Intellettuali italiani contemporanei. La scissione tra la mente e il cuore.

L’intellettuale critico, l’intellettuale controcorrente, non l’intellettuale cane da guardia del potere capitalistico, è realmente condannato ad identificarsi con la parte dominata della classe dominante, quella a cui deve risultare funzionale e vendere in pari tempo il proprio sapere, in quanto, in caso contrario, sarebbe fatto fuori, neutralizzato, non venendogli più consentito di produrre al fine di riprodurre la propria forza lavoro e di creare valore per la propria e altrui sussistenza? E’ difficile dare una risposta univoca a questa domanda, anche se, per esperienza personale, sarei tentato di rispondere che, in alcuni casi particolarmente fortunati, l’intellettuale a pieno titolo potrebbe anche sopravvivere all’ostracismo delle istituzioni accademiche, universitarie e scientifiche, e alla competitività selettiva spesso irrazionale del mercato.

L’intellettuale critico, lungi dal proporsi moralisticamente come cantore o teorico di questioni esclusivamente private, è anche l’intellettuale pubblico, che si interessa alle cose della società, alle cose di tutti, alla cosa comune o pubblica. Questo intellettuale si sforza sempre di essere partecipe dei fatti altrui, dei problemi della polis o della societas, perché consapevole che il destino di ognuno è strettamente connesso, pur non essendo completamente riducibile, al destino dei molti o dei più.

In questo senso, l’intellettuale è, in senso generale, un intellettuale politico che potrà scegliere, sulla base di motivazioni razionali ugualmente legittime, di sposare le posizioni e i valori di questo o quel gruppo politico, oppure di assolvere una funzione critica del tutto autonoma e solitaria ma non isolata nei confronti del complessivo sistema nazionale o internazionale di potere di una determinata fase dello sviluppo storico-sociale, anche se non è detto che questi due modi di concepire e impostare la lotta politico-culturale non possano o non debbano mai congiungersi nel quadro della complessa processualità storica degli eventi umani. Piero Gobetti, per esempio, giovane e coraggioso intellettuale come pochi altri sotto la dittatura fascista, fu un intellettuale interessato ad un’alleanza strategica tra un socialismo democratico-liberale e un liberalismo sensibile ai bisogni oggettivi di lavoratori e masse operaie, pur senza mai risultare organico né al partito comunista italiano, né allo stesso partito liberale che pure si confaceva maggiormente al suo temperamento e alla sua sensibilità etico-politica: fu liberale e socialista-liberale in senso ideale ma mai in termini di stabile e specifica appartenenza partitica.

Per lui non si dava una necessaria contrapposizione né tra liberalismo e socialismo, né tra liberalismo e quella democrazia che veniva profilandosi all’orizzonte già durante il primo conflitto mondiale, e temeva piuttosto che proprio la democrazia destinata a diventare un grande fenomeno di massa potesse essere facilmente raggirata, manipolata, strumentalizzata e quindi svuotata del suo vero e genuino significato emancipativo. Temeva, cioè, l’avvento dei contrapposti totalitarismi di massa, che si sarebbero in effetti presto manifestati sia come totalitarismo fascista, sia come totalitarismo comunista e stalinista.

  Ma, essendo lungimirante, da un certo punto di vista forse più di quel Gramsci che egli rispettava profondamente, Gobetti  intravedeva altresì, ormai prossimo ad affrontare il martirio, i segni premonitori di quel processo involutivo che avrebbe cominciato ad investire subito dopo la sua costituzione storica la stessa democrazia repubblicana italiana. Sapeva, infatti, che sussisteva il rischio di una democrazia apparente, non semplicemente formale in quanto qualunque regime non può sussistere senza specifiche strutture formali, legali, giuridiche di potere, ma apparente ovvero finta, sempre contaminata dalla propaganda e dalla demagogia, da ideologie populiste di diversa natura o sostanzialmente eversive, da una frattura tendenziale e costante tra élites di governo e masse popolari, tra lentezza e inefficienza dell’organismo parlamentare e soddisfacimento quanto più immediato ed efficace possibile di inderogabili istanze economico-sociali.

Gobetti, pertanto, riteneva che uno sviluppo adeguato dell’Italia avrebbe richiesto un ricambio continuo delle élites al potere (idea che avrebbe condiviso con Pareto, Mosca, Michels e lo stesso Gramsci), un avvicendamento periodico delle diverse élites o minoranze di governo elettoralmente prevalenti e chiamate ad amministrare la cosa pubblica, in modo tale che a beneficiarne fossero di volta in volta tutti i ceti sociali. Ma questo assunto presupponeva che ogni élite subentrante ad una precedente  fosse capace di una visione politica qualitativamente apprezzabile e competitiva, mentre troppo spesso sarebbe accaduto e continua ad accadere che le élites dominanti ai giorni nostri siano del tutto prive di visione politica e non legittimate tanto dal consenso democratico quanto da invisibili gruppi di potere capaci di veicolare e affermare tra la gente le loro verità e i loro piani e di incidere sulle scelte di molti, che in tal modo non potranno che assistere verosimilmente ad un clamoroso fallimento delle loro aspettative.

Il nostro è un tempo in cui non si intravedono ancora, sotto la pressione sempre più stringente di un globalismo capitalista e finanziario di cui lo stesso comunismo tecnocratico cinese è ormai parte integrante, élites capaci di egemonizzare lo spazio politico, culturale e sociale, e quindi di prevalere su altre nettamente per la superiorità della propria strategia complessiva di riforma intellettuale e morale dell’intero corpo sociale e per una politica “educativa” di governo volta a rifondare o riorientare gradualmente ma democraticamente, in un mondo che non conosce sosta ed è invece soggetto a rapidi e vorticosi cambiamenti, le strutture portanti, con relative sovrastrutture giuridiche e culturali, dello specifico assetto statuale di riferimento.

Non è dato sapere quale sarebbe oggi il giudizio di Gobetti su un mondo dominato da una finanza e da una tecnocrazia apparentemente impersonali e del tutto indifferenti a vincoli valoriali e normativi di qualsivoglia natura, ma è molto probabile che egli non vedrebbe più il comunismo (russo-cinese) come compimento del liberalismo occidentale, né ritroverebbe nel liberalismo improvvisato, inautentico, di facciata e volgarmente utilitaristico e parassitario del nostro tempo, un indirizzo ancora riformabile di pensiero e funzionale all’avvento di una società più libera e giusta. 

Ma Gobetti non era organico né ad un partito, né ad un’ideologia, fosse pure quella liberale, di cui coltivava il complessivo spirito emancipativo più che specifici indirizzi o filoni teorici ed ideologici, né ad una Chiesa, anche se questa sua disorganicità ideale non gli impediva di stimare profondamente un comunista etico come Gramsci oppure un cattolico laico come don Sturzo: anzi la sua libertà intellettuale era così ampia e profonda da essere molto facilitato nel riconoscere in spiriti di orientamento diverso dal suo delle qualità umane, intellettuali, etiche e politiche così pregevoli da renderli meritevoli stima, frequentazione e persino di sincera valorizzazione. Quella gobettiana era una tipologia intellettuale molto atipica anche per tempi in cui gli intellettuali, soprattutto quelli di area per così dire umanistica, non erano ancora così carichi di quell’ingiustificata saccenteria, di quella  vanitosa autoreferenzialità e ostentata supponenza, di quella grottesca sussiegosità talvolta esibita anche nei confronti di interlocutori reali o virtuali molto più colti e preparati, che tendono a caratterizzare la personalità della stragrande maggioranza di intellettuali oggi selezionati e reclutati nelle università, benché non di rado mediocri, anche se è pur sempre da precisare che, tranne rarissime eccezioni, la minoranza di tale maggioranza non è affetta dalla stessa sindrome non perché da essa deliberatamente indenne ma semplicemente a causa di una pochezza intellettuale così appariscente e imbarazzante da non consigliare improvvide iniziative di tipo esibizionistico.

D’altra parte, Gobetti che non fu né un intellettuale di regime in senso lato, cioè una specie di burocrate o funzionario di stato della conoscenza e del sapere, che è una figura di intellettuale ben ricorrente anche negli stati contemporanei, tanto occidentali che comunisti, né un intellettuale militante nel duplice, possibile senso dell’appartenenza o non appartenenza a particolari formazioni o gruppi politici istituzionali o non istituzionali, fu invece di certo intellettuale militante nel senso di un’attività critica antidogmatica che non si fermava davanti ad un determinato credo ideologico e politico; anche i fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati da sicari fascisti, sono senza dubbio da includere nell’area degli intellettuali militanti, e lo stesso Piero Martinetti può essere considerato, a giusta ragione, intellettuale militante anche se militante, ove se ne consenta la distinzione, più sul piano etico che su quello politico. Anche altri lo furono ma, beninteso, non sarebbero stati molti gli intellettuali italiani capaci di nobilitare la loro militanza intellettuale sotto il fascismo e, d’altra parte, anche nella fase postfascista, nella matura democrazia repubblicana come nell’attuale e decadente fase della democrazia italiana, a ben vedere si potrebbe sostenere che gli intellettuali militanti, se vi sono stati e vi sono, siano in realtà latitanti.

Ma qui, proprio sulla condotta degli intellettuali sotto il fascismo, è opportuno aprire, nonostante io sia sempre stato e sia un severo critico dell’ebraismo che si identifica con il sionismo militaristico dell’odierno Israele, una parentesi, dolorosa ma necessaria, perché in realtà, come scriveva diversi anni or sono, Pierluigi Battista, «nel ’38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime», ma proprio per questo, bisognerebbe aggiungere, oltremodo significative e preziose. «Gli ebrei vennero lasciati soli … Vittorio Foa che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo … e scrisse: “Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza”» (I silenzi di un paese intero, in “Corriere della Sera” del 17 dicembre 2008). Senatori come Croce, De Nicola, Albertini, Frassati, avrebbero disertato la seduta parlamentare del 20 dicembre 1938 consentendo alle leggi antisemite di essere approvate senza alcuna opposizione, anche se, per quanto riguarda Croce, egli si sarebbe successivamente opposto alla persecuzione antiebraica con audace e ammirevole sarcasmo.

Viceversa, «i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abbagnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d’Entrèves e i Giuseppe Siri (e centinaia di loro, illustri come loro)» risposero entusiasticamente al censimento governativo sugli ebrei presenti nelle università italiane aggiungendo addirittura spontanee «dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti contenuti nella scheda» (Ivi). Alcuni cattolici illustri, come Luigi Einaudi e Ugo Ojetti, non si sarebbero creati alcun problema nel partecipare attivamente alla campagna fascista antiebraica proprio nel nome della loro fede cattolica.

Ma, anche al di là degli eventi relativi alla mancata presa di posizione di molti intellettuali italiani sulla erogazione delle leggi razziali antiebraiche, non si possono sottacere le posizioni di vile ambiguità o aperta condiscendenza alle disposizioni razzistiche dell’Italia fascista: quelle di Alberto Moravia, di Gabriele De Rosa, Giorgio Bocca, Carlo Tullio Argan. Si trattò insomma di un fenomeno di «viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell’Italia democratica» (Ivi). Ma anche un riconosciuto vate della libertà intellettuale, un gigante della cultura nazionale novecentesca come Norberto Bobbio non si sarebbe certo distinto, ormai sul finire del fascismo, per spirito di combattività e volontà di opposizione antifascista, visto che non avrebbe esitato, un po’ come Alberto Moravia, a chiedere personalmente a Mussolini di essere lasciato in pace nei suoi studi di filosofia del diritto dalla polizia politica anche in considerazione della sua fedeltà al credo fascista. In una lettera dell’8 luglio 1935, infatti, il filosofo torinese scriveva al duce tenendo ad informarlo di essere cresciuto «in un ambiente familiare patriottico e fascista», di aver partecipato attivamente durante gli anni universitari «alla vita e alle opere del GUF di Torino … sì da essere stato incaricato di tenere discorsi commemorativi della Marcia su Roma e della Vittoria agli studenti della scuole medie». D’altra parte, dopo aver conseguito la libera docenza, spiegava Bobbio, si dedicava «totalmente agli studi di filosofia del diritto» dai quali «trassi i fondamenti teorici per la fermezza delle mie opinioni politiche e per la maturità delle mie convinzioni fasciste». Bobbio concludeva la lettera mestamente dicendosi certo che «Ella nel suo elevato senso di giustizia voglia fare allontanare da me il peso di un’accusa … che contrasta con quel giuramento che io ho prestato con perfetta lealtà. Le esprimo il sentimento della mia devozione».

Chiunque conosca, anche solo per grandi linee il pensiero critico e l’orientamento liberale e democratico di questo insigne pensatore contemporaneo, rimane sbalordito e confuso dinanzi a questo Bobbio che si giustifica goffamente con il duce cercando di dimostrargli a più riprese la sua innocenza e la sua purezza etico-politiche, la sua buona fede e l’integrità della sua “coscienza fascista”. Certo, successivamente, ma solo nel 1992, quando la notizia di questa lettera molto compromettente cominciava a diventare di dominio pubblico, Bobbio se ne sarebbe scusato, definendola vergognosa e tipica di chi si lascia corrompere da una dittatura e pecca di ipocrisia, viltà e servilismo. Ma è probabile che, con questo formale o realmente sentito atto di pentimento, il filosofo abbia cercato soprattutto di salvare un’intera carriera, un’attività rigorosa e luminosa di studio, un prestigio conquistato non solo in Italia ma anche all’estero, la segreta speranza di poter rendere immortale il suo nome nella storia della cultura di tutti i tempi.

C’è tuttavia chi, come per esempio Eugenio Garin, avrebbe cercato di difenderlo, di giustificarlo con le difficoltà di pensare e vivere liberamente sotto una feroce dittatura, scagliandosi però significativamente e improvvidamente contro quei giornalisti che avevano avuto l’idea di pubblicare e render nota la lettera. Ma sulle stesse posizioni giustificazioniste di Garin si sarebbe posta poi una moltitudine di intellettuali: da Gaetano Arfè a Luciano Canfora, da Giovanni De Luna a Vittorio Foa, fino a coinvolgere in sostanza tutta l’intellettualità di sinistra (i vari Augias, Barbato, Bocca, Pansa, Vattimo), che si sarebbero tutti dichiarati attoniti e disgustati dalla pubblicazione di quella lettera mostrando un atteggiamento sdegnato ma ben sintomatico di un morbo ancestrale degli intellettuali di sinistra: la loro doppia morale, intransigente e severa verso i nemici, comprensiva, tollerante e persino magnanima e incoraggiante verso gli amici. Peraltro, anche questo episodio, questa corale solidarietà della sinistra italiana avrebbe finito per condizionare lo stesso Bobbio che, da quel momento in poi, si sarebbe mostrato particolarmente benevolo o sempre più benevolo verso l’area teorico-politica comunista, commettendo così un errore morale simmetrico a quello commesso poco meno di sessant’anni prima.

Il problema è che, sotto il profilo morale, Bobbio avrebbe dovuto avvertire il dovere di rendere spontaneamente pubblico il suo, diciamo così, infortunio semigiovanile, senza aspettare,  in modo magari angoscioso, che altri ne denunciassero limiti e ambiguità di carattere morale ed etico-politico. L’intellettuale è pur sempre un uomo e, come tale, può essere un eroe o un vigliacco, un maestro di umanità vissuta e praticata o  un lestofante che si riempie la bocca di belle parole e di valori elevati ma che risulta incapace di attenersi alle une e agli altri nel meno esaltante ambito del suo agire quotidiano. L’intellettuale non dimezzato ma integrale, non solo dotato di capacità critico-teoriche ma anche e soprattutto di qualità etiche e spirituali coerentemente esercitate nella vita pratica, è l’intellettuale di cui l’umanità ha realmente bisogno, anche se tutti coloro che ne riconoscono la superiorità rispetto ad altri modelli di intellettualità pur senza essere in grado di incarnarlo nella propria esistenza sono già sulla buona strada per diventare meritevoli di apprezzamento e di lode.

L’intellettuale può essere grande anche se la sua vita sia lastricata di errori e vicende disonorevoli, a condizione che egli li riconosca apertamente, senza minimizzare, senza giustificare o razionalizzare le proprie debolezze, colpe, mediocrità. Bobbio, che con il fascismo si sarebbe compromesso molto al di là della lettera qui in oggetto, come avrebbe dimostrato in modo inequivocabile anche l’intellettuale di destra Marcello Veneziani, e con Bobbio molti altri, di sinistra e di destra, non appartengono all’olimpo degli intellettuali integrali, degli intellettuali massimi, degli intellettuali organicamente funzionali al pensare e al vivere dei singoli e ad una vita associata lucidamente consapevole e coerentemente responsabile.

L’olimpo spetta ad un’altra famiglia di intellettuali: a quella di cui fanno parte i Gobetti e i Rosselli, i Matteotti e i Gramsci, i Martinetti e gli Eugenio Curiel, insieme ad un esercito di intellettuali ugualmente noti o meno noti o addirittura anonimi che avrebbero saputo onorare, con il loro martirio ovvero con la loro testimonianza di pensiero e di vita, l’intellettuale che pensa e che sente non per l’accademia ma per il genere umano, per un prossimo universale che ha bisogno di essere ascoltato, compreso ed aiutato a costruirsi un destino di verità e di libertà universali.

Ma quella di Bobbio e di tanti altri intellettuali di destra e di sinistra non meno incoerenti e censurabili di lui, corrisponde ad una realtà storica oggettiva, che non può certo suscitare ammirati consensi in chi solo oggi la apprenda. Altro è, tuttavia, il caso di quegli intellettuali cattolici che, forse responsabili di qualche omissione ma non di di chinare il capo dinanzi alle ingiunzioni dittatoriali di Mussolini e collaboratori di regime, avrebbero ricordato in quei drammatici frangenti, senza alcun intento apologetico e discriminatorio, l’automaledizione ebraica raccontata dal vangelo di Matteo 27, 25: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Da questo punto di vista, nessuna vergogna può essere attribuita ai cattolici semplicemente tenuti per fede a meditare continuamente sugli avvenimenti storici alla luce delle Scritture che, come dice Gesù, esprimono verità sempre antiche e sempre nuove ad un tempo. Anche perché la Chiesa istituzionale, tra Pio XI e Pio XII, avrebbe sempre dichiarato l’antisemitismo come “inammissibile”. Molti cattedratici ebrei, dopo la loro espulsione dalle università di appartenenza, sarebbero stati accolti o protetti da istituti religiosi cattolici, né va dimenticato che, in un discorso pubblico tenuto a Trieste nel settembre 1938, Mussolini avrebbe accusato papa Pio XI di difendere gli ebrei. Nonostante ciò, molti vescovi italiani avrebbero preso posizione pubblicamente contro il razzismo fascista. Né infine appare moralmente irrilevante il fatto che il clericofascista Egilberto Martire, che avrebbe inteso dedicare un fascicolo della rivista da lui diretta contro il razzismo e le leggi razziali da poco emanate contro gli ebrei, proprio per questo sarebbe stato condannato al confino.

Ciò detto e precisato, bisogna osservare, in sede conclusiva, che la storia degli intellettuali, in Italia e nel mondo, è stata ed è generalmente una storia oscillante tra impegno e disimpegno, com’è naturale che accada in una storia umana che ha alti e bassi, situazioni più o meno convulse, esperienze drammatiche più o meno coinvolgenti, dove peraltro tanto le forme di intellettualità impegnata quanto quelle di intellettualità evasiva, moralistica, critica-critica, e insomma disimpegnata, non sono sempre affini o omogenee, ma molto spesso eterogenee o addirittura antitetiche o antagonistiche. Ciò dipende dal fatto che tutti coloro che vengono esplicando la loro vocazione intellettuale usano i mezzi critici di cui dispongono, si assumono la responsabilità dei loro giudizi e delle loro scelte, quasi mai incontrastate, lineari o unilaterali, davanti alla loro comunità locale e/o nazionale e alla storia, e infine, per quanti credono, di fronte a Dio.

E’ tuttavia molto dubbio che, nel convulso e drammatico presente in cui viviamo, possa esercitare una reale ed efficace funzione critica l’intellettuale di fatto affetto da una sorta di dipendenza psicologica dalle tribune o dai salotti televisivi e non di rado dalla inconscia preoccupazione del grado di audience che riuscirà ad ottenere, l’intellettuale che si butta a capo fitto nell’arena televisiva attraverso una smodata e acritica partecipazione a dibattiti giornalistici non solo incentrati sempre sugli stessi argomenti ma così frequenti e ripetitivi da togliere ai cittadini telespettatori persino la facoltà di riflettere in modo autonomo su quel che si viene asserendo spesso con estrema disinvoltura e sottile furbizia demagogica e di farsi un’idea propria e sufficientemente onesta su temi nazionali ed internazionali di fondamentale importanza politico-economica, sociale ed etico-culturale.

Peraltro, aprioristicamente esclusa sia da tali dibattiti mediatici, sia dai quotidiani dibattiti promossi e organizzati nella società civile anche al di fuori di circuiti televisivi e mediatici, è la dimensione religiosa dei problemi affrontati, la quale viene ormai relegata, secondo una non scritta e tacita convenzione sociale ormai diventata prassi, nell’ambito del privato, quasi fosse stato universalmente accertata l’irrilevanza pubblica della religiosità, della fede e più specificamente della fede cristiana, ai fini di una interpretazione quanto più possibile rigorosa ed esaustiva degli stessi accadimenti storici e delle drammatiche contingenze di cui gli esseri umani di tutte le parti del mondo sono costretti a farsi carico.  In realtà, chi si assoggetta al mezzo televisivo è interessato a proporre un pensiero che appaia senza essere niente di preciso e di definito, un pensiero presenzialista e manipolatore, spesso umorale ed estemporaneo, un pensiero in gran parte aprioristico e preconcetto, perché non soggetto e anzi disinteressato al vaglio oggettivo e multiforme di masse e gruppi sociali non sempre o necessariamente incolti e irriflessivi anche se meno esercitati dei professionisti della parola nell’eloquio e nella retorica, e soprattutto alla eventuale controcritica di uomini e donne di pensiero marginali che, in forza di un acume critico che non consente semplificazioni o scorciatoie logico-argomentative, né sconti dialettici verso niente e nessuno, non abbiano timore di apparire intrattabili, impopolari e ostinatamente critici dello stesso circo mediatico che ha la funzione di annacquare e di rendere ovvie persino le poche e rare cose intelligenti e sensate che talvolta sfuggono ai suoi meccanismi costitutivi di controllo.

Francesco di Maria

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