Gli intellettuali e il problema della globalizzazione

La società globale è una società in cui le ideologie, ufficialmente dissoltesi e inesistenti, sopravvivono tuttavia nell’inconscio di politici e intellettuali relativamente giovani che si guardano bene tuttavia dal manifestare in forma pubblica antichi rimpianti, nostalgie di idee e modelli sociali ormai anacronistici, tradizionali esigenze teorico-pratiche di natura organicistica e totalizzante. Ormai, è sempre più difficile trovare partiti che siano organici alla base sociale di riferimento se non per ragioni prevalentemente strumentali ed elettorali, e politici e intellettuali disposti a rendersi gramscianamente funzionali ad un’opera di educazione o rieducazione intellettuale e morale delle masse.

In un mondo in cui le politiche sono ormai asservite all’economia di mercato e la cultura è un calderone di tendenze critico-tematiche in apparenza distinte e variegate ma sostanzialmente omogenee e sottoposte ai criteri grevemente uniformi di quel dominante “pensiero unico” secondo il quale il mondo in cui viviamo, con il suo impersonale dirigismo politico-finanziario, la sua democrazia e il suo pluralismo eterodiretti, le sue libertà civili e culturali costantemente sorvegliate e regolamentate, è l’unico mondo possibile, ad eccezione del mondo puramente simbolico o immaginario di poeti, letterati, filosofi, artisti e, verrebbe di dire, innocui deviati mentali, in un mondo siffatto gli intellettuali, ben lungi dal rischiare di sentirsi “funzionari dell’umanità”, secondo la celebre definizione di Edmund Husserl, si mettono al servizio ben remunerato di piccoli e grandi potentati accademici, mediatici ed editoriali piuttosto che di impegnative scelte filosofiche, etico-religiose e politiche di fondo1.

Il mondo globale si viene così articolando in due grandi ambienti sociali distinti e separati: quello della politica, del mondo dello spettacolo, delle accademie, della cultura televisiva e da rotocalco, i cui partecipanti parlano, ragionano, discutono, spesso in modo univoco e indifferenziato, di questioni planetarie, continentali e intercontinentali o ancora più delimitate, indubbiamente urgenti e vitali per il genere umano, contribuendo in notevole misura ad adottare decisioni, provvedimenti, direttive vincolanti per popoli e Stati; e quello dei popoli, di masse, di uomini e donne comuni, ovviamente liberi di parlare come e quando vogliono ma anche condannati a non contare nulla e a vivere di poco o niente, almeno fino a quando non si trovi il modo, anche al di là delle periodiche tornate elettorali, di fare sintesi legislativa attiva, propositiva e deliberativa, delle loro pur diversificate opzioni, priorità, richieste o proposte, con un relativo potere di imporre, tramite apposite consultazioni popolari, la revoca di piani economici e finanziari, commerciali e giurisprudenziali, industriali e tecnologici, o di qualunque altro genere, che, decisi nelle sedi internazionali, dovessero essere ritenuti oggettivamente incompatibili con le economie e le necessità dei singoli popoli.

Sotto quest’ultimo aspetto, proprio gli intellettuali potrebbero ancora svolgere un ruolo estremamente importante: quello di mediare criticamente, moralmente, politicamente tra le masse popolari europee e mondiali e le classi dirigenti di volta in volta chiamate, e generalmente asservite, ai vertici dei principali organismi politico-tecnocratici del mondo. Ma, come detto, gli intellettuali, benché talvolta riluttanti ad accettare i tanti luoghi comuni della cultura globale2 non sembrano disposti a scendere in un’arena pubblica, non necessariamente televisiva o mediatica, in cui si tratti di contrastare un gran mucchio di verità che vengono tenute celate alla consapevolezza di milioni di persone e di interi popoli. Per esempio, la globalizzazione: chi la muove realmente, quali sono i soggetti che la disegnano, la orientano, la dirigono, quali sono le forze che la controllano, determinandone l’espansione o la contrazione, in virtù di quali accordi realmente avvengono scambi e transazioni economico-commerciali di varia natura, sono solo gli Stati ad occuparsene tutelando il pubblico, il bene collettivo, oppure esistono anche accordi occulti, sotterranei nel quadro di esclusivi rapporti privati esenti di fatto da qualsiasi controllo pubblico? Perché è così infrequente che gli intellettuali si prendano a cuore una questione cosí delicata e spinosa per le economie di tante nazioni, per la salute fisica e l’integrità storico-esistenziale di molte popolazioni del mondo?

E, se a muovere fili non secondari dei processi di globalizzazione dovesse essere un governo transnazionale nascosto del mondo, un governo cinicamente e fraudolentemente tentacolare, in grado di aggirare norme, divieti, impedimenti di qualsiasi natura, un governo capace di provocare artatamente guerre, alleanze politiche interstatuali o azioni terroristiche semplicemente coinvolgendo e colpevolizzando soggetti del tutto innocenti e colpevoli solo della loro ignoranza e conseguente complicità subdolamente manovrata e utilizzata per scopi perversi, sarebbe o non sarebbe opportuno tentare quanto meno di mobilitarsi criticamente? Ci si ricorda della ossessiva determinazione con cui Bush, facendo carte false e attaccando persino l’ONU, volle fare guerra all’Irak: in quel caso, CIA e servizi deviati non ebbero considerazione e rispetto neppure per il Presidente degli Stati Uniti d’America. Nell’interesse di chi e di cosa lavorarono allora l’agenzia spionistica americana e le sue strutture parallele e subordinate? Nell’interesse del genere umano, degli stessi Stati Uniti, della pacificazione dei popoli gravitanti intorno al Golfo Persico, o piuttosto nell’interesse di una colossale destabilizzazione internazionale di cui più tardi si sarebbero visti e si continuano a vedere gli effetti?

Non è affatto pacifico, e anzi per me è decisamente falso, che la globalizzazione sia una grandiosa manifestazione delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, una sorta di incarnazione storica di quel telos storico universale che spingerebbe il genere umano verso una sua sempre più perfetta unificazione economica, sociale, giuridica, culturale, spirituale e religiosa3. Ma, almeno secondo l’intellettuale cattolico, Dio punisce, come insegna il racconto biblico, le idee e i tentativi orgogliosissimi degli uomini di diventare autosufficienti e di non aver più bisogno di Dio, di recidere ogni legame tra il tempo e l’eterno, tra il relativo e l’assoluto, anche perché ogni tentativo del genere tende a tramutarsi sempre inesorabilmente in un gigantesco Leviatano che imponga una rigida uniformità di linguaggio e di pensiero, di costumi e di pratiche sociali e istituzionali, di opzioni morali e di credenze religiose, e che reprime quindi in radice ogni possibile forma di libertà personale, donde necessariamente l’inevitabilità di una rivolta anche semplicemente laica e non religiosa contro un assetto autoritariamente o dispoticamente unitario, globalizzante, totalizzante del mondo, anche perché non è vero che esso abbia la funzione di prevenire o scongiurare i conflitti e le guerre tra Stati ma, al contrario, di favorirli e incentivarli, dal momento che non c’è nulla che troppo a lungo compresso non finisca per perire o per esplodere4.

Questa globalizzazione non è stata concepita in base ad un principio cristiano di fraternità, di carità, di non ambigua solidarietà, non è stata cioè né concepita, né tanto meno attuata in senso comunitario, ma in senso accentuatamente e volgarmente contrattuale e mercantile, per cui la gestione dei poteri, prima affidati agli Stati e a singoli individui tenuti a rispettarne le leggi, adesso si trova trasferita, in un regime di molto opaca e spesso selvaggia deregulation, nelle mani di potenti lobbies finanziarie e di grandi famiglie private. Non resta altro, pertanto, che essere antiglobal? Dipende dalle motivazioni, dalle ragioni, dagli scopi per i quali eventualmente ci si voglia qualificare come antiglobal, dai modi in cui e dai mezzi con cui si intenda contestare il sistema globale. Ma se a quest’opera non si dedicano per primi intellettuali disposti anche a perdere la propria anima, la propria pace, i propri onori e i propri guadagni, quando e come si potrà pretendere che siano le masse, sempre più prive di buoni pastori evangelici, e ora anche abbandonate a se stesse sotto il profilo intellettuale, critico-conoscitivo, etico ed emozionale, programmatico ed organizzativo, a contestare da sole questo globalismo massificante e spersonalizzante?  

Quando la penuria di cibo, oltre che quella di acqua che già sta affliggendo diverse regioni del mondo, di gas e di petrolio, comincerà a riguardare concretamente, e in forme sempre più gravi e irreversibili, anche le popolazioni occidentali e. al loro interno, alcune più di altre, come funzionerà la globalizzazione, sarà esercitata in modo equanime, in modo equilibrato, in modo sapiente e saggio, o si affiderà ai consueti criteri burocratici di falsa ed iniqua razionalizzazione? Non è probabile che la globalizzazione, così diseguale in senso geopolitico e indifferente ad oggettive ingiustizie economiche e sociali nell’epoca della relativa abbondanza, possa convertirsi eventualmente nella globalizzazione ancora meno egualitaria e meno compassionevole in un’epoca di relativa o assoluta povertà? Certo, altro sono concetti di carattere generale, interpretazioni e congetture verosimilmente fondate su oggettivi dati osservativi e sulla relativa ma significativa invarianza dei meccanismi, che sono alla base dello sviluppo e del presunto progresso civile della società globale, e delle dinamiche economiche e finanziarie che tendono a corrodere con devastante gradualità il tessuto economico-produttivo e la stessa capacità di tenuta etico-civile di diverse nazioni globalizzate, altro è la concreta possibilità di intervenire sui processi in atto e bloccarli a breve termine, giacché in fondo gli stessi intellettuali, chi più chi meno, non dispongono di elementi così certi e stabili di giudizio da consentire loro di formulare e di dare in pasto al pubblico un programma di azione rigorosamente e univocamente definito.

Ma bisognerà pur cominciare a prendere di petto, in modo diretto e frontale, la questione se non la si voglia perpetuare fino a quando non sia più possibile né utile occuparsene per risolverla. Sostenere che l’intellettuale potrà essere socialmente utile solo a condizione che resti all’interno del sistema globale che sarebbe ormai un punto di non ritorno della civiltà contemporanea, è esattamente il contrario di quel che razionalmente si dovrebbe pensare e proporre di fare, perché razionalmente e storicamente non esiste nulla, a parte la morte, che si possa considerare definitivo o  irreversibile. D’altra parte, quella di ridurre storicisticamente il giudizio critico dell’intellettuale a nient’altro o a poco più che a giudizio storico, resta senz’altro un’operazione rispettabile e in parte condivisibile oltre che indicativa di un approccio realistico ai problemi del tempo in cui si vive, ma la ricerca della stessa verità storica delle cose, degli eventi storico-sociali come dei fenomeni o delle costruzioni culturali, non si esaurisce necessariamente in una pur rigorosa e rinnovata storicizzazione dei vari campi di indagine, estendendosi a ipotesi di lavoro che abbiano per oggetto non già il mutevole, il transeunte, il diveniente storico quanto gli elementi permanenti, invariabili, costanti e “strutturali” dei processi storici come delle opere umane, per cui pure la verità non è unilateralmente quella che si viene facendo progressivamente anche se contraddittoriamente nella processualità storica, ma anche quella che agisce nella storia senza direzioni precostituite o mete necessariamente raggiungibili a causa della profonda interconnessione che passa sempre tra gli aspetti o gli elementi empirici, accidentali, casuali o contingenti del divenire storico-culturale e quei fattori psicologici, antropologici, sociologici non soggetti ai mutamenti storico-temporali in quanto strutture sempre identiche a se stesse, autonome e funzionanti sempre nello stesso modo quale che sia il contesto di riferimento5. Si tratta di strutture in sé compiute, come compiuta è, in se stessa considerata, l’ossatura di qualunque organismo o costruzione, come per esempio lo scheletro del corpo umano, di strutture fisse, stabili, autosussistenti, in un certo senso ontiche, pur all’interno di un più ampio e movimentato quadro storico, che non risentono di condizionamenti esterni ma che concorrono a condizionare i processi mentali, ideali, spirituali degli uomini, le loro gesta, le loro opere, cioè appunto la loro storia. Là dove tale onticità, che attraversa insuperata l’intera storia del genere umano, lascia aperta la porta ad un’ulteriore possibilità di indagare in direzione delle sue origini naturali e immanenti oppure sovrannaturali e trascendenti e del particolare senso o del totale non senso che da ciò può derivare per la storia della o delle civiltà.  

Se l’intellettuale è dotato di interiore rettitudine e di autonomia di giudizio non può esercitare il suo lavoro in modo unilaterale e riduttivo ma deve sforzarsi di renderlo comprensivo di una pluralità almeno relativa e soprattutto qualificata di punti di vista che, nella loro reciproca connessione, concorrano alla elaborazione critica di teorie, interpretazioni, visioni, quanto più possibile plausibili, oggettive, universali. Uno sforzo del genere è oggi quanto mai necessario per evitare di ripristinare certi vecchi schemi ideologici del passato, anche perché le forme di ideologizzazione della logica, della conoscenza e del sapere, si prestano a continue, camaleontiche trasformazioni, quantunque identici siano e restino i meccanismi di base e interni alla struttura esistenziale dell’uomo che le rende possibili e le alimenta. Dinanzi a chi in questo tempo contesta il significato ideologico di idee assertive di segno cattolico circa la sacralità dell’istituzione monogamica matrimoniale, la fedeltà e l’eterosessualità coniugali, il fine procreativo del matrimonio stesso, la condanna della contraccezione, forse qualunque intellettuale di buon senso dovrebbe fermarsi a pensare e a mettere in discussione, proprio in quanto meramente ideologiche, le contestazioni non già di soggetti laici ma di soggetti laici fin troppo precipitosi e avventati. Cosa c’entra il conservatorismo ideologico, di cui spesso si blatera, con convinzioni etiche e religiose che, sino a prova contraria, per quanto virtualmente confutabili, appaiono ancor ben resistenti a frequenti e poderosi tentativi polemici, più che critico-razionali, di abbatterle definitivamente?

Anche le convinzioni etiche e religiose dispongono di una base di intersoggettività più o meno ampia in rapporto a cui esse vengono acquisendosi, consolidandosi, diffondendosi con un tasso variabile di forza  veritativa e persuasiva. Nel caso specifico delle convinzioni di fede cristiane, non c’è dubbio che si disponga ormai universalmente di elaborazioni critico-interpretative così ampie ed articolate della Parola di Dio, di un patrimonio teologico e conoscitivo bimillenario talmente ricco e significativo, da poterle senz’altro considerare parte integrante di primissimo piano della cultura universale dell’umanità ancor prima che possibili espressioni di ideologizzazione religiosa. Molto più probabile è che il virus ideologico intacchi l’idea di società globale postideologica, che dovrebbe coincidere con la celebrazione di una società libera dai pesanti e spesso contrapposti condizionamenti ideologici del passato ma che, proprio a causa di questa pretesa radicalmente emancipativa, finisce per bloccare sul nascere qualunque istanza etico-politica di affrancamento dal dato oggettivamente ideologico dell’uniformità di pensiero che dovrebbe caratterizzarla pur nel quadro di un contesto pluralista e democratico in cui tuttavia le differenze non risultino mai incompatibili con la logica di un pensiero unico e globale.

In particolare, l’ideologia globalista non tollera che dogmi, norme, prescrizioni, valori religiosi, più segnatamente cattolici, interferiscano sulle strutture e sovrastrutture portanti del “villaggio globale”, vale a dire il libero scambio di merci, idee, beni materiali e culturali, la vorticosa accelerazione elettronica delle comunicazioni umane, la sempre più ampia omogeneizzazione teorie e pratiche giuridico-istituzionali, politico-legislative, economico-finanziarie, etico-civili, e corrispondentemente, una visione relativistica e virtualmente  uniforme del mondo sempre più generalizzata e spersonalizzata di contro a tradizionali visioni tradizionali di natura soggettivistica e circoscritte a comunità ristrette o isolate,  e infine la diffusione quasi imperativa di una forma mentis, di una cultura aperta e protesa verso indefiniti orizzonti critico-conoscitivi ma, al tempo stesso, priva di riferimenti, ritenuti tanto anacronistici quanto divisivi, a tutti quegli elementi di natura religiosa, confessionale, metafisica o trascendente, legittimi se confinati nei limiti di opinioni o convinzioni private oppure resi oggetto di dibattiti culturali e teologici, ma inammissibili ove si pretenda che possano essere fatti valere nel contesto di un pubblico dibattito e vengano esercitando una capacità di incidenza sulle decisioni politiche e sui provvedimenti normativi degli Stati.

Il globalismo è anticristiano e avversa soprattutto il cattolicesimo che del cristianesimo è pur sempre il fronte più organizzato e agguerrito, nonostante le sue ricorrenti crisi istituzionali e dottrinarie6. Anzi, esso, pur ammettendo la liceità del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso sotto il profilo civile, giudica fondamentalmente come manifestazioni di irrazionalità tutta una serie di credenze popolari e di posizioni culturali anche qualificate che, nello spazio cattolico, si nutrono di fede in realtà e simboli dottrinari forse confortevoli ma, benché “rivelati”, illusori e insensati, e che pertanto potrebbero trovare applicazione nella vita civile solo in modo dannoso. Di conseguenza, l’approccio proposto ai suoi innumerevoli problemi non può che essere rigorosamente laico e razionale, dove si dà evidentemente per scontato che il rapporto tra religiosità e razionalità sia di incompatibilità, e non può che richiedere metodologie di intervento di natura esclusivamente scientifica e tecnologica.

Problematiche globali come quelle ambientali, igienico-sanitarie, abitative, infrastrutturali e tecnico-industriali, come quelle relative allo sviluppo e alla mobilità sostenibili, al multiculturalismo, alla riduzione della povertà e ancora alle guerre etniche e non solo etniche, alle grandi migrazioni e all’internazionalizzazione dei diritti civili e politici, sembrano doversi affidare ormai a strumenti esclusivamente logici, razionali, scientifici, informatici e tecnologici, non certo a pratiche residuali e mitiche, se non addirittura superstiziose, del passato come la preghiera, la conversione spirituale, la richiesta del perdono divino e l’invocazione della sua grazia, l’attiva e responsabile partecipazione alla vita ecclesiale ed eucaristico-sacramentale, la ricerca comunitaria e quanto più corale possibile di Dio. A poter essere sacralizzata ormai non è più la presenza divina nella storia degli uomini, ma la loro capacità, non solo tecnica ma anche morale e spirituale, di rendersi sempre più autonomi dalle paure tradizionali e irrazionali di una civiltà ancora non sufficientemente matura ed emancipata, e la stessa natura di cui essi sono parte integrante.

Per molti, l’intellettuale che recepisce positivamente questa filosofia, e che ormai libero da qualsiasi ideologia ivi compresa quella religiosa e cattolica, è un intellettuale non più organico a niente, né a Stati, né a partiti, né a Chiese o a lobbies di qualsiasi genere, ed è l’intellettuale di cui ha bisogno il terzo millennio, un intellettuale fondamentalmente semplice e non particolarmente lontano dal modo di ragionare della gente comune ma, come quest’ultima, schierato contro le ingiustizie e le guerre e a favore delle libertà e dei diritti civili, dell’autonomo sviluppo della scienza e del connesso progresso sociale, della tolleranza e di valori inclusivi di convivenza umana tra persone, popoli, razze e religioni diverse: un intellettuale critico delle anomalie dell’umano, delle abnormità istituzionali, delle distorsioni ideologiche ancora largamente presenti e praticate nel pianeta; un intellettuale laico ragionevole, non fazioso né prevenuto, né incline a manipolare le coscienze dei suoi uditori, un intellettuale che abbia il buon senso di astenersi dal parlare di cose che non sappia o non conosce bene o dall’adottare modalità comunicative per mezzo delle quali si riesca a scontentare il minor numero possibile di persone.

Questo intellettuale dovrebbe poter emulare l’intellettuale illuminista, perché la cultura o è illuminista o non è cultura ma solo un cumulo di cianfrusaglie oscurantiste, regressive, irrazionali. Il cattolico, contrariamente a quanto in genere si pensa, può anche condividere questo profilo di intellettuale anche se non condivide, proprio sul piano critico e metodologico, l’assunto secondo cui i lumi, la luce della ragione, escluderebbero necessariamente dal loro raggio d’azione la luce della fede o di una razionalità fondata sui contenuti spirituali della fede rivelata, che sono anch’essi riflesso di un Logos universale, anzi del Logos per antonomasia trattandosi dello stesso Logos divino: qualcosa su cui si può dissentire e che, tuttavia, non può essere confutato o invalidato per via di sensate esperienze e certe dimostrazioni, potendo al più essere incluso tra quelle questioni che, sulla falsariga dei teoremi di incompletezza di Gödel, vengono definite come “indecidibili”.

C’è stato un illuminismo ateo o agnostico, ma l’idea illuminista del sapere si sarebbe molto diffusa anche in ambito cattolico in cui molteplici sarebbero stati gli sforzi volti a sostenere la duplice idea di una fede al servizio non solo della vita spirituale ma anche della società, e quella strettamente connessa e conseguente di un rapporto di reciproca funzionalità tra la fede e la ragione moderna7. Antonio Rosmini, particolarmente sensibile all’ideale illuministico ed enciclopedico del sapere, avrebbe cercato di proporre un illuminismo religioso e cattolico capace di integrare lo sviluppo delle conoscenze scientifiche nella grande tradizione cristiana e cattolica, contribuendo così alla nascita del cattolicesimo sociale contemporaneo, anche se il principio illuministico di tolleranza, talvolta frainteso e disatteso dai philosophes settecenteschi, non può oggi essere inteso, almeno in un’ottica cattolica, in modo indiscriminato, così come in generale non c’è valore che, se inteso e applicato indiscriminatamente, non produca poi effetti indesiderati o mostruosi.

Un filosofo laicissimo ed oltremodo critico della società capitalistico-borghese come Herbert Marcuse avrebbe scritto che la tolleranza non solo talvolta non è facilmente applicabile ma anche che, se lo fosse in tutte le circostanze della vita e in tutti i contesti storici, produrrebbe conseguenze malefiche. Nelle discussioni accademiche o nei dibattiti culturali forse è applicabile, ma già nei rapporti privati di convivenza la possibilità di applicarla risulta piuttosto incerta e problematica, mentre sul piano etico e morale è da prescrivere il divieto tassativo di applicarla in tutti quei casi in cui si abbia a che fare con oppressori, ladri, speculatori, delinquenti, mafiosi o terroristi, oppure con istituzioni politiche manifestamente inique e corrotte o con sistemi economici vessatori e alienanti, in casi in cui invece occorre essere inflessibili nel testimoniare l’inviolabilità di valori morali universali del vivere civile8.

Anche la ragione, ove non venga usata con ragionevolezza e in perfetta buona fede, finisce per ritorcersi contro quella stessa funzione di universale rischiaramento critico-conoscitivo che le era stata entusiasticamente riconosciuta dagli illuministi francesi, ed è anche per questo che non bisogna commettere l’errore di intendere l’innovativa filosofia illuministica in senso generico e dogmatico, vale a dire l’errore di credere che essa abbia voluto esprimere la certezza di una ragione infallibile e priva di una interna struttura conoscitiva conflittuale la quale, al contrario, rende ragione di come sia faticosa e per niente agevole la costruzione di un sapere realmente critico, problematico e, in tal senso, anche universale. Come osservava bene molto tempo fa Sergio Moravia, «ciò che l’Illuminismo ci propone è non già una certezza ma una ricerca. Oggigiorno la sola anima legittimata a dirsi illuministica è, per me, quella pronta a viaggiare verso l’insidia delle Colonne d’Ercole (e, se del caso, a superarle). A osservare cose sconosciute, a comparare tutti i dati naturali e, ancor più, tutti gli usi e costumi umani anche per pensarne di nuovi e di migliori … Noi faremo vivere ancor oggi l’eredità illuministica se proseguiremo questa ricerca senza fine allargandola anche (il punto è cruciale) a quegli universi dell’interiorità, della trascendenza, dell’esistere au jour le jour che i Lumi hanno in parte trascurato. Faremo vivere tale eredità se realizzeremo questa ricerca non solo col calcolo della ragione ma anche coll’entusiasmo del cuore»9.

In questo senso, nel senso cioè dell’estensione di una razionalità critica pensata come perenne ricerca alla sfera dell’interiorità, della coscienza, degli stessi sentimenti religiosi che vi si radicano, non si vede perché anche l’intellettuale cattolico non dovrebbe sentirsi illuminista, persino in una modernità già e più che mai postmoderna, e in un’epoca di globalizzazione in cui la tendenza maggioritaria è quella ad emarginare antiche ma sempre nuove domande: se la vita abbia o non abbia un senso religioso, se il progresso scientifico anestetizzi o renda più forte il bisogno di Dio, se la fede soggettiva e personale in verità e realtà trascendenti e assolute sia veramente la conseguenza inevitabile di un modo infantile, illusorio, distorto e dogmatico, di utilizzare il pensiero e le proprie facoltà intellettive e conoscitive o piuttosto l’esito sorprendente e coinvolgente ad un tempo di una intensa, rigorosa e proficua ricerca razionale ed esistenziale. L’emarginazione sistematica di tali domande non può che favorire, in modo crescente, un duplice movimento di omologazione dell’umano rispetto alle sue interne e costitutive differenze esistenziali e di emarginazione della libertà personale  dalla facoltà razionale e morale di partecipare criticamente e attivamente di un ventaglio più o meno ampio e plausibile di punti di vista e di scelte che invece questa società globalizzata, nonostante la produzione e la diffusione dei saperi attraverso la cooperazione tra operatori, ricercatori e professionisti molto diversi tra loro e sempre meno autoreferenziali, tende ad azzerare condannando ognuno di noi ad essere “uno e nessuno” ad un tempo e i popoli a smarrire la coscienza della propria identità nazionale10.

NOTE

1 In realtà, il fenomeno storico della globalizzazione ha radici nel Medioevo, ma solo nell’epoca contemporanea è venuto assumendo il significato specifico di un processo globale che tende a livellare le diversità o differenze esistenti nel mondo: J. OsterhammelN. P. PeterssonStoria della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche, Bologna, Il Mulino, 2005; in questo senso, i disastri più macroscopici, anche se non certo gli unici, prodotti dalla globalizzazione contemporanea sono quelli indicati, tra gli altri, da G. Tremonti, Globalizzazione. Le piaghe e le cure possibili, Milano, Solferino, 2022; sempre più complicati diventano i rapporti tra intellettuali e mobilità sempre più caotica e accelerata del sapere globale: A. Bazzani, L’intellettuale dimezzato. Arte, letteratura, filosofia: la crisi del pensiero contemporaneo, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2006 e, per il rapporto tra intellettuali e potere mediatico-editoriale nell’era della comunicazione globale: L. Mastrantonio, Intellettuali del piffero. Come rompere l’incantesimo dei professionisti dell’impegno, Venezia, Marsilio, 2013; d’altra parte, una globalizzazione non semplicemente subìta ma soprattutto pensata e interpretata criticamente pone, da un punto di vista teorico ed etico-politico, dilemmi molto seri in relazione al problema del rapporto tra autodeterminazione dei popoli e globalizzazione economica e culturale: D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, Roma-Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 2015.

2 P. A. Rovatti, L’intellettuale riluttante, Milano, Elèuthera, 2018.

3 Sulla progressiva perdita di telos nel mondo globale: L. Savelli, Globalizzazione e crisi della modernità. Storia, concetti e assenza di prospettive, Bolsena (VT), Massari Editore, 2001; S. D. King, Il mondo nuovo. La fine della globalizzazione e il ritorno della storia, Milano, Franco Angeli, 2017.

4 Su questi temi, in un’ottica biblica e cattolica, mi sono soffermato in un mio libro: F. di Maria, Vangelo, democrazia e moderna Babilonia, Udine, Il Segno, 2019. L’arcaica e sempre risorgente ambizione umana a raggiungere un compiuto stato di autosufficienza rispetto ad entità trascendenti di qualunque genere, potrebbe coincidere con il destino di un’umanità avviata verso un suo ricorrente declino: si può utilmente consultare in tal senso, anche se in chiave prettamente laica, il libro di R. Benini, Destini e declini. L’Europa di oggi come l’Impero romano?, Roma, Donzelli, 2015.

5 Questa posizione può legittimarsi anche in rapporto a tentativi, pure plausibili, di dimostrare che lo storicismo non è un indirizzo monolitico di pensiero ma suscettibile di articolarsi in forme anche diverse, come si cerca di spiegare, per esempio, in un libro di L. Zanzi, Metamorfosi dello storicismo, 2 voll., Domodossola (VB), Grossi, 2020.

6 Il globalismo non è invece antireligioso solo per motivi strumentali e nel senso più generico e ambiguo del termine, di cui inconsapevolmente si fa interprete un libro come quello di V. Chiti, Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale, Firenze, Giunti, 2014.

7 Cfr. il volume molto recente di U. L. Lehner, Illuminismo cattolico. La storia dimenticata di un movimento globale, Roma, Studium, 2022.

8 Si allude al libro scritto da H. Marcuse insieme a B. Moore e a R. P. Wolff, Critica della tolleranza, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2011, opera pubblicata la prima volta nel 1965, col titolo A Critique of Pure Tolerance, da Beacon Press di Boston.

9 S. Moravia, Quanti lumi nella storia, in “La Repubblica” del 10 gennaio 2001.

10 F. Antonelli, Da élite a sciame. Gli intellettuali-pubblici dalla società industriale al mondo globale, Firenze, Le Lettere, 2012; a cura di G. Tomei, Le reti della conoscenza nella società globale. Possibilità, esperienze e valore della mobilitazione cognitiva, Roma, Carocci, 2021; I. Bartholini, Uno e nessuno. L’identità negata nella società globale, Milano, Franco Angeli, 2003; C. Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Roma-Bari, Laterza, 2019.

 

 

 

 

 

 

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