sopra, e che comporta il dover prendere responsabilmente sul serio Dio, la sua legge, i suoi precetti, le sue promesse e le sue minacce, per non dover poi temere di non ottenere i beni eterni a causa della nostra superficialità o della nostra tiepidezza spirituale. Aver timor di Dio obbliga innanzitutto ad adottare un linguaggio di fede chiaro, semplice, univoco e inequivoco anche se profondo e ispirato, non troppo costruito, talvolta troppo generico e ambiguo e non di rado allineato con posizioni progressiste o largamente prevalenti nella cultura contemporanea, come quando si parli della donna sempre come angelo e mai come demonio, come risorsa preziosa e insostituibile e mai come risorsa mancante o inadeguata dell’umanità, oppure dei migranti che sarebbero da accogliere e integrare incondizionatamente dovunque capiti loro di approdare oppure di tutti i poveri e gli oppressi del mondo che sarebbero esclusivamente vittime delle logiche imperialistiche occidentali e di un sistema capitalistico internazionale basato su sfruttamento e profitto illimitato, o ancora della paritarietà di tutte le religioni esistenti in quanto ognuna di esse esprimerebbe una porzione o un frammento di verità, e poi del popolo di Dio concepito come una realtà unica, indistinta e indifferenziata, quasi che in esso non si trovassero e non agissero anche possibili o reali nemici del popolo di Dio.

Troppo spesso nelle parole del papa si tende ad omettere che la salvezza non risiede né negli sfruttati, né nei poveri, né negli oppressi e nei perseguitati in quanto tali, ma solo in quanto tutte queste categorie di persone affidino a Dio le loro sofferenze come le loro speranze e a lui si convertano con semplicità ma anche con convinzione. E poi ancora quelle espressioni, forse suggestive ma anche non abbastanza meditate, come per esempio “Chiesa in uscita”, “Chiesa come ospedale da campo”, “guerra mondiale a pezzi”, di cui ormai abbonda il lessico pontificio, non aiutano probabilmente a veicolare in modo corretto e rispettoso il messaggio evangelico, dal momento che la Chiesa deve certo uscire dal chiuso dei suoi edifici e delle sue abitudini stanziali di tipo meticolosamente identitario ma a condizione che poi, ogni volta che esce, si ricordi di dover far ritorno nella sua comunità di origine, tra i suoi banchi di preghiera e di orazione, tra i suoi riti liturgici ed eucaristici, tra usi e costumi spirituali e religiosi che siano perfetta espressione di identità evangelica, cristiana e cattolica di fede; dal momento che anche una Chiesa che si preoccupi giustamente di operare in mare aperto dove ci siano tanti naufraghi da salvare o in campo aperto, dove spesso si tratta di moderare conflitti o controversie, di pacificare i cuori affranti e disperati di fratelli e sorelle in balìa di problematiche esistenziali apparentemente insolubili, o anche di mediare tra Stati, popoli ed eserciti contrapposti al fine di scongiurare esiti esiziali per tutti, poi si dovrebbe porre il problema di responsabilizzare non solo coloro che sono chiamati o preposti a salvare ma anche, con pari forza morale, coloro che vengono salvati e devono essere salvati nei limiti del possibile ma che avrebbero potuto o potrebbero evitare di trovarsi nella condizione di essere salvati tra mille difficoltà se si fossero astenuti o si astenessero dal compiere scelte talvolta avventate, pericolose, virtualmente o realmente letali.

Non è ragionevole, né responsabile, infatti, pensare che solo per necessità o disperazione ci si debba esporre a situazioni di grave pericolo per sé e per gli altri, e dunque l’ospedale ecclesiale da campo dovrebbe agire anche nel senso di educare le coscienze di tutti a non affrontare incautamente, pretenziosamente, irresponsabilmente la vita e i pericoli che essa contiene puntando sempre sulla buona sorte e sul fatto che ci sia sempre qualcuno pronto a salvare altri. La disperazione non giustifica la voglia spasmodica di cambiar vita a tutti i costi e anche a costo di rimetterci, piuttosto che di salvare, la vita stessa.    

Infine, il compito principale della Chiesa ospedaliera da campo, ancor più che nella disponibilità a guarire le ferite del corpo e a salvare la vita in questo mondo, dovrebbe consistere nella disponibilità a guarire le ferite spesso autoinflitte dell’anima e a salvare la vita, nel nome e con l’aiuto di Cristo, per l’eternità. E, d’altra parte, se tanto i migranti quanto i naufraghi di ogni genere sono cristianamente da aiutare, soccorrere e salvare, perché un popolo oppresso e aggredito ferocemente dal nemico, un popolo che rischia di fare naufragio e inabissarsi per sempre nel tempestoso mare della storia, non dovrebbe essere soccorso adeguatamente da cristiani e cattolici, per esempio con armi potenti ed efficaci, non dovrebbe essere aiutato a salvarsi da invasati e spietati nemici?

A che serve evocare continuamente il rischio di una guerra nucleare se qui ed ora un intero popolo verrà letteralmente schiacciato e soppresso senza che anche i cristiani si diano da fare, non a chiacchiere, giusto il chiacchiericcio costantemente vituperato dal papa, non a colpi di imbelle e vile pacifismo, ma con il coraggio di chi è pronto anche a morire, nel nome e per conto di Cristo per i propri amici, ovvero per i fratelli fatti ingiustamente oggetto di ingiustificata e genocida violenza fisica e morale? Peraltro, non è affatto certo che il papa gradisca un’opposizione militare ucraina eventualmente vittoriosa nei confronti della Russia di Putin, mentre è più certo che, se l’Ucraina uscisse inesorabilmente e pesantemente conflitta dal conflitto in atto, i cattolici, con buone o cattive ragioni incrollabilmente papisti, non farebbero altro che versare lacrime di coccodrillo a fiumi sul “martoriato popolo ucraino” e ad offrire ogni genere di aiuti ad un popolo ormai defunto!

La Parola di Dio e di Cristo, non la coscienza soggettiva della persona, non la complessità della realtà storico-mondana, non la totalità diversificata del genere umano, non la struttura relativistica della ricerca umana della verità, è il vero fondamento della fede e della stessa dottrina cattolica. Su questo, come su altri punti non negoziabili della fede, la Chiesa non può essere né debole, né flessibile, né soft, ma deve essere assolutamente rigorosa, rigida, intransigente10. Peraltro, altro punto controverso del pontificato bergogliano, è che la Chiesa non dovrebbe interferire nei provvedimenti legislativi, nelle misure economiche e sociali di competenza statuale, nelle decisioni che gli Stati e i relativi governi vengano adottando per garantire anche la difesa dei propri confini e del proprio territorio, ivi comprese le proprie acque territoriali, la sicurezza pubblica e sanitaria dei propri cittadini. Non può e non deve interferire secondo lo stesso dettato evangelico che distingue nettamente tra Cesare e Dio, anche perché non è detto che i governanti degli Stati debbano essere necessariamente più disumani e meno responsabili del papa cattolico, a meno che quei provvedimenti, quei decreti, quelle disposizioni non si rivelino manifestamente e inequivocabilmente contrarie ai precetti divini: sull’aborto di Stato, per esempio, la Chiesa deve intervenire, e deve intervenire in modo altrettanto vigoroso sul divorzio tra coniugi che abbiano contratto nozze in modo assolutamente legittimo e consensuale, sulle pratiche eutanasiche, sulla legittimazione giuridica di unioni e pratiche omosessuali o transessuali, sulla liberalizzazione delle droghe, e insomma su temi molto delicati e strettamente inerenti un ordine intangibile di disposizioni divine.

In questo senso, appare altresì risibile un’affermazione apologetica dell’ideologo ecclesiastico Spadaro: «sin dall’apparizione nella Loggia delle Benedizioni, Francesco non ha mai indossato nulla di rosso, il colore proprio del potere temporale, del pontefice erede dell’imperatore romano. Una scelta che rompe simbolicamente quel legame tra politica e religione»11. Ma, come, se non ha fatto altro che ricevere con grande disinvoltura e sorrisi spesso sfavillanti tutti i potenti capi di Stato, e di qualunque tendenza politica, che si sono recati in Vaticano, e non ha mai perso occasione per dire la sua in tutti i grandi consessi internazionali del mondo, mostrandosi altresì ben disposto ad accogliere a suo tempo l’invito del governo italiano a sanificare le chiese anche col perentorio divieto di somministrare l’ostia eucaristica direttamente in bocca per evitare pericolosi contagi del famigerato virus noto come covid19!  

Per tutto questo, che però non è tutto quel che si potrebbe elencare, penso che quello attuale sia uno dei pontificati più ideologici e sconcertanti della storia della Chiesa. Lo dico non per perfido gusto polemico ma solo per doveroso amore di verità e per obbligo di testimonianza religiosa. Peraltro, com’è noto, il gesuitismo ha sempre rappresentato una delle correnti ideologiche sotterranee più insidiose del cattolicesimo, benché non siano mai mancati nella Compagnia di Gesù uomini dotati di grande valore intellettuale e spirituale e di spiccato sensus fidei e sensus Ecclesiae. In Bergoglio, tuttavia, non di rado è sembrato che tornasse ad esercitare la sua nefasta influenza il celebre e sventurato gesuita contemporaneo Karl Rahner, enunciatore di un “cristianesimo anonimo”, di un “cristianesimo senza Cristo”, che, durante il Concilio Vaticano II, era arrivato al punto di affermare: «“Nostro Signore deve conformarsi al mondo, non quest’ultimo a Lui!”. Il suo “cristianesimo anonimo” decretò che “chiunque segue la propria coscienza, cristiano o non cristiano, ateo o credente, ebbene tale persona è accettata da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiano-cattolica noi confessiamo come fine di tutti gli uomini”»12. Sempre di Rahner è quell’«inclusivismo relativistico», che è tratto costitutivo del magistero eterodosso bergogliano:  «L’amore per il “diverso” arriva a escludere il prossimo, anche se profondamente credente, per includere il distante, anche se assolutamente miscredente … L’umanità è destinata a ricevere, a suo tempo, per mezzo della Grazia, la divinizzazione promessa, ma il gesuitismo sottrae all’uomo l’esperienza fondamentale della Croce, abolendo la conversione al Cristo Crocifisso, morto e risorto. Il povero viene usato per “divinizzare” l’uomo, senza pensare che anche il povero, come disse Madre Teresa di Calcutta, deve convertirsi a Cristo. La pastorale, com’è d’uso nel gesuitismo, sostituisce la dottrina e chi non accetta questo “dogma” pecca contro la misericordia»13.

Ecco da dove viene Bergoglio, ma c’è di più, nel senso che egli non è solo infedele allo statuto cattolico, ma fu infedele persino allo stesso statuto gesuita, secondo il quale, per esplicita volontà di Ignazio di Loyola, nessun gesuita avrebbe dovuto accettare cariche ecclesiastiche e potuto diventare cardinale o addirittura papa, se non per un atto di obbedienza ingiuntivamente richiesto da un superiore gerarchico, che non sarebbe certo stato il caso di Bergoglio. Bergoglio è indisciplinato e infedele per indole, non certo per motivi contingenti, e non si possono che sottoscrivere le seguenti amare parole: «L’aneddotica sul gesuitismo potrebbe proseguire, ma si è compreso che le missioni moderne della Compagnia (“muoversi alla luce dei tempi”, per il “progresso delle anime”, nel “rapporto fecondo con le altre culture”, eccetera) ha spinto la stessa alla ricerca compulsiva di un’arbitraria creatività. Ciò ha determinato una dicotomia tra l’origine del messaggio evangelico e i desiderata di un Ordine che, avendo di fatto ordinato la cessione di fette di sovranità cattolica a favore di teorie filosofiche e religiose endogene, è uscito dal perimetro dell’ortodossia, cadendo negli orridi dell’apostasia»14.

 Purtroppo, le ideologie muoiono ma rinascono e ricompaiano sempre nelle forme più inattese e sorprendenti e, circa quarant’anni or sono, c’era chi molto opportunamente avvertiva circa l’illusorietà della morte delle ideologie15 e sosteneva che non ci fosse niente di più ideologico della pretesa che le ideologie possano avere una fine. Ormai, persino la proclamazione reiterata degli universali diritti dell’uomo e del cittadino, degli immortali princìpi di libertà, uguaglianza e democrazia, dei sacri valori della fede, rischiano continue e variegate derive ideologiche. Sia per poter sperare di fare umile e combattivo esercizio critico di razionalità e moralità, sia per preservare la fede, e la propria fede, da sempre possibili usi ideologici, occorre implorare il Signore, fino all’ultimo giorno di vita, di voler elargire la sua necessaria e benedicente illuminazione.

Anche il cristiano è uno che prende posizione e parteggia per quella che ritiene essere la verità tendenziale, la giustizia più eminente, il bene superiore del singolo e del genere umano, ma non in quanto ideologo, bensì in quanto partigiano della fede annunciata da Cristo e non manipolata e alterata da uomini a lui infedeli, solo in quanto apostolo laico o ministeriale militante della immutabile salvifica Parola di Dio, solo essendo consapevole che altro è il necessario lavoro di esegetico ed ermeneutico lavoro di approfondimento dei sacri testi e di continua enucleazione dei sensi profondi e inesauribili dell’annuncio evangelico, altro l’arbitraria tendenza speculativa a manomettere la Parola per adattarla o renderla funzionale in modo fraudolento alle mode e alle voglie transitorie e fallaci del tempo; solo dopo aver cercato, infine, sempre daccapo, di conoscere nel modo più compiuto e oggettivo possibile l’intero, il mondo storico-sociale e culturale, la totalità, pur frammentata, della complessa realtà esistenziale e spirituale di cui ognuno di noi è, in modi e misure diversi, parte e testimone16.

Papa Francesco è un papa non solo impropriamente autoreferenziale, ma anche inquietante, un papa divisivo, benché di per sé l’essere divisivi non sia affatto scandaloso, perché ogni cristiano, non solo il papa, sarebbe tenuto a turbare le menti, a scuotere le coscienze rispetto alle certezze precostituite che vi sono radicate, ogni battezzato in Cristo dovrebbe fungere da strumento di conversione a princìpi di verità e giustizia: Gesù stesso dice chiaramente di non essere venuto per portare pace, concordia, unità indiscriminata, ma per portare divisione, conflitto, anche unità certo ma non incondizionata, bensì condizionata, selettiva, qualitativa. Gesù sapeva che le sue parole, finalizzate ad una profonda e radicale trasformazione interiore degli uomini, avrebbero incontrato opposizione, resistenza, reazione in un mondo basato su logiche egoistiche e materialistiche, di avidità e possesso, di dominio e supremazia, di vanità e rivalità, e sapeva che esse avrebbero costretto chiunque, persino i suoi stessi seguaci, a scelte difficili, impegnative, oltre che virtuose e coraggiose, ad una lotta permanente contro il male interno a noi e fuori di noi. Anche Gesù, quindi, era inquietante, non qualunquisticamente rassicurante, e non poteva essere che divisivo, conflittuale rispetto ai modi ordinari, stereotipati, in cui generalmente gli esseri umani erano soliti ragionare e agire nei loro rapporti interpersonali e all’interno delle loro comunità sociali o religiose di appartenenza, anche Gesù era percepito come divisivo e conflittuale per mancanza di conoscenza delle vere e originarie leggi della vita umana e per la difficoltà ad accettare tali leggi a causa della loro carica destabilizzante che tendeva a mettere in crisi e a fare piazza pulita di meccanismi intellettivi e modelli comportamentali ampiamente consolidati e sperimentati ma completamente sterili e improduttivi.

Francesco, invece, che non ha facoltà di parlare, predicare a titolo personale e solo sulla base di un rispetto formale e istituzionale del divino Maestro,  risulta sgradevole, inquietante, divisivo e quant’altro, e non certo nei confronti dei tanti propugnatori di dottrine secolari partorite da spiriti e scuole prettamente umane e pagane, solo nel senso che coloro che dispongono di una severa formazione evangelica si aspetterebbero, per quanto a loro volta peccatori, di sentirgli evocare, se non ripetere pedissequamente, parole, concetti, idee, valori, spiritualmente vicini a quelli enunciati da Cristo, e quindi eversivi o rivoluzionari non rispetto a posizioni teologiche ribadite nei secoli, ad insegnamenti largamente acquisiti nel quadro di una bimillenaria tradizione ecclesiale e magisteriale di riflessione e di pratica spirituale, e a valori contemplativi e penitenziali di assoluto valore civile e religioso, ma rispetto ad aspettative utilitaristiche, umanitarie e sentimentalistiche, a pratiche attivistiche di tipo più filantropico che evangelico, a prospettive populistiche o meramente culturalistiche di ascendenza pagana. Se Cristo fu divisivo nel nome e per conto della Parola di Dio, Bergoglio lo è solo nel nome e per conto di un logos umano che utilizza la Parola di Dio solo per svuotarla del suo specifico ed eterno valore salvifico.

Francesco, più che rivoluzionario nel nome del cristianesimo cattolico, è, forse a sua insaputa, un reazionario nel nome di un antico, ancestrale rifiuto antropologico della assoluta centralità della legge e della volontà di Dio creatore e unico salvatore nella vita degli uomini. Non interessa sapere come e perché, ma Francesco, completamente sprovvisto di spirito profetico, è custode non della pura fede delle origini bensì ideologo religioso di non eccelsa statura intellettuale tutte le volte che interpreta contenuti e simboli della Rivelazione in funzione di una visione antropocentrica, moralistica e prassicentrica, difficilmente suscettibile di approdare ad una prospettiva escatologico-retributiva e alla dimensione trascendente e provvidenziale, ultramondana e sovrannaturale, della fede stessa17.

Francesco di Maria

NOTE

1 Omelia del 17 ottobre 2013

2 In realtà, non la rassegnazione e la sfiducia ma la resistenza e la lotta caratterizzano fino in fondo l’esperienza religiosa di fede di Giobbe: M. Recalcati, Il grido di Giobbe, Torino, Einaudi, 2021; D. Barsotti, Meditazione sul libro di Giobbe, Brescia, Queriniana, 2001.

3 Udienza Generale del 22 febbraio 2023.

4 A. De Lisa, Gli idéologues e l’illuminismo francese, in “Storiografia.me”, 29 aprile 2013.

5 Carlos Miramontes Seijas, Ideologia e fede, in sintesi della relativa Tavola Rotonda tenuta presso l’Accademia Alfonsiana di Roma, in data 25 febbraio 2019.

6 Udienza Generale del 18 aprile 2017.

7 Su questo movimento cattolico statunitense di pensiero, sulla sua evoluzione in chiave teopopulistica, dove per teopopulismo si intende un misto di tradizionalismo nazionale e identitarismo etnico-popolare su base teologica e religiosa, e sulla successiva reazione anticapitalistica e antinazionalistica (anche se, a parer mio, altrettanto ideologica e populista in chiave non più nazionalista ma genericamente e confusamente internazionalista o, come qualcuno preferisce, ecumenica) del pontificato bergogliano, si possono confrontare con profitto i volumi di M. Borghesi, Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo», Milano, Jaca Book, 2021 e Il dissidio cattolico. La reazione a Papa Francesco, Milano, Jaca Book, 2022, nei quali emerge chiaramente uno scenario cattolico drammaticamente attraversato da contrapposizioni interne in cui troppo spesso il pur sottaciuto interesse ideologico soprattutto sul versante pontificio, e talvolta in modi inattesi e sorprendenti, tende a soverchiare di gran lunga il sentimento religioso, evangelico e cattolico del mondo, della vita e della Chiesa stessa.

8 Tutto questo si apprende e si evince dal molto ideologico resoconto-bilancio di A. Spadaro, Crisi e futuro della Chiesa, in “La Civiltà Cattolica” del 17 dicembre 2022, Quaderno 4140, vol. IV, pp. 521-536, anche lui gesuita come il papa.

9 Ivi.

10 Alludo polemicamente ad un altro significativo ma improvvido intervento di A. Spadaro, intervistato da Tommaso Rodano, I dieci anni di papa Francesco: “è l’unico leader globale”, in “Il Fatto Quotidiano”, 11 marzo 2023, dove anche l’uso della parola leader per qualificare la persona del papa non può non risultare sorprendente per un cristiano educato a pensare che il papa cattolico, più che un leader, dovrebbe essere il Servo dei servi di Cristo. Ma rilievi critici e obiezioni interessanti sul pontificato di Francesco, con accuse indirette di populismo pauperistico di stampo peronista, di moralismo, pacifismo astratto e ideologico, demagogia pastorale e falso pluralismo, autoritarismo teologico e relativismo camuffato, sono contenuti o riportati anche in un recente articolo: G. Formigoni, Ideologia, teologia e politica secondo papa Bergoglio, in “Il Mulino”, Rivista bimestrale di cultura e politica, n. 6/19, pp. 940-948.

11 Ivi.

12 R. Saletta,  Gesuitismo. Tarlo della Chiesa. Minaccia per popoli e culture, in “Etnie”, 31 dicembre 2019.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 T. Eagleton, Che cos’è l’ideologia, Milano, Il Saggiatore, 1993.

16 Cfr. C. Galli, Ideologia, Il Mulino, Bologna 2022, pp. 167.

17 G. Franco Svidercoschi, Un papa che divide? Le inevitabili contraddizioni di un pontificato rivoluzionario (Problemi aperti), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018; A. Tornielli-G. Valente, Il giorno del giudizio. Conflitti, guerre di potere, abusi e scandali. Cosa sta davvero succedendo nella Chiesa, Milano, Piemme, 2018; A. X. Da Silveira, Se un papa è eretico: che fare?, Roma, Fiducia, 2019; M. Colonna, Il papa dittatore, 2017.

 

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