I cattolici e il dovere fiscale

(Intervista di P. Nardini del 28 febbraio 2015 al Prof. Giovanni Franchi, docente di filosofia politica all’Università di Teramo, pubblicata nel sito “Conferazione Civiltà Cristiana”)

Questo del limite del dovere fiscale è un argomento da sviluppare al meglio per far tornare nei cattolici e nei cittadini onesti in genere la conoscenza e la consapevolezza di aspetti non più presenti nei discorsi, purtroppo quotidiani, circa l’incredibile pressione fiscale che caratterizza i nostri giorni.

Prof. Franchi, al giorno d’oggi il problema fiscale è molto pressante sui cittadini avendo raggiunto livelli molto alti. È un argomento molto sentito, ma si ha la sensazione che le persone non conoscano a fondo il problema dei limiti morali al dovere fiscale. Ci può fare una breve panoramica sullo stato attuale di reale conoscenza di questo limite e sulle motivazioni di questa mancanza di conoscenza?

images (2)Quello dei limiti del dovere fiscale è sempre stato un tema controverso nella vita degli ordinamenti pubblici e degli stati. Anche oggi che viviamo in un sistema politico rappresentativo i problemi legati alla determinazione di questi limiti non sono stati affatto risolti; azzardo anzi nell’affermare che il tema dei limiti del dovere fiscale è uno dei veri “punti oscuri” delle moderne democrazie. Per l’Italia, fa fede l’articolo 53 della Costituzione (dovere di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva e principio di progressività delle imposte) che si fonda sugli art. 2 (doveri di solidarietà) e 3 (rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana). In effetti, però, nulla si dice su quanto effettivamente i cittadini debbano dare allo stato dei propri beni, sul limite del dovere fiscale. Mentre negli antichi ordinamenti feudali e poi assolutistici i sudditi e i possidenti danno vita a forme di contrattazione col potere centrale in merito all’entità dei tributi da versare – va ricordato che l’embrione di un sistema rappresentativo, con la Magna Charta Libertatum (1215), nasce in Inghilterra proprio perché i baroni del Regno vogliono avere voce in capitolo sull’imposizione di nuove tasse da parte del sovrano -, un sistema democratico rappresentativo, come il nostro, può dare l’idea che ogni nuova imposta sia, in fondo, una forma di auto-imposizione! Ma se questa ignoranza in merito ai limiti del dovere fiscale nel mondo della cultura laica è in qualche modo comprensibile in un’ottica in cui il diritto è ridotto a mera legge positiva dello stato – sia questa la stessa Costituzione -, così non è, invece, in ambito cattolico: qui noi troviamo fin da subito una dottrina teologico-filosofica assai articolata, che risale alla predicazione di Nostro Signore e a s. Paolo. Ma oggi le gerarchie, i teologi e gran parte degli esponenti della cultura cattolica si limitano ad affermare che non pagare i tributi è un furto, secondo un’interpretazione che colloca il dovere fiscale nell’ambito del rispetto del settimo comandamento – una dottrina minoritaria nella tradizione -. I vescovi e le associazioni di cattolici vogliono educare i fedeli alla “legalità”, ad una legge che però non è né lex naturalis, nélex rivelata, ma mera legge dello stato, il cui contenuto non è evidentemente più considerato un problema. In pratica, la Chiesa si fa paladina della religione civile della modernità, e sembra essere diventata la ‘quinta colonna’ delle istituzioni pubbliche, simile ad una chiesa di stato protestante o a quella che prestò giuramento alla Repubblica francese e a Napoleone. E così addio alla libertas ecclesiae, per la quale si erano battuti i grandi papi e i santi del medioevo!

Nella storia si è sempre sentito parlare della decima che spettava alla Chiesa, ma pochi conoscono realmente come nella civiltà cristiana era impostata la politica fiscale. Può spiegare ai nostri lettori quali fossero le posizioni rispetto alla pressione fiscale nella teologia morale ed i suoi presupposti teologici e filosofico-sociali?

Il dovere della decima alla Chiesa ha un’origine addirittura vetero-testamentaria: Abramo versa la decima a Melchisedek, sacerdote dell’Altissimo e re di Salem, prefigurazione di Cristo. Oggi noi diamo allo stato più del 50 % dei nostri introiti: a Dio dunque si dava 1/5 di ciò che oggi si dà allo stato! Non è forse una violazione del primo comandamento? E c’è da dire che la Chiesa, se in passato pretendeva un vero e proprio tributo, è anche perché nei secoli ha sempre svolto compiti che oggi chiameremmo ‘sociali’ (si pensi all’attività ospedaliera, alle scuole, all’assistenza degli anziani, dei minori abbandonati ecc.), che poi, con l’età moderna, lo stato – anche con la forza – ha fatto suoi. Certamente la Chiesa cattolica, intesa come corpo mistico di Cristo – con il privilegio ad esempio dell’imprescrivibilità dei debiti fiscali nei suoi confronti –, è stata un modello per il nascente fisco delle monarchie nazionali, precedentemente invece legato alla singola persona del principe. Lo spiega bene Ernst Kantorowicz nel celebre studio I due corpi del re. Con l’età moderna, l’affermarsi delle monarchie assolute e la decadenza della teologia e della filosofia scolastica nel XVII secolo, il tema del dovere fiscale e dei suoi limiti è affrontato oramai soprattutto da un punto di vista di morale individuale, dagli autori dei trattati di teologia morale e images (90)non più dai teorici della politica. Per quasi due secoli, infatti, non c’è più un pensiero politico del cattolicesimo. I manuali dell’età della controriforma sono scritti per i confessori e si basano sul metodo della casistica. Il sacerdote deve sapere se colui che si sta confessando ha commesso peccato nel non aver pagato o nell’aver pagato solo in parte una determinata tassa. Di norma, il tema del dovere fiscale è trattato nell’ambito del quarto comandamento – non del settimo (non rubare) -, come dovere di onorare i principi, in analogia con l’atteggiamento che si deve tenere nei confronti dei genitori. S. Alfonso de’ Liguori, nel XVIII secolo, è il vertice di questa impostazione. Solo nella prima metà del XIX secolo inizia nuovamente un pensiero filosofico-sociale e filosofico-politico cattolico: prima con i cosiddetti ‘tradizionalisti’ (de Maistre, Donoso Cortès ecc.), poi, in modo più chiaro, con Antonio Rosmini, quindi con il recupero del pensiero di s. Tommaso d’Aquino. Con l’enciclica Aeterni Patris (1879) papa Leone XIII riporta in auge il pensiero del Dottore Comune in tutti i settori della cultura cattolica. Ciò favorisce anche la nascita di una dottrina sociale della Chiesa, che però non va in nessun caso interpretata solamente come una morale economica e del lavoro, ma – in un senso più ampio e profondo – come una nuova filosofia politica della Chiesa adeguata alle problematiche sorte con l’età contemporanea dal confronto con le ideologie liberali e socialiste.  Questa dottrina sociale dopo secoli dà di nuovo un fondamento al dovere fiscale – e ai suoi limiti – a partire da princìpi di etica politica elaborati filosoficamente. Anche i manuali di teologia morale si adeguano: spesso integrano gli insegnamenti di s. Alfonso con quelli di s. Tommaso: è il caso del celebre manuale del Tanquerey. La fondazione teologica e filosofica del dovere fiscale secondo questa impostazione trova nel corso del XX secolo una sistemazione nelle opere di veri e propri ‘classici’ dell’etica sociale cattolica (Messner, Nell-Breuning, Höffner, Utz), purtroppo in Italia poco o per nulla conosciuti; sopravvive fino a che nella Chiesa cattolica resta centrale l’opera di s. Tommaso e l’idea di diritto naturale, ossia grosso modo fino al Concilio Vaticano II (1962-65). Poi, con l’assimilazione della filosofia moderna e l’affermarsi di una cultura dei diritti dell’uomo, tutto cambia. La dottrina cattolica riguardante il dovere fiscale e i suoi limiti, nei secoli ha fatto riferimento principalmente a due fonti: Matteo, 22, 15-22, e Romani, 13, 1-7, che – più in generale – sono centrali in tutta la storia del cristianesimo per spiegare i rapporti tra religione e politica. Con l’affermazione réddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo il Divino Maestro ha posto una distinzione tra il piano della realizzazione dell’uomo in Dio e quello nella sfera civile, in questo mondo. Una tale distinzione non va però interpretata alla maniera liberale – come se i due ambiti fossero tra loro del tutto separati -. Ciò che si deve allo stato, ad esempio, non può andare contro ciò che si deve a Dio, anzi, dovrebbe avere un ruolo servente rispetto a Dio: questo sarà, vedremo, molto importante, proprio per stabilire i limiti non solo quantitativi dell’imposizione dei tributi. Inoltre, s. Paolo afferma non solo che “ogni potestà viene da Dio”, ma anche che l’autorità è sempre “ministra di Dio a scopo del bene”. L’Apostolo pone dunque le basi per una legittimazione divina delle istituzioni; allo stesso tempo però fonda il potere terreno sul diritto di natura che l’uomo può conoscere attraverso la sua coscienza. Tre sono quindi i presupposti teologici e filosofici del dovere fiscale in ambito cattolico: la distinzione tra i doveri verso l’imperium e quelli verso Dio e la sua ecclesia, il presupposto della libertà di coscienza e il fine del bene comune, ossia dello sviluppo dei mezzi comuni in vista del bene compiuto della persona, fino alla sua salvezza eterna.

Si sente spesso la lamentela che si pagano troppi tributi e, soprattutto, alcuni non giusti. Si ha però la sensazione che il cittadino che si lamenta dell’ingiustizia di una tassa attribuisca questa caratteristica (l’ingiustizia) solo al lato meramente economico, alla gravosità economica del tributo. Ci fa un panorama delle condizioni per cui possiamo ritenere giusto o meno un tributo?

Come dicevo, bisogna tenere presente che la dottrina cattolica del dovere fiscale trova di nuovo il suo pieno sviluppo tra otto e novecento. Prima, durante i regimi assolutistici, il dovere fiscale è avvertito spesso come un obbligo che non vincola la coscienza. Era un dovere mere penali, ossia: rispetto la legge che mi impone di pagare un’imposta o una tassa perché se non lo faccio vengo punito; se però riesco a non pagare un tributo, senza essere scoperto, non mi devo sentire in colpa. Ancora nel XX secolo molti teologi morali hanno sostenuto che soprattutto le imposte indirette (tasse, balzelli ecc.) non vincolano in coscienza, come ad esempio se io compro delle sigarette di contrabbando, sfuggendo così al monopolio di stato. Da un punto di vista sostanziale, questo è ciò che insegnano, però, i teorici moderni dello stato e della politica, da Hobbes fino a Kelsen, secondo i quali la norma si legittima sulla base della paura della sanzione! Con la riscoperta di s. Tommaso è chiaro che il dovere fiscale deriva da un obbligo di coscienza, perché si radica nel diritto di natura, ossia nell’idea che debba essere finalizzato al bene comune. Ciò significa, però, che ogni suddito o cittadino – almeno in linea di principio – è in grado di comprendere se un tributo sia  ‘giusto’ o meno (c. d. giustizia legale). In questo senso, un tributo è giusto o ingiusto non solamente in base alla sua entità, al ‘peso’ che grava sul cittadino o se è equamente distribuito, ma anche in base a chi lo istituisce e soprattutto, alle finalità per cui è stato istituito. I teologi morali elencano alcune condizioni generali affinché un tributo sia giusto. La dottrina cattolica è molto esigente in proposito. Basta che una di queste condizioni manchi, o ci sia anche solo il fondato sospetto che manchi, che il tributo è da considerare ingiusto e non deve essere pagato. Addirittura si commette peccato se lo si paga! La prima condizione è la legitima auctoritas: un tributo dev’essere pagato solo ad un’autorità legittima. Ma cosa rende legittima un’autorità secondo il pensiero cattolico? Non basta il fatto di essere rappresentativa in termini liberal-democratici: ciò che è decisivo non è la forma di stato, ma le finalità che l’autorità persegue, se queste sono indirizzate al bene umano e divino o meno. La seconda è la proportio tributi: il tributo, cioè, non deve chiedere ai cittadini più di quanto è necessario alla realizzazione del loro bene. Questa condizione si è enormemente sviluppata e – direi – complicata nello stato sociale novecentesco (welfare state), che ha ampliato enormemente il suo campo d’azione, fino a trasformarsi talvolta in un sistema gravosissimo per la cittadinanza, senza essere più in grado di assolvere in modo efficiente ai compiti che si era posto. Qui vale il limite di un principio di sussidiarietà rettamente inteso. C’è poi la condizione della aequalitas in personis. Questo è il campo della cosiddetta ‘giustizia distributiva’: quando un tributo è distribuito in modo ‘eguale’ tra cittadini? Si devono tenere presenti le differenti ricchezze dei cittadini per adeguare ad esse l’entità del tributo, tenendo però anche conto di quanto il tributo incide sull’insieme dei beni del cittadino; per questo la dottrina cattolica – p. Luigi Taparelli ne è un esempio – ha fatto suo il principio della progressività delle imposte, un principio che è stato recepito anche dalla nostra Costituzione. Il gesuita Noldin aggiunge un’ulteriore condizione, lo iustus modus: il tributo non deve essere percepito dai sudditi come eccessivamente images (91)gravoso. Infine, la iustitia causae: questo è un tema veramente scottante e oggi praticamente rimosso tra i cattolici: come si è detto, il tributo deve avere come fine il bene comune, che ha alla sua radice il bene umano cattolicamente inteso. Solo una concezione liberale e laicista – che rende incomunicabili vita religiosa e vita civile – può pensare che un cattolico sia tenuto a pagare delle imposte ad uno stato che finanzia una sanità che pratica aborti o eutanasia, una scuola pubblica che insegna dottrine anticristiane o uno stato sociale che riconosce e assiste coppie omosessuali.

Nel leggere queste sue risposte e nel comprendere meglio alcuni aspetti della questione, viene però spontaneo chiedersi quali siano i margini di miglioramento che porterebbe l’applicazione nell’attuale società dei criteri di politica fiscale indicati nella teologia morale.

La dottrina sociale e la filosofia politica della Chiesa cattolica non propongono un particolare modello istituzionale, valido in ogni tempo e luogo. Nei secoli e nei millenni la Chiesa ha avuto a che fare con imperi burocratizzati, dotati di sistemi giuridici altamente sviluppati, regni barbarici semitribali e sistemi feudali, realtà comunali di democrazia diretta, signorie, repubbliche aristocratiche, monarchie assolutistiche, regimi parlamentari, dittature ecc. Nostro Signore si è incarnato in questo mondo e si è sacrificato per inaugurare il Regno di Dio, che però non si compirà in questo mondo. Una “civiltà cristiana” non è uno stato ideale sul modello platonico, ma una società che ha come obiettivo quello di non ostacolare, anzi di favorire il compito della Chiesa di Cristo, che è quello di condurre gli uomini alla loro perfezione di vita e alla salvezza eterna. In questo senso, tutta la dottrina cattolica ha sempre sostenuto che le istituzioni pubbliche debbano svolgere un ruolo ‘ministeriale’ rispetto al ‘magistero’ della Chiesa. Ma i modi, le condizioni, le forme istituzionali, possono variare da un’epoca all’altra. Ciò che è fondamentale è che il bene umano naturale e sovrannaturale sia riconosciuto dall’autorità come il fine ultimo. Questo ‘bene’ è però possibile attraverso alcuni princìpi fondamentali che la dottrina ha elaborato nel corso della sua storia, anche grazie al fecondo rapporto con il pensiero e con le categorie della filosofia classica: la definizione della natura umana come orientata al bene e in sé libera; il principio di solidarietà, per il quale l’essere umano realizza se stesso solo in comunità. I principi di images (92)sussidiarietà e del bene comune, per i quali il bene umano va realizzato per prima cosa dalle comunità più vicine ad esso (famiglia, associazioni), e solo in ultima istanza dallo stato, quando le prime non sono in grado di realizzarlo. Tutta questa ampia digressione è necessaria per far capire che la dottrina cattolica del ‘dovere fiscale’ e dei suoi limiti si è sviluppata nei secoli perché la Chiesa si è sempre dovuta rapportare a ordinamenti pubblici storicamente condizionati, cioè imperfetti, che spesso tendono a ledere quelli che sono stati definiti i “diritti divini nell’ordine sociale”; anzi, addirittura, in casi estremi, gli ordinamenti politici tendono a sostituirsi ai doveri nei confronti del Creatore, e si autointerpretano come autorità ultime, come “chiese secolari”, come è successo con i sistemi totalitari statalisti del novecento e come continua a succedere con quelli umanitaristi ed ecumenisti dei nostri giorni. Non ci sono però soluzioni definitive, solo possibili miglioramenti. Punto di partenza per un miglioramento del sistema fiscale – per l’alleggerimento di una pressione fiscale avvertita, almeno in Italia, in modo diffuso oramai come insostenibile , sarebbe l’introduzione nel nostro ordinamento pubblico di un autentico principio di sussidiarietà – non quello falso, assistenzialistico, introdotto sul finire degli anni ’90 del secolo scorso con la riforma del Titolo V della Costituzione che ha contribuito ad aumentare enormemente la spesa pubblica -, che deve essere centrato sulla famiglie, sul rispetto della proprietà privata e sull’autosufficienza economica degli enti locali e autonomi che dovrebbero finanziare con beni propri non dico i servizi e le politiche economiche, ma almeno il loro funzionamento interno. E’ chiaro che questo non è più il campo di studio di una dottrina etico-sociale del dovere fiscale, ma riguarda una scienza dell’amministrazione, delle politiche economiche e dei servizi pubblici, ripensata interamente in chiave sussidiaria.

In che modo si potrebbe riversare questa dottrina sull’attuale sistema fiscale italiano?

Una lettura dell’attuale sistema fiscale italiano alla luce della tradizionale dottrina cattolica ci porterebbe in molti casi a delle gravi conclusioni: in effetti, su molti punti le leggi che impongono dei tributi si presentano come ingiuste. Anche a voler tralasciare il tema della legitima auctoritas – ci si potrebbe chiedere legittimamente se governi non direttamente voluti dal popolo italiano, come i governi Monti, Letta o Renzi, abbiano il diritto di incidere in modo così vistoso sui risparmi dei cittadini – non è possibile non soffermarci sul problema della proportio tributi: per mantenere in piedi un sistema welfarstico spesso inefficiente e farraginoso – si pensi al nostro sistema pensionistico -, e per pagare gli interessi sui debiti accumulati negli anni a seguito di una spesa pubblica irresponsabile, oggi lo stato – direttamente o attraverso l’ampia sfilza di enti locali – si rifà sul cittadino e lede chiaramente quel diritto di proprietà che Leone XIII riconosceva come un diritto naturale da tutelare, garanzia di autentica libertà; ma anche le imposte sulle attività imprenditoriali e commerciali sono diventate insostenibili, con la conseguenza che spesso l’imprenditore deve scegliere se evadere in parte il fisco o chiudere e licenziare così i suoi dipendenti. C’è poi la condizione della aequalitas in personis: dov’è la giustizia nel tassare gli immobili delle scuole cattoliche paritarie che svolgono un importante ruolo sussidiario – come di recente ha ricordato bene Giuseppe Rusconi nel suo saggio L’impegno (Rubbettino, 2013) – e non quelli di proprietà delle fondazioni bancarie?[1] Per quanto riguarda poi lo iustus modus, è sano un sistema fiscale che a causa dell’aumento delle imposte sulla casa costringe molti anziani a dover vendere l’immobile di proprietà nel quale vivono? Tutto ciò, però, ha un riflesso sulla iusta causa che ha a che fare con il bene comune di una società nei suoi molteplici aspetti: l’eccesso di imposte sulle attività imprenditoriali, industriali e agricole – di recente è stata introdotta l’IMU anche sui terreni agricoli –, lede chiaramente il bene economico-sociale di una nazione; anche l’aumento vertiginoso delle imposte sugli immobili rappresenta un danno per il mercato degli immobili e per l’imprenditoria edile. Le imposte sugli immobili delle scuole cattoliche portano all’aumento delle rette che fanno perdere studenti o chiudere l’istituto, con un danno in generale per il bene della formazione. C’è poi un danno nei confronti del bene storico-culturale, derivante dall’attuale sistema tributario, di cui si sa poco: l’IMU ha in buona parte rivisto il regime di favore che la vecchia ICI stabiliva per i beni immobili vincolati. Un proprietario che conserva a sue spese un castello o un palazzo, se è costretto a vendere, oggi lo fa probabilmente frazionando l’immobile, con un danno per il patrimonio storico-artistico di images (93)una località, che è anche un danno per il mercato turistico! Da ultimo, dall’attuale sistema fiscale deriva un danno collettivo che non è solo economico, ma strettamente morale, perché legato a quello che il teologo Santiago Ramirez chiama il ‘bene comune trascendente’ (Dio): un cattolico deve chiedersi con lucidità e coraggio se non sia immorale – come già dicevo – finanziare un sistema sanitario pubblico che permette l’aborto – e oggi sta per negare anche la possibilità dell’obiezione di coscienza per i medici antiabortisti -, o un sistema scolastico che indottrina i bambini con l’ideologia gender o un ordinamento pubblico che è in procinto di riconoscere le c.d. ‘unioni civili’ tra omosessuali; bisogna chiedersi se di fronte a tutte queste leggi chiaramente anticristiane non ricorrano gli estremi per una forma di disobbedienza fiscale organizzata.

[1] Per le forti pressioni mediatiche il governo Monti ha poi cambiato idea e ha incluso i beni delle fondazioni bancarie tra quelli da tassare.

Lascia un commento