Gli intellettuali di ieri e la crisi intellettuale di oggi

Non so se e fino a che punto sia vero che, morti tanti grandi maestri del passato, la società italiana di questo inizio di terzo millennio sia ormai rimasta orfana di luminosi fari culturali, di importanti guide spirituali, di significativi punti morali e civili di riferimento, anche se, appartenendo ad una fase avanzata della vita in cui generalmente si diventa più saggi ed equilibrati, confesso di non ricordare specifici periodi storici del secolo scorso e del primo ventennio di questo secolo, in cui, pure nel quadro di impegnativi e talvolta infuocati dibattiti culturali ed etico-politici, qualcuno di quei rimpianti maestri riuscisse in qualche modo ad egemonizzarli o, più semplicemente, ad esercitare una speciale influenza sulla pubblica opinione. Credo che, morto Benedetto Croce, e per motivi beninteso del tutto contingenti, papi della cultura nazionale, non ve ne siano più stati. E forse è stato un bene perché la cultura, a differenza della vita religiosa, non può svolgersi, non può svilupparsi e progredire se vi siano papi a dirigerla ma anche a regolamentarla, disciplinarla, limitarla.

Questa considerazione, però, nulla intende togliere al fatto che, in effetti, l’Italia del novecento sia stata caratterizzata dalla presenza e dall’opera non solo di studiosi di grande valore ma anche o proprio di intellettuali di straordinario ingegno e di elevata tempra morale, anche se in essi non sempre perfettamente coesistenti. Questo è un dato indubitabile, stabilmente acquisito, specialmente dopo l’uscita del monumentale studio di Frédéric Attal sulla storia degli intellettuali italiani del XX° secolo1, che rappresenta un grandioso e vivace affresco di innumerevoli e variegate voci della cultura italiana del secolo scorso. Ma penso di dover ribadire che la storia dell’intellettualità teorico-critica italiana, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, pur interagendo in qualche misura con la società civile e il mondo politico, non avrebbe mai avuto su essi una significativa incidenza e, anzi, il “sociale” e il “politico” avrebbero spesso seguito strade completamente diverse se non opposte a molte delle più profonde e avvedute lezioni di vita morale e civile provenienti da quella storia.

Il popolo italiano, al pari di tanti altri popoli occidentali, sarebbe stato soggiogato dai miti e dagli idoli della società del benessere, del mondo dello spettacolo e del facile successo, e da conseguenti modelli comportamentali, stili di vita sempre più disinvolti e disinibiti, cui una scuola rigorosa ma anche largamente repressiva e nozionistica non avrebbe saputo porre un argine, né sarebbe parsa in grado di proporre validi e tempestivi correttivi di natura didattica, metodologica e pedagogica, a quella marea montante di disamore giovanile per lo studio e la disciplina morale che sarebbe diventata ancora più devastante e diseducativa a partire dagli inizi degli anni settanta con la promulgazione dei Decreti Delegati per la scuola. Nelle intenzioni del legislatore e di alcuni intellettuali modernizzatori, infatti, essi avrebbero dovuto riformare la vita scolastica democratizzandola in lungo e in largo ma in realtà l’avrebbero trasformata in una comunità scolastica via via destinata a diventare preda di crassa ignoranza formativa, di una pedagogia demagogica e permissiva, di un innaturale e confidenziale rapporto paritario tra docente e discente, di una sorta di collegialità didattica e docimologica spesso arbitraria e improvvisata, di tutto un modo di pensare e di operare che nel tempo si sarebbe rivelato del tutto idoneo a favorire gli studenti svogliati e incapaci, e a scoraggiare, non di rado penalizzandoli anche sul piano valutativo e meritocratico, gli studenti più volenterosi, impegnati e meritevoli.

Quella scuola, complice anche un sistema finale di valutazione globale (in sessantesimi) che avrebbe molto contribuito ad evidenziare l’indole prevaricatrice, disonesta, talvolta violenta e decisamente corrotta, di molti docenti, usciti non di rado  vincitori da concorsi truccati o pilotati,  avrebbe sfornato per generazioni e continua a sfornare, specialmente in alcune aree meridionali, a cominciare dalla Calabria, una enorme quantità di giovani diplomati, spesso con il massimo dei voti ma di bassa o inesistente cultura e del tutto privi di senso civico e morale: tutto materiale virtualmente esplosivo per una pacifica convivenza civile!

L’Italia civile del domani sarebbe venuta istruendosi e formandosi nel corso di una drammatica transizione dalla padella della scuola gentiliana, che tuttavia in anni lontani, nonostante le troppo ingenerose critiche ad essa dedicate da un preside pure qualificato come Giovanni Pacchiano2, era stata capace di dare al Paese classi dirigenti qualificate sia sotto l’aspetto professionale che sotto quello morale e civile, contribuendo attivamente alla modernizzazione e allo sviluppo economico dell’Italia repubblicana, alla brace della scuola postsessantottesca, da cui sarebbero uscite molte mediocrità insieme a giovani di talento che si sarebbero poi distinti in sede universitaria e nelle professioni successivamente esercitate non già in virtù di una rigorosa formazione intellettuale ricevuta nella scuola secondaria ma solo grazie alla loro capacità di apprendere autonomamente, da autodidatti, pur all’interno della istituzione scolastica.

Non è che certi modelli correnti di pensiero e atteggiamenti culturali oggi molto diffusi, siano nati per caso o, necessariamente, da elaborazioni teoriche particolarmente ardite: il “pensiero debole”, il pensiero postmoderno, il “pensiero unico”, sono tutte espressioni che riflettono esattamente quel vuoto culturale, quella mancanza di tensione ideale e di slancio morale, seminati per tanto tempo nella collettività da istituzioni scolastiche e da pratiche educative, nella maggior parte dei casi quasi completamente fallimentari. Ecco, in questo senso gli intellettuali avrebbero preso dal sociale, da un sociale piuttosto inerte e privo di vitalità, piuttosto che dedicarsi a plasmare, a modellare, una mentalità collettiva debole o difettosa, incapace di vivere di valori e per i valori e sostanzialmente incline a carpire le occasioni o le opportunità più favorevoli ad un facile e spesso immeritato raggiungimento di comode e ben remunerate posizioni professionali.

Gli intellettuali avrebbero spesso assecondato, anziché contrastare o tentare di correggere, per non apparire anacronistici, antimoderni, retrivi e autoritari, tendenze spontanee o meglio istintive della società, materiale umano grezzo e informe,  privo di cure, di guida o di  orientamento, sul piano educativo, psicologico, assiologico e deontologico. Le ragioni della loro sostanziale condiscendenza ai più disinvolti, liberi, spregiudicati costumi sociali e culturali scaturiti dalla vampata internazionale del ’68, sono tutte da ritrovare nell’avere gli stessi intellettuali, chi più chi meno, abdicato per mero opportunismo alla loro funzione di spiegare, demistificare determinati andazzi, mode, miti, riportandoli criticamente alle loro cause reali, ai loro veri significati senza enfatizzarne improbabili significati storicamente innovativi.

Dopo il ’68 molto spesso si sarebbe assistito a una vera e propria resa degli intellettuali soprattutto italiani alla subdola e seducente violenza della società democratica di massa. E, come di frequente accade, anche in quel caso, fu la società non a produrre la moralità ma a manipolarla: gli stessi intellettuali vollero apparire creatori di nuovi paradigmi di pensiero e di analisi, mentre in realtà avrebbero semplicemente subìto i fatti traducendo in termini concettuali apparentemente inediti e originali, senza elaborare criticamente, i condizionamenti sociali informi, idee e pratiche sociali di vita meccanicamente acquisite dai più sull’onda degli avvenimenti di fine anni sessanta, e quindi irriflesse, istintive, non interiorizzate. Allora, gli intellettuali, anziché assolvere la loro funzione in modo “inattuale”, vollero essere “attuali”, a rimorchio dell’attualità storica, dell’apparenza sociale, dell’ufficialità culturale. Lasciandosi a loro volta manipolare dal sociale, avrebbero spesso finito per manipolare la verità delle cose, il senso essenziale del processo storico in atto, senza capire che sarebbe stato necessario «ancorare la moralità e l’io morale a un terreno più solido e affidabile delle proteiformi e capricciose “opinioni della maggioranza” e dei loro arsenali istituzionali…»3.

D’altra parte, la resa degli intellettuali al luogo comune, alla menzogna e alla convenienza, non è un fenomeno poco ricorrente nella storia degli uomini. E’comunque evidente che se la natura umana viene lasciata a se stessa, senza essere trattata e modellata culturalmente ed eticamente, i risultati non possono essere che deludenti e funzionali ad un mondo incivile e inospitale. E allora può accadere, come spesso accadde nel ‘68 in molte aule universitarie italiane, che gruppi di studenti rozzi e insolenti impediscano a docenti timidi e spauriti di tenere lezione, ad altri studenti non allineati con le masse studentesche in rivolta di sostenere gli esami, bloccando in pratica l’intera vita didattica e culturale e gli stessi corsi di studio. Allora furono pochi gli intellettuali italiani che si opposero con dignità e fermezza a quell’andazzo oggettivamente indecoroso e irrazionale, che però sarebbe stato sostanzialmente tollerato e interpretato dalla maggior parte di essi, almeno in apparenza, come una sorta di epifania di quello “spirito critico”, di quegli aneliti di liberazione trasversalmente presenti in tutti gli strati sociali e le categorie professionali dell’occidente, che per troppo tempo erano stati soffocati, repressi, celati, dai rigidi e asfissianti meccanismi di controllo sociale della moderna società capitalistica.

Il ’68 avrebbe caratterizzato un fenomeno storico-sociale di portata globale, esteso oltre che a scuola e università, anche al movimento operaio e alla psichiatria, al movimento della magistratura e delle donne, fino al movimento conciliare della Chiesa, benché mi sembri esagerato definirlo addirittura come una «complessa mutazione culturale e quasi antropologica»4,  ma non si può ritenere, guardando retrospettivamente i processi che ne sarebbero derivati nel corso di diversi decenni, che sarebbero stati conseguiti risultati nel segno del progresso civile e dell’emancipazione umana. Basta dare uno sguardo sommario alla stessa attualità che stiamo vivendo, per rendersene facilmente conto. E, in tal senso, appare decisamente eccessivo e fuorviante affermare, come ha fatto Paolo Pombeni5, pur molto critico verso quel che definisce come un’operazione prettamente intellettuale, che il ’68 avrebbe dato corpo ad «un grido profetico» proveniente dalle viscere della storia novecentesca.

In particolare, nel campo del sapere e dell’impegno politico, quelle caotiche e tumultuose vicende non avrebbero aiutato le forze liberali, democratiche e progressiste del Paese a meglio fronteggiare e combattere le strutture e le dinamiche oggettivamente inique e corrotte del mondo, e dello stesso mondo accademico, ma ne avrebbero reso più difficoltosi e confusi i propositi, talvolta velleitari, di bonificare il mondo del lavoro da ogni forma di autoritarismo padronale come il mondo della cultura e dell’università da forme tradizionali di baronia accademica che, sotto veste di modernità democratica, avrebbero continuato a prosperare. Oggi i padroni sono più vivi e vegeti che mai e sono sempre lì a dettare le condizioni di lavoro e i relativi salari, pur talvolta nel rispetto formale di regolamenti imposti dallo Stato, mentre i baroni, un po’ in tutti gli atenei italiani, continuano a fare il bello e il cattivo tempo, tanto nell’ambito degli studi e della ricerca scientifica, della didattica e della metodologia, quanto nell’ambito concorsuale in cui i primi e spesso anche gli unici ad essere assunti con funzione docente o semplicemente tecnico-amministrativa, sono i loro stessi familiari, i parenti, poi gli amici e, se capita, in quanto nella vita succede spesso di potersi o doversi scambiare i favori, anche gli amici degli amici, a prescindere dal fatto che gli amici o gli amici degli amici possano appartenere alla categoria di uomini e donne poco tagliati per la ricerca e l’insegnamento e, soprattutto, essere dediti ad ogni genere di pratica trasgressiva e corruttiva. In linea di massima, il mondo va così, e non si reca certo offesa a quell’esiguo numero di meritevoli puri che, tanto nel mondo del lavoro in genere quanto in quello universitario e accademico, abbiano trovato una degna e legittima collocazione, sia pure doverosamente supportata da chi, detentore di posizioni sociali o culturali di influenza, strada facendo abbia potuto prenderne a cuore le sorti e favorirne la carriera o l’ascesa accademica.

Non sempre la cosiddetta “raccomandazione” è moralmente illegittima e da includere nel concetto tradizionalmente vituperato di “clientelismo”. Dipende dalle ragioni che ne sono alla base, dalla natura degli scopi che, per mezzo di essa, si intende perseguire: in questo senso, essa può risultare persino funzionale alla neutralizzazione di condotte personali e di pratiche sociali riprovevoli, di atti di prepotenza e prevaricazione o di vero e proprio teppismo baronale, a fenomeni di depauperamento del potenziale patrimonio economico e critico-culturale della nazione6.

Il ’68, almeno per quanto riguarda l’Italia, fu la cartina di tornasole dell’ipocrisia, della viltà intellettuale e morale di quasi tutta la corporazione accademica nazionale, della sua inettitudine civile e inattitudine etico-culturale a resistere contro ogni forma di violenza e prepotenza ideologica7. Io, che solo un lustro più tardi, avrei preso servizio e cominciato la mia attività professionale nei licei della provincia della mia città (licei che per molti anni, per mia scelta, sarebbero stati periferici), ne avrei sofferto molto per le catastrofiche ripercussioni che si sarebbero manifestate anche nella secondaria superiore, ne avrebbe sofferto soprattutto la mia pur modesta intellettualità, come quella di uno sparuto gruppo di colleghi intellettualmente emancipati, per via di un’idea mitica di collegialità sancita dai Decreti Delegati, che, lungi dal rendere più gradevole ed efficace il lavoro scolastico-pedagogico di insegnamento-apprendimento, avrebbe finito per rinchiuderlo poco per volta nelle strettoie di una logica pseudodemocratica per cui al centro della vita scolastica non dovessero più essere in due, cioè il docente, il maestro, l’educatore, e il discente, l’allievo, l’educando, ma dovesse essere unicamente l’alunno, non solo con le sue esigenze di apprendimento, ma soprattutto con le sue caratteristiche psicologiche, con le sue fragilità adolescenziali, e persino con il suo diritto ad esprimere liberamente, anche coadiuvato dall’apporto genitoriale e da presidi perfidi, viscidi e soprattutto incolti, giudizi quasi sempre arbitrari sull’operato dei professori.

Cosa potesse produrre una scuola cosí demagogica, populista, stupida, chiacchiericcia, ritorsiva e squallidamente disinteressata ad una rigorosa formazione dell’uomo e del cittadino, è sin troppo facile immaginare, ma questo può spiegare in larga misura perché l’Italia istituzionale ed extraistituzionale di questo tempo assomigli molto ad una accolita di uomini spesso autorevoli e influenti senza qualità, senza qualità degne di essere apprezzate e trasmesse alle future generazioni. Se non si vuole essere semplici spettatori del naufragio della propria patria, occorre mobilitarsi contro la decadenza della sua vita intellettuale, civile e morale, contro la superficialità degli studi superiori e universitari, contro l’analfabetismo funzionale e un egualitarismo di maniera che tende ad umiliare il merito reale e il dovere-diritto dei capaci ad emergere solo in virtù delle proprie qualità personali e a distinguersi da una massa indistinta di incapaci e di potenziali usurpatori sociali e professionali.

Ma la crisi che in realtà stiamo vivendo, crisi politica e istituzionale non meno che economica e sociale, giuridica e culturale, probabilmente si può ancora spiegare con quell’effetto di incultura e di sonnolenza morale prodotto dal ’68 e reiteratosi nei decenni successivi, vale a dire con una chiusura psicologica molto diffusa di massa non tanto nei confronti delle gerarchie di potere e di responsabilità comunque esistenti quanto nei confronti di una possibile, radicale riforma politico-culturale incentrata sull’idea programmatica di stabilire, a carte scoperte e quindi non truccate, né attraverso esamini o colloqui occasionali e magari pilotati con spirito discriminatorio, ma attraverso vere e proprie prove effettuate serenamente sulla base dei propri titoli e sul campo di lavoro, seri e oggettivi criteri di selezione meritocratica preposti a individuare e a valorizzare,  i migliori, i più capaci, i più competenti in ogni campo professionale, in ogni ambito della vita civile.  

La gente, cioè, anche grazie a quel moto storico-sociale di strafottenza generalizzata, non avrebbe voluto che le cose venissero fatte proprio per bene, non avrebbe aspettato né auspicato maestri di pensiero e di vita, docenti preparati e con la schiena diritta, veri e solidi intellettuali, dirigenti autorevoli e qualificati, per il semplice fatto che in ipotetici spiriti integri di questa fatta, non più venuti alla luce in modo fortuito o occasionale e per mezzo di pratiche corruttive e clientelari ma perché dotati di indiscutibile talento e dunque per ragioni di merito effettivo, la gente, l’uomo-massa più che l’uomo comune, sarebbero costretti a prender coscienza della propria mediocrità. Meglio avere a che fare con individui che abbiano all’in circa le nostre stesse idee, il nostro stesso modo di affrontare la quotidianità, la nostra propensione a barcamenarci alla meno peggio nelle complicate vicende della vita, cioè meglio avere a che fare con persone semplici e sbrigative come siamo noi, con persone che non pretendano di cambiare, di riformare, di ristrutturare le proprie esistenze. In fondo, il vantaggio sarebbe reciproco: certo, anche per quelli che sono incaricati di pensare, di educare, di dirigere, riformare, trasformare il volto invecchiato e rassegnato di una società costituzionalmente passiva, pigra, apatica, indifferente a tutto tranne che al proprio presunto utile personale. Sempre meglio, insomma, essere accettati dalle masse che tentare di sottoporle a rischiose terapie d’urto. Meglio non rischiare di apparire antidemocratici!

Se l’ipotesi non resta molto lontano dal vero, la conseguenza che ne deriva, però, è abbastanza amara, perché generalmente quanti non sono disposti a conoscere se stessi, a lavorare sui propri difetti e limiti, ad accogliere di buon grado i buoni consigli e a far proprie buone pratiche di vita, danneggiano non solo se stessi ma anche gli altri, soprattutto gli altri, ivi compresi quanti siano in possesso di una diversa indole e animati da intenzioni etico-sociali più collaborative e costruttive.

Tuttavia, i maestri, che sono una speciale categoria di intellettuali, i maestri, non i divi televisivi e mediaticamente osannati ma spiriti liberi e colti, anonimi o periferici, esisteranno sempre, anche se forse saranno sempre di meno, esisteranno persino in condizioni ambientali e di vita particolarmente difficili e umilianti, perché è la stessa vita creata che ha bisogno di lucidi e sapienti educatori, perché maestri, sia pure in un senso infinitamente subordinato alla figura del divino maestro a molti carissima, non ci si improvvisa e non si deve essere autorizzati ad esserlo, ma semplicemente si è o non si è non solo per un solido bagaglio di conoscenze gradualmente acquisito e consolidato ma soprattutto per una speciale qualità di natura che si chiama «vocazione e dedizione al compito educativo», nel contesto scolastico-culturale e politico-sociale8.

Un grande cruccio è provocato dal fatto che tanti sacerdoti cattolici, pur beneficiando di corsi regolari di studio e dediti con passione alla ricerca e all’approfondimento critico di importanti temi etici e religiosi, non sempre siano in grado di tradurre il loro sapere in capacità relazionali e in modelli intellettuali e spirituali simili, almeno per approssimazione, a quelli di veri maestri di vita e di pensiero.

  Francesco di Maria

NOTE

1 F. Attal, Histoire des intellectuels italiens au XX siècle. Prophètes, philosophes, experts, Paris, Les Belles Lettres, 2013.

2 G. Pacchiano, Di scuola si muore, Milano, Feltrinelli, 1998.

3 Su questi aspetti del problema, sarebbe utile confrontare Remo Ceserani, Intellettuali in liquidazione. Etica e morale, in “Inchiesta on line” del 29 gennaio 2013, che però aveva, a mio avviso, il torto di essere troppo protettivo verso i suoi colleghi intellettuali, scaricando invece ogni responsabilità eticamente disfattista principalmente sulla società mediatica.Particolarmente significativo era stato invece il sostanziale rigetto dell’intera esperienza sessantottesca di Eugenio Garin, il quale, nella sua Intervista sull’intellettuale, a cura di N. Ajello, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 68-69, avrebbe scritto: «Il clima complessivo che ne derivò portò Garin a considerare «il Sessantotto … una delle vicende più malinconiche che io ricordi, con tutti i suoi risvolti, le sue conseguenze e i suoi echi di ogni genere», che nella scuola e nell’Università «non aveva migliorato in nulla la situazione; l’ha peggiorata molto, gravandola anche di astratti ideologismi». La conseguenza di quel giudizio e di quello stato d’animo sarebbe stata l’abbandono della Facoltà di Lettere e Filosofia nella prima metà degli anni ’70 e il trasferimento alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove gli studenti potevano anche fare la rivoluzione ma studiando seriamente e non, come era accaduto a Firenze, per bighellonare in senso fisico e intellettuale, disertando le lezioni e facendo, in più e più modi, i propri comodi, certi che in ogni caso si sarebbero ben sistemati nella società e nella stessa università borghesi che allora avevano contestato.   

4 R. Pertici, L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta, in AA.VV., 40 anni dopo: il sessantotto in Italia fra storia, società e cultura, a cura di B. Coccia, Roma, Apes, 2008, p. 184.

5 P. Pombeni, Che cosa resta del ’68, 2018, Bologna, Il Mulino.

6 Da questo punto di vista, appare carente un libro comunque istruttivo come D. L. Zinn, La raccomandazione. Clientelismo vecchio e nuovo, Roma, Donzelli, 2021.

7 A. Bertante, Contro il ’68. La generazione infinita, Milano, Agenzia X, 2007, che è una critica intelligente e serrata da sinistra della glorificazione ancora oggi non di rado ricorrente del movimento sessantottesco.

8 Sui maestri di pensiero e di vita, può tornare utile la lettura di un libro come L. Rossi, Maestri di vita, Borgomanero (Novara), Giuliano Ladolfi Editore, 2014, anche se qui li si intende in senso specificamente storico-filosofico, mentre io li intendo come figure disseminate e spesso disconosciute in molti altri ambiti dell’organizzazione sociale.

 

 

 

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