Giulio Giorello tra scienza e ateismo

Io, contrariamente a tanti rispettosi necrologi e a tanti commossi e vibranti elogi funebri dedicati allo scomparso Giulio Giorello, non trovo condivisibile la definizione di quest’ultimo che spesso vi si trova formulata come di “un filosofo della scienza e della libertà”. Filosofo, anzi grandissimo filosofo della scienza, Giorello lo è stato certamente, anche se non tanto sul piano di un’originale elaborazione teorica (dove più propriamente i nomi da fare sono quelli di Popper, Kuhn, Lakatos, solo per citarne alcuni dei molti realmente innovatori del secolo scorso), quanto principalmente sul piano della divulgazione scientifica, sempre chiara, precisa e inappuntabile, con un encomiabile sforzo volto non a volgarizzare in modo scadente ma a rendere accessibili al grande pubblico, nel loro effettivo significato, questioni molto complesse della e delle scienze anche o soprattutto in rapporto all’etica e alla vita sociale e culturale. Non sono invece convinto che egli sia stato anche, se le parole devono avere un senso preciso e non generico, un filosofo della libertà, intanto perché della libertà non mi risulta che abbia mai sperimentato personalmente privazioni particolarmente significative, né sul piano umano, né sul piano civile e culturale, né sul piano politico. Giorello non ha patito una dittatura, e anzi mentre altri pensatori italiani di sinistra protestavano contro l’imperialismo e il feroce militarismo sovietico egli si attardava ancora a difendere con il suo maestro Ludovico Geymonat la dottrina ufficiale dell’ortodossia sovietica, quel funesto DIAMAT o materialismo dialettico di cui nel ’74, da buon dogmatico, veniva tessendo le lodi e segnalando addirittura l’attualità (alludo al volume di Bellone, Geymonat, Giorello,  Tagliagambe, Attualità del materialismo dialettico, Roma, Editori Riuniti, pp. 9-51).

Filosofi di libertà e anche maestri di morale, anche se per vie talvolta anche molto diverse, sono altri: un Piero Martinetti, lo stesso Geymonat che si sarebbe sempre impegnato appassionatamente sul terreno certo e solido dei diritti sociali ma che avrebbe sempre responsabilmente disertato il campo ben più ambiguo e scivoloso della lotta per i nuovi “diritti civili” (omosessuali, unioni civili, eutanasia e quant’altro), un Luigi Pareyson, un Emmanuel Mounier, un Karl Popper, per esempio.

Al di là dei nomi, che sono sempre opinabili o comunque rispondenti a criteri non di rado soggettivi, resta il fatto che quello di libertà è concetto molto più complesso, articolato e sfuggente di quanto possa sembrare e, per ciò che riguarda Giorello, sussistono fatti oggettivi da cui si evince come egli vivesse il valore della libertà in modo molto ambiguo. Lottava per la classe operaia ma difendeva l’ideologia marxista sovietica, amava l’eresia della scienza ma non gli eretici marxisti che nel nome e per conto della libertà della classe operaia si rivoltavano contro la cecità intellettuale e politica, contro il dogmatismo ideologico degli apparati autoritari e repressivi sovietici e della stessa classe dirigente del partito comunista italiano a guida togliattiana. Ma sul terreno stesso dell’epistemologia Giorello avrebbe impiegato parecchio tempo prima di scoprire l’incontenibile forza della conoscenza razionale e scientifica e le sue multiformi possibilità di espansione o incidenza critica. La sua polemica verso lo stesso Popper è piuttosto emblematica. In ritardo su Popper, circa cioè l’accoglimento e la comprensione del suo pensiero, sarebbe stata in vero tutta la cultura italiana di allora: socialisti, liberali, marxisti critici e ortodossi, cattolici. Ma, per l’appunto, Giorello, e si ricorderà la sua polemica, sia pure priva di toni troppo accesi, contro la radicale critica popperiana del marxismo (I bersagli di Popper, in “Unità” del 12 aprile 1975), non avrebbe fatto eccezione: in ritardo come gli altri e più di altri considerata la sua professionale competenza epistemologica. In effetti, solo nel corso degli anni ’80, quando ormai appare chiaro l’ineluttabile sfaldamento internazionale dell’universo teorico-pratico marxista e comunista, Giorello, al pari di altri ex marxisti, viene folgorato sulla via di Damasco convertendosi al liberalismo e al “popperismo”.

Giorello, pur elogiando il suo maestro di cui avrebbe ereditato la cattedra di filosofia della scienza, avrebbe dimostrato di non possederne la stessa stoffa sotto il profilo morale e di essere molto più approssimativo di lui in materia religiosa. Si sarebbe infatti buttato a capo fitto nella bagare antiproibizionista di un laicismo sempre più marcatamente antireligioso e anticattolico, spacciando spesso per libertà ciò che era semplice licenziosità e per virtù forme palesi o nascoste di perversione. Lo avrebbe fatto nel nome della libertà, manifestandosi persino interessato, seppur con spirito laico, ai valori biblico-religiosi ma solo in funzione della sua astuta esigenza di apparire più tollerante di quanto non fosse. Fu dunque quella di Giorello solo semplice e onesta evoluzione intellettuale o interessato trasformismo etico-filosofico? La domanda non è maliziosa o cattiva, ma necessaria e volta solo a sottolineare come l’amore per la libertà di pensiero e di coscienza è qualcosa di molto più ambiguo di quanto si possa credere, proprio là dove Giorello, tra altri, a mio avviso non avrebbe mai fatto radicalmente i conti con questo nodo oggettivo della vita spirituale in senso lato e della sua stessa esperienza etico-esistenziale.

D’altra parte, l’idea di libertà per Giorello è quella che si colloca nella sua prospettiva libertaria, che non va confusa, avverte lui stesso, con una prospettiva libertina. Nel caso specifico, libertarismo sarebbe stato sinonimo di antiautoritarismo, di antidogmatismo, di anticlericalismo, di anticonformismo, in altri termini di ostinata razionalità critica e problematica e di amore per gli eretici della scienza come della fede e della storia della Chiesa, quasi che un semplice credente in Cristo non potesse risultare senza proclamarlo, proprio in quanto tale e in base ai princìpi e ai dogmi della sua stessa fede, ancora più libero, più antiautoritario e antidogmatico, più anticlericale e anticonformista di qualche geniale e tuttavia prevenuto e settario filosofo della scienza. Giorello lamentava spesso che la libera società contemporanea fosse ancora soffocata o condizionata da troppa presuntuosa e pretenziosa teologia, mentre il problema per lui era che, da una parte, la fede religiosa e in particolare cattolica avrebbe potuto essere oggetto di maggiore e più rispettosa considerazione se si fosse aperta realmente al sapere scientifico e avesse cominciato a fare davvero i conti con tutta una serie di problematiche da quest’ultimo sollevate; mentre, dall’altra, reclamava che tale fede non  dovesse più pretendere di condizionare il dibattito pubblico o di influire su decisioni politiche da assumere solo alla luce di liberi princìpi democratici, ma potesse e dovesse valere esclusivamente in un ambito privato e in termini di semplice “opzione”. Ma perché mai, gli avrei chiesto se mi fossi trovato al posto del suo amico vescovo Carlo Maria Martini, un cattolico che è convinto della fondatezza spirituale e razionale del messaggio evangelico e quindi anche dei comandi di Cristo Gesù, in accordo con il giudizio e il sentire della sua grande comunità d’appartenenza, dovrebbe poi astenersi dal tentare di compiere il suo dovere, ovvero di portare in pubblico la sua testimonianza di fede? Non ha detto forse Gesù ai suoi amici che avrebbero dovuto essere “luce del mondo” e “sale della terra”?

Già: ma i dogmi vanno contro il principio di razionalità. E la scienza, tuttavia, non ha anch’essa i suoi princìpi indimostrabili, i suoi assunti aprioristici, i suoi assiomi, i suoi teoremi e corollari, che, pur sottraendosi ad ogni possibilità logico-dimostrativa e ad ogni evidenza empirico-sperimentale, assolvono tuttavia la fondamentale funzione di orientare i processi piccoli e grandi della ricerca e dell’impresa scientifiche e di rinnovare le stesse strutture portanti della complessiva indagine scientifica? La scienza è certo una grande e universale forma di conoscenza, ma non è né l’unica né necessariamente la più importante, ed è anche vero che la razionalità scientifica, pur essendo strumento di libertà oltre che di verità, non può pretendere di configurarsi quale principale o esclusivo strumento di libertà e di verità. Peraltro, la storia della scienza è stracolma di scienziati credenti e cattolici, a cominciare da Galileo Galilei. Scienziati che sapevano, e noi sappiamo con loro, che non è la scienza che potrà salvare l’uomo, come Giorello sosteneva, e infatti la scienza, purtroppo, non lo ha salvato dal coronavirus. Il vangelo della salvezza integrale dell’uomo era stato proclamato più di duemila anni addietro da un signore un po’ più dotto ed esercitato di lui nel difficile mestiere del dire e del comunicare la verità, ma il filosofo italiano della scienza, pur dotato di una potentissima armatura logico-epistemologica, non ha mai ritenuto che la grande lezione del Cristo potesse offrire un qualche e sia pur modesto motivo di interesse dal punto di vista epistemologico.

Sembra che i colpevoli di questa sua ostinata o rigorosa chiusura alla fede e al sacro siano stati tre personaggi: il suo vecchio professore liceale di religione, don Alberto Giussani, che pretendeva di imporgli la fede privandolo del suo spirito critico; il suo grande maestro Ludovico Geymonat (e in vero mai particolarmente astioso verso il cattolicesimo) che, durante il periodo degli studi universitari, gli avrebbe instillato il grande fuoco della libertà intellettuale e morale attraverso un insegnamento basato su un uso critico e antimetafisico della ragione, sull’esaltazione della scienza moderna come modello insuperabile di conoscenza anche in rapporto alla sfera morale, su un ideale laico di tolleranza e di convivenza etico-civile; e infine il filosofo inglese Bertrand Russell, autore del libro “Perché non sono cristiano”, da cui Giorello era rimasto colpito non solo e non tanto per gli argomenti in esso espressi (che, in realtà, erano robetta da “Grand Hotel”, il settimanale allora molto venduto e apprezzato da ceti popolari di bassa cultura), quanto soprattutto “dal tono amabile e piacevolmente ironico con cui erano formulati” (Giorello, La lezione di Martini. Quello che da ateo ho imparato da un cardinale, Piemme 2013, p. 9).

Uno si può chiedere come questo genere di esperienze giovanili possano incidere significativamente su un intelletto adulto e maturo circa la capacità e la volontà di elaborare in modo assolutamente autonomo determinate convinzioni in materia di fede religiosa. Eppure, pare che per Giorello sia stato possibile: una mentalità ingiuntiva, uno spirito critico di prim’ordine, una relativa lucidità argomentativa accompagnata da una tipica ironia inglese, avrebbero prodotto il cosiddetto “ateismo metodologico” del filosofo Giorello.

“Ateismo metodologico”: come dire io sono o faccio l’ateo al fine di capire su che cosa esattamente si basa la tua fede, quali siano le loro interne e reali articolazioni, quali siano le effettive modalità comportamentali attraverso cui viene manifestandosi. E per fare questo occorre essere atei in senso metodologico? Il lavoro metodologico che Giorello rivendica per l’ateo può farlo benissimo anche il credente. Evidentemente su questo punto il filosofo milanese o ignorava o non seguiva il cardinal Martini (C. M. Martini, Cattedra dei non credenti, Rusconi 1992, p. 5). Ma poi cosa può importare a un non credente se il credente che gli sta ogni volta davanti è un credente davvero intelligente, sincero, leale, oppure un credente falso, autoritario, prevenuto, intollerante? Certo, l’esempio è importante, ma, in ultima analisi, per un grande intellettuale il problema non dovrebbe essere semplicemente quello di trovare delle risposte all’interno della propria coscienza? Bisogna decidersi a credere: la fede non può essere acquisita in altro modo, dice Giorello, e io non ho ancora deciso né forse deciderò anche in futuro di accogliere la “buona novella” (La lezione di Martini, op. cit.). Questo è il punto: si deve decidere se essere di, con e per Cristo, o se essere e restare senza Cristo. Ma chi decide di restare senza Cristo (Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo, Longanesi 2010), lo voglia o no, decide anche di mettersi contro Cristo, perché anche la più obiettiva delle indifferenze o dei distacchi critici esprime sempre una contrarietà a quella via, verità e vita. Si è o non si è atei e basta: le metodologie valgono nella ricerca scientifica, non nella ricerca spirituale e religiosa, allo stesso modo di come l’eresia può essere talvolta utile all’impresa scientifica ma non certo alla causa della fede in Cristo, il che non significa che la fede non sia sempre conquista e mai semplice e statico possesso o che il dubbio non abbia alcun ruolo da svolgere in una sincera e intensa esperienza di fede.   

Il relativismo scientifico non collide necessariamente con la fede in Cristo anche se può collidere con determinate forme storiche che essa viene assumendo, e non è detto che il credente in Cristo non possa trarre prezioso alimento dalla fede nella razionalità scientifica, in cui tuttavia non può esaurirsi l’idea stessa di scientificità. Il cristiano, in un certo senso, è anche lui un libertario, un anarchico, un anticonformista, nel senso che, in virtù dell’azione salvifica svolta costantemente su di lui dallo Spirito santo, si sente libero in Cristo da tutti gli altri poteri terreni, da quello statuale a quello giuridico e istituzionale, da quello delle gerarchie politiche ed ecclesiastiche a quello di tradizioni e riti puramente umani, da quello economico e finanziario a quello del pensiero dominante ivi compresi determinati modelli scientifici e culturali, pur essendo oggettivamente e fisicamente soggetto ai loro pressanti condizionamenti. Non è detto, d’altra parte, che il cristiano debba essere per forza autoritario, dogmatico e intollerante, anche perché la realtà storica è lì a dimostrare che molti atei sono stati e continuano ad essere molto più autoritari, dogmatici e intolleranti dei migliori spiriti cristiani.

Quanto alla libertà, tutti sanno che per l’universo cristiano e cattolico libertas est in Christo, per cui tutto ciò che si allontana manifestamente dagli insegnamenti e dai precetti evangelici, ivi compreso un certo tipo di ecumenismo e di pluralismo, non può trovarvi accoglienza o udienza di sorta. Peraltro, la libertà libertaria tanto cara a Giorello ha delle evidenti e disastrose controindicazioni, perché bisogna pensare a che cosa sarebbe della vita sociale se tutti la condividessero e la facessero propria: meglio non pensarci!

Se Giorello ha deciso di rimanere ateo per tutta la vita, ciò non è stato richiesto necessariamente né dalla libertas philosophandi, essendo le vie del pensiero razionale quasi infinite come quelle del Signore, né di certo è accaduto per la consapevolezza delle tante storture della storia del Cristianesimo come delle altre religioni, o a causa dei terribili mali presenti nel mondo, o infine a causa degli usi autoritari, distorti e strumentali, fatti talvolta dalla Chiesa nel nome e per conto di Dio. Inoltre, egli ha avuto torto nel tacciare di oscurantismo la Chiesa tutte le volte che essa ha ritenuto doverosamente di intervenire criticamente sui “progressi” o sulle “conquiste” raggiunti dalla scienza e dalla tecnica sia nel campo della natura fisica e cosmica, sia in quello della cura della salute e della promozione della dignità personale, come infine nell’organizzazione della vita sociale e culturale. Ci mancherebbe altro! Giorello avrebbe voluto forse una Chiesa come semplice spettatrice, ma purtroppo per lui non furono questi il compito e il ruolo che le furono affidati. La Chiesa è tenuta a vigilare sul senso o non senso globale dello sviluppo tecnico-scientifico, sulle possibili ricadute negative delle o di certe scoperte scientifiche sul terreno della concreta esistenza umana, ed è tenuta altresì ad ammonire i governi e i popoli del mondo circa le pratiche corruttive e manipolatrici, le spregiudicate logiche di profitto e di potere volte a destabilizzare anche interi assetti istituzionali e democratici, che si possono trovare sottese a certi vorticosi e rapidissimi processi di trasformazione della condizione umana, secondo la rappresentazione che di essi viene data da quel movimento di pensiero noto come “transumanesimo” (Cfr., tra altri, R. Campa, Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Sestante Edizioni 2010).

Può non piacere quel che al riguardo dice o non dice la Chiesa, ma qui ognuno deve semplicemente assumersi le sue responsabilità senza sollevare polveroni mediatici in cui tendano a dissolversi tutte le differenze culturali, morali e religiose delle parti in causa, sia per coprire eventuali insuccessi scientifici, sia anche per demonizzare qualunque apporto di natura religiosa e/o di segno specificamente cattolico o infine per crearsi degli alibi. La Chiesa non vuole impedire ad alcuno di usare della sua libertà, di esercitarla in vista di questo o quel risultato, di questo o quello scopo, ma ha il dovere di indicare quali potrebbero essere le conseguenze delle diverse possibili scelte. La Chiesa non ha e non avanza la pretesa di imporre una linea o delle limitazioni o delle semplici direzioni di marcia a scienza e tecnica, per il semplice fatto che non appartiene alla fede cattolica in quanto tale la pretesa di una reductio ad unum, perchè anzi  tale fede comporta il rispetto e la valorizzazione di quella ricchezza inesauribile di doni divini, di carismi, di modi di pensare la vita e di agire in essa, che concorrono alla costruzione del Regno. Alla fine, certo, recita il vangelo, il grano dovrà essere separato dalla zizzania, anche se la lotta tra questi due elementi è già interna ad ognuno di noi, ma la fede, nel corso della vita e della storia, anche o proprio perchè consapevole di come essa affligga ogni coscienza umana, non pretende niente da nessuno, ad eccezione di coloro che si professano credenti in Cristo e che pertanto sono chiamati a combattere coraggiosamente quella battaglia spirituale da persone vincenti e non da persone rassegnate alla sconfitta. Non è per niente chiara, perciò, l’accusa giorelliana, spesso rivolta alla Chiesa, di fondamentalismo, di intolleranza, di intransigenza dogmatica e reazionaria rispetto ai grandi temi civili e alle grandi aspettative etiche sempre emergenti dalle viscere della storia, come se quest’ultime producessero o vomitassero solo materiale nobile e non anche materiale vile e privo di qualunque pregio. 

Ma è specialmente in rapporto alla scienza come eminente attività critico-razionale, fondata sul nesso tra logiche dimostrazioni ed esperienze sensibili empiricamente controllabili, che si è fatta particolarmente aspra la polemica giorelliana antiteologica e antiecclesiastica, benché l’intellettuale milanese abbia sempre ben saputo che ormai la Chiesa cattolica non può più pretendere, anche volendo, di assegnare alla filosofia e alla scienza una funzione ancillare rispetto alla teologia e al sapere religioso. Magari con un certo ritardo, ma la Chiesa è capace di aggiornare storicamente le sue posizioni e sa anche chiedere perdono per eventuali errori commessi in epoche passate. Avrebbe dovuto riconoscerlo un libero pensatore come Giorello, il quale però ha sempre coltivato intimamente un’aspettativa che naturalmente la Chiesa non potrà e non dovrà mai soddisfare: quella per cui la teologia si ponga a rimorchio del sapere scientifico e cominci ad emettere delle sentenze del tutto compatibili con le scoperte teoriche e le relative possibilità applicative via via scaturienti dai sempre più sofisticati laboratori di ricerca di cui è sempre più disseminato il pianeta. Questo era il sogno di Prometeo: rendere l’uomo autosufficiente attraverso una conoscenza razionale non eterodiretta (da Dio) ma autodiretta e quindi acquisibile autonomamente, contrapporre la libertà dell’ingegno umano alla tirannia di una oscura volontà divina, fare dell’uomo e non più di Dio la misura di tutte le cose e quindi anche del bene e del male. Ma il titanismo etico-scientifico da Giorello vagheggiata è solo una possibilità, non certo l’unica possibilità in cui venga manifestandosi ed esercitandosi criticamente la libertà umana e la stessa libertas philosophandi, giacchè, checchè ne pensasse il filosofo milanese della scienza, libertà filosofica è anche quella di chi, rifiutandosi a giusta ragione di venerare la scienza come una specie di indefettibile divinità, si esercita piuttosto continuamente nel faticoso tentativo di cercare i fondamenti, le strutture sempre più solide e rocciose dell’esistenza e del sapere.

Francamente, Giorello qui non si accorge di peccare di incoerenza, perché il cattolico, al pari dell’ateo o del non credente, ha il diritto non solo generico ma specificamente logico-metodologico di cercare quello che vuole e come vuole, per mezzo di strumenti euristici o ermeneutici sempre suscettibili ovviamente di essere validati o invalidati nell’ambito di una comunità scientifica universale perennemente aperta al dibattito e al confronto. E, poiché, almeno al momento, Dio non è ancora oggetto di dibattito scientifico, tutti coloro che, essendo convinti di poterlo incontrare prima o poi “faccia a faccia”, proveranno tuttavia con grande umiltà a farne oggetto non solo di fede e adorazione religiosa ma anche di paziente e sia pure atipica indagine “scientifica” anch’essa opzionalmente implicita in una più complessiva ricerca spirituale, non potranno essere certo tacciati di misticismo o di irrazionalità ma dovranno semmai essere tenuti in grande considerazione e rispetto.

Beninteso, Giorello non ha negato la legittimità della scelta religiosa in sé ma la legittimità di una scelta religiosa che non si configuri quale semplice opzione “privata” e intenda invece influire sul piano sociale e politico, sul piano morale e giuridico ivi compreso il dibattito bioetico, e in sostanza su tutte quelle decisioni pubbliche che dovrebbero essere assunte laicamente secondo i canoni della democrazia liberale che non ammette intromissioni o interferenze di natura religiosa. Ma questo modo di ragionare è singolarmente privo di logicità perchè muove dal falso presupposto che la democrazia chiami gli individui a partecipare ai complessivi processi decisionali di uno Stato etsi Deus non daretur, che secondo molti pensatori atei più che laici, sarebbe l’assunto (di derivazione groziana) della laicità. Il problema, però, è che gli individui sono cittadini in quanto uomini, con un carico ineliminabile di convincimenti, di credenze, di sentimenti, di concezioni della vita e del mondo, e, pur non potendo imporre ad altri il proprio vissuto e il proprio credo, hanno il sacrosanto diritto di professare le idee che vogliono anche al fine di diffonderle, di farle circolare pacificamente, di estenderle a quanta più gente possibile, e in sostanza di finalizzarle al perseguimento di una condizione umana non sorda o meno sorda al senso del divino. Credente o ateo, spiritualista o materialista, ricco o povero, intelligente o stupido: ognuno esprime liberamente il suo pensiero e vota per quel che gli pare. Molti sono ancora giustamente affezionati a ques’idea di democrazia.

Una volta si parlava di un politeismo di valori e già questo costituiva una sfida notevole per i cristiani impegnati in politica in quanto la testimonianza della loro fede in una società sempre più irreligiosa e pagana sarebbe stata quanto mai ardua e faticosa, talvolta persino lacerante. Adesso uno scientista come Giorello, perché in sostanza i suoi modi civili, cortesi, colloquiali, non ne hanno mai modificato lo spirito e l’impegno fondamentalmente anticristiani, era venuto a spiegarci che il credente merita rispetto sul piano etico-culturale solo se è capace di adattare le sue convinzioni religiose alle conoscenze sempre relative ma universali della scienza, quasi che tali conoscenze fossero interpretabili in modo univoco e cozzassero inevitabilmente con i dogmi della fede religiosa. Certo, egli lodava il cardinale Martini ma lo lodava essenzialmente perché un importante personaggio della Chiesa e del pensiero cattolici lo aveva onorato pubblicamente della sua stima intellettuale e della sua vicinanza morale, non per molto altro: diciamo pure per una questione di ulteriori lustro e visibilità personali. Martini ha sempre battuto, da fedele discepolo di Cristo, sulla realtà salvifica della santa eucaristia, sulla risurrezione di Cristo, sulla risurrezione dei morti, sulla vita eterna. E’ da questi punti fermi della fede che discendono inevitabili conseguenze per tutti i piani e gli aspetti dell’esistenza umana.

La scienza non è nemica della fede, semplicemente perché è un prezioso dono di Dio, ma usarla prometeicamente, e sia pure in modo indiretto, contro una storia universale di fede, di testimonianza, di militanza, di martirio religioso, alimentata solo ed esclusivamente dalla Parola eterna e salvifica di Dio e non certo dalla Parola sempre relativa e fallibile della Scienza, può significare solo una cosa: voler fare della conoscenza sempre rivedibile e approssimativa dell’uomo di scienza l’unico assoluto della vita degli uomini. Il che non può essere, semplicemente perchè il principale nemico dell’uomo, la morte, che bisogna pur sapere accettare, non potrà essere mai vinta dalla scienza ma solo dalla fede o meglio dalla misericordiosa potenza divina cui la fede rinvia. L’orizzonte della verità è molto più ampio di quello scientifico, ma il filosofo-scienziato Giulio Giorello, pur così avvezzo a fare uso delle congetture più immaginifiche della scienza, non ha né saputo né voluto immaginare, pur astenendosi dal tentativo di giustificare il suo ateismo con vecchie e inutili argomentazioni teoretiche, che quell’orizzonte potesse appartenere realmente ai “nuovi cieli e alla nuova terra” di cui parla nell’Apocalisse (da lui trattato come una specie di fiaba o di mito) l’apostolo Giovanni.

Giorello non ha inteso spalancare le porte a Cristo, forse anche per paura di scoprire che la presunta e più volte asserita umiltà della scienza non figurasse neppure ai livelli più bassi di un’umiltà reale e non mistificata e che l’uomo di scienza potesse essere persino più insignificante del più modesto degli esseri pensanti. Ma i cattolici oggi, con tutta la sincerità di cui sono capaci, sperano e pregano che il loro Dio voglia spalancargli le porte del Paradiso.

Francesco di Maria

 

 

 

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