Fare chiarezza su Antonio Banfi

Sarebbe difficile sostenere che Antonio Banfi sia stato non solo un insigne filosofo italiano ma anche un uomo di grande coraggio e di intrepida moralità. Sono tra coloro che hanno ben evidenziato pregi e limiti della teoresi banfiana, benché abbia esercitato questo tentativo in aperta dissonanza dagli interpreti più “ortodossi” del pensiero banfiano. Ho sempre sostenuto che il miglior Banfi, il Banfi filosoficamente più efficace e fecondo, è il Banfi razionalista o più precisamente critico-razionalista che si sarebbe accostato al marxismo per un’esigenza “pratica” più che “teorica” tentando di riversare su esso, in vero con scarso successo, l’impianto critico-trascendentale del suo stesso razionalismo al fine di farne non una dottrina dogmatica e chiusa all’apporto di altre importanti correnti filosofiche contemporanee ma uno strumento di analisi particolarmente utile e significativo nel quadro della storia e della cultura del ’900. 

Alla lunga, però, il filosofo Banfi sarebbe rimasto prigioniero del politico Banfi, nel senso che la libertà di pensiero del primo sarebbe apparsa sempre più subalterna alla passione ideologica e alla militanza del secondo, evidenziandosi pertanto in lui una sorta di conflittualità tra un’antica esigenza di chiarezza razionale e di problematicità critica e una subentrata esigenza di attiva e intensa partecipazione alla lotta contro un fascismo ormai moribondo (non si deve dimenticare che Banfi si inscrive al partito comunista italiano solo tra il 1941 e il 1943) e, successivamente, alla lotta per la costruzione in Italia di una democrazia repubblicana laica e progressista. Non osò mai mettersi contro la linea politica del partito di Togliatti, né per difendere la libertà intellettuale e morale di un suo grande amico e collaboratore come Remo Cantoni, né per protestare contro la sudditanza dei comunisti italiani nei confronti della Russia stalinista, né tanto meno per solidarizzare con il popolo ungherese duramente represso nel ’56 dall’esercito sovietico.   

Peraltro, Banfi, al pari di molti altri intellettuali italiani del periodo fascista, non fu mai un cuor di leone nella vita pratica, a dispetto delle sue pagine filosofiche, in particolare quelle della fase comunista, che non di rado grondano un ardimento quasi lirico. In vero, egli, pur prendendo i suoi rischi durante la Resistenza come partigiano, ebbe una sola grande occasione per dimostrare sul serio la natura del suo temperamento morale: quella in cui, essendo diventato da poco professore universitario grazie soprattutto al parere favorevole anche se non del tutto lusinghiero di Giovanni Gentile, dovette decidere nell’ottobre del 1931 se firmare o meno il giuramento di fedeltà al regime fascista (che era stato promulgato nell’agosto dello stesso anno).

Com’è noto, l’unico professore universitario italiano di filosofia che si sarebbe rifiutato di aderire a quel giuramento sarebbe stato Piero Martinetti, mentre Banfi che da poco aveva vinto il concorso alla cattedra di storia della filosofia decise di tenersi la cattedra tanto agognata, come del resto avrebbe fatto la quasi totalità degli accademici italiani.

Non è che qui, naturalmente, si voglia criminalizzare Banfi per non aver saputo o voluto dare prova di particolare eroismo, ma d’altra parte non è corretto sorvolare su questo episodio accampando a difesa del filosofo lombardo tutte le scuse del mondo, anche perché ne basterebbe una sola: la debolezza umana, l’umana ambizione di occupare una prestigiosa cattedra universitaria. Non è certo un delitto, ma non è moralmente giusto, né razionalmente plausibile sostenere che, come ha fatto Fabio Minazzi, Banfi, che, nel suo racconto, sarebbe stato sulle stesse posizioni del maestro Piero Martinetti e non avrebbe quindi inteso sottoscrivere il suddetto giuramento di fedeltà, in realtà sarebbe stato esortato e convinto proprio da quest’ultimo ad accettare la cattedra meritatamente conquistata senza preoccuparsi di sottrarsi al giuramento stesso (Il problema del razionalismo critico nella scuola di Milano, Università degli Studi dell’Insubria, 17 febbraio 2015) perché solo in questo modo avrebbe potuto dare con il suo insegnamento universitario, e in chiave antifascista, un notevole contributo alla formazione etico-intellettuale di tante generazioni di giovani studenti.

Recentemente Minazzi, che ha partecipato ad alcuni incontri romani di studio dedicati a Banfi intellettuale e politico, ha precisato che questa vicenda è verosimile benché non esista al riguardo alcun documento ufficiale (Convegno dal titolo Antonio Banfi: intellettuale e politico, tenutosi nella Biblioteca del Senato della Repubblica, sala degli Atti parlamentari, in data 18 luglio 2019), ma con tutto il rispetto per questo valoroso studioso non mi è sembrato né utile né opportuno accennare a una storia del genere appena verisimile, anche in considerazione della particolare importanza morale che essa potrebbe rivestire ai fini di una più rigorosa valutazione della tempra morale del filosofo lombardo. Se non è certo che questo fatto sia realmente accaduto, per quale motivo si sente il bisogno di raccontarlo in forma di molta incerta verosimiglianza?

Non voglio credere che le parole di Minazzi siano volte a tirar fuori Banfi dal gruppo di intellettuali comunisti italiani universalmente stimati per l’appunto sul piano intellettuale ma anche chiacchierati sotto il profilo morale. Anche perché non sarebbe necessario: ognuno è grande, non a prescindere dai propri limiti ma anche con i propri limiti. E Martinetti allora? Martinetti, per esempio, immenso dal punto di vista etico-civile, non è detto sia stato teoreticamente efficace e fecondo come, a parte i “Princìpi di una teoria della ragione” del ’26, opera banfiana importantissima anche se giudicata “talvolta oscura e involuta” da Gentile che pure gli avrebbe dato la cattedra, lo sarebbe stato Banfi. Ma, d’altra parte, anche se fosse vero quel che riferisce Minazzi, sarebbe ragionevole pensare che, su una questione morale cosí delicata come quella in oggetto, potesse bastare la parola pure autorevole e affettuosa di Martinetti a convincere il suo allievo a non prendere una decisione che avrebbe potuto costargli cara? Certo, Banfi era proprio all’inizio della sua carriera accademica mentre quella del suo maestro volgeva alla fine, ma anche questa motivazione avrebbe potuto far innocentemente breccia nella coscienza di un giovane intellettuale che in fondo si era già esposto pubblicamente con precise scelte di campo dal punto di vista etico-politico quali apparivano già nei suoi primi scritti e nei suoi primi incarichi politico-culturali e riassumibili, a mio avviso, in quel che può essere definito come il suo giovanile socialismo umanitario? E, inoltre, Martinetti, con quel presunto consiglio dato al suo valido e sensibile allievo, non avrebbe rischiato di fargli sorgere il dubbio di non essere all’altezza della situazione e soprattutto di non possedere il suo stesso coraggio?

Piuttosto, potrebbe apparire più attendibile l’interpretazione formulata circa un ventennio fa da Simonetta Fiori (I professori che dissero no a Mussolini, in “La Repubblica” del 16 aprile 2000), figlia del grande e compianto storico Giuseppe Fiori, secondo la quale sbaglierebbe «chi cercasse tra gli irriducibili», non disposti a giurare, «dei pericolosi sovversivi», benché certi pacifici atti di assoluta libertà intellettuale e integrità morale vengano talvolta percepiti dal potere costituito, specialmente se di natura dittatoriale, come terribilmente pericolosi ed eversivi.

In cosa consiste dunque questa interpretazione? Consiste nel rilevare come «gli accademici più a sinistra» seguissero «il consiglio di Togliatti, che invitò i compagni professori a prestare giuramento. Mantenendo la cattedra, avrebbero potuto svolgere “un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo” (cosí Concetto Marchesi motivò a Musatti la sua scelta di firmare)». La stessa cosa, peraltro, avrebbero fatto Croce verso Guido Calogero e Luigi Einaudi, e papa Pio XI che, su proposta di padre Gemelli, avrebbe invitato gli accademici cattolici a giurare “ma con riserva interiore”. Di fatto, però, i 12 professori ribelli, a cui va tuttavia aggiunto Giuseppe Antonio Borgese che in quel momento si trovava in America ma che avrebbe scritto a Mussolini di non voler sottostare al giuramento, furono i soli a costituire quell’ “eroica minoranza” capace di dire di no al fascismo. Questo è un punto inamovibile e ineludibile e non è forse qui inopportuno ricordare la sdegnata critica che l’esule londinese Gaetano Salvemini avrebbe rivolto a tutti quegli intellettuali e accademici, di diversa estrazione sociale, intellettuale, culturale e religiosa, che non avevano saputo e voluto «sacrificare lo stipendio alle convinzioni cosí baldanzosamente esibite in tempi di bonaccia».

Ma, ritornando a Banfi, proprio su uno dei temi che gli erano sempre stati più a cuore, cioè la distinzione tra vera moralità e falsa moralità, egli, appena qualche mese prima di morire, avrebbe scritto delle pagine che, sotto la violenta sollecitazione di eventi storici drammatici, ne avrebbero fatto emergere il modo tutto ideologico, strumentale, politicizzato, e purtroppo incontrovertibilmente immorale di intendere la moralità, la problematica morale e la stessa vita morale personale, non semplicemente nell’ambito di rapporti privati ed interpersonali, ma anche o principalmente in rapporto all’agire politico e agli interessi di un’umanità collettiva ben più estesa e differenziata di quella aprioristicamente prevista e contemplata da una concezione unilateralmente materialistica e classista della società. Gli eventi drammatici sono i fatti d’Ungheria dell’ottobre 1956, quando il popolo ungherese, uno dei Paesi-satellite dell’URSS e ormai totalmente privato della sua libertà, reagisce coraggiosamente in massa contro la dittatura e l’esercito sovietici.

La sommossa sarebbe stata repressa nel sangue e l’ordine politico sarebbe stato restaurato sotto l’egida della Russia comunista poststaliniana. Ora, in conseguenza di questo avvenimento particolarmente grave che si era verificato a poco più di dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non solo il mondo libero, i partiti e le forze culturali non comuniste di tutti i Paesi europei e occidentali, ma anche gruppi, esponenti politici ed intellettuali di sinistra avrebbero espresso una dura presa di posizione e una ferma condanna contro l’intervento armato e l’imperialismo sovietico. Per quanto riguarda l’Italia, non si può qui non ricordare il Manifesto dei 101, nato per iniziativa di militanti comunisti del PCI (tra gli altri Carlo Muscetta, Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Enzo Siciliano), anche se non pubblicato sulle colonne dell’Unità per volontà dei colonnelli del partito che facevano capo a Togliatti. 

Ecco: Banfi non solo non sottoscrisse questo documento di dissenso dalla politica sovietica, a differenza per esempio di un Natalino Sapegno che come lui aveva prestato giuramento al regime fascista, ma si schierò in modo del tutto acritico e meschino con i vertici del suo partito, scrivendo anzi parole arroventate di disprezzo per tutti coloro che non avevano avuto la capacità, soprattutto a sinistra, di comprendere il significato controrivoluzionario della rivolta popolare ungherese e, per contro, il significato altamente etico e rivoluzionario della repressione militare sovietica. Da una parte, secondo lui, c’erano le “anime belle”, cioè i moralisti borghesi e gli stessi critici-critici di sinistra, quelli che parlano sempre di grandi princìpi di giustizia, di libertà, di pace, ma in modo completamente astratto ovvero a prescindere dalla concreta specificità delle situazioni storico-politiche destinate ad essere oggetto di giudizio; dall’altra, invece, c’erano i veri intellettuali, i veri funzionari della civiltà comunista si potrebbe dire parafrasando Husserl, ovvero quelli che non sono privi «di un concreto senso storico e politico nella valutazione degli avvenimenti». Gli intellettuali e i politici ortodossi del PCI erano implicitamente dalla parte della ragione nel condannare la rivolta ungherese, gli altri invece, gli scandalizzati censori dell’intervento militare sovietico, erano solo “anime belle”, semplici reazionari, ipocriti e sprovveduti moralisti.

Le parole di Banfi, pubblicate nel marzo del 1957 (il 22 luglio dello stesso anno muore) sul periodico del partito “Rinascita”, fanno ancora oggi rabbrividire: «Mentre le “anime belle” sono abituate a considerare astrattamente gli avvenimenti e a misurarli direttamente e immediatamente con i grandi principi, coloro che sono forniti di senso storico e politico non si contentano di fare subito questa misurazione, ma assoggettano gli avvenimenti ad un’analisi storicistica, per verificare se essi sono suscettibili di essere inquadrati solo in modo mediato nei grandi principi; per analizzare cioè gli avvenimenti alla luce della situazione storica reale onde verificare se essi sono da considerarsi progressivi o meno, anche se in via immediata possono considerarsi dolorosi o discutibili. In tutte le crisi storiche, in tutte le rivoluzioni, in tutte le epoche di grandi rivolgimenti, le “anime belle”, anche se animate dalle migliori intenzioni, finiscono quasi sempre nel campo reazionario. Gli avvenimenti, in questi casi si presentano tumultuosi e violenti, le loro apparenze sono quasi sempre contrarie ai grandi principi e le “anime belle” non possono accettarli nella forma in cui si presentano e pertanto finiscono col prendere in odio anche le idee rivoluzionarie che in un primo tempo e del tutto astrattamente avevano condivise e ciò per il solo fatto che quelle idee si realizzano in modo tumultuoso e violento. Le “anime belle” non concepiscono che il progresso storico non si realizza mai attraverso percorsi facili e rettilinei e privi di difficoltà. Non concepiscono che spesso gli interessi del progresso del progresso storico richiedono operazioni dolorose, amare, impopolari, il cui significato positivo non è sempre verificabile immediatamente. Esse hanno della storia una concezione astratta e, in ogni caso, anche quando sanno che la storia passata si è svolta attraverso lotte e rivoluzioni più o meno cruente quando si è voluto far fare al popolo un passo avanti, credono che l’ulteriore cammino in avanti dell’umanità possa avvenire, d’ora in poi, senza bisogno di lotte e rivoluzioni».

Ora, se non si sapesse che questo scriveva Banfi in relazione alla tragedia ungherese e alle contrapposte polemiche su di essa divampate, ci si potrebbe sentire anche in presenza di una bella e intelligente pagina di filosofia morale, mentre qui si ha a che fare con un prestigioso pensatore marxista italiano che, in virtù di una rigorosa analisi storicistica, ritiene di poter condannare la rivolta di un popolo che ha solo il torto di reclamare la sua libertà, sia pure in un momento storico in cui l’equilibrio mondiale poteva apparire minacciato, e di dover approvare e benedire la violenta e indebita ingerenza sovietica nella vita di un altro popolo solo per la presunta assoluta necessità etico-politica di difendere la causa del comunismo mondiale e il progresso storico dell’umanità.

Per un bisogno di umanizzazione del suo impegno intellettuale, Banfi aveva voluto, sia pure tardivamente, aderire al PCI, senza forse immaginare che uno dei risultati finali di questa sua scelta potesse essere paradossalmente la disumanizzazione del suo pensare e del suo sentire. Né il razionalismo critico, né un marxismo più critico e meno fideistico di quello che sarebbe prevalso in lui, lo avrebbero costretto a un giudizio talmente ottuso e deplorevole, ma questo succede quando un intellettuale, contrariamente alle apparenze dell’eloquio e dei costrutti filosofici e al di là delle periodiche celebrazioni apologetiche di cui è oggetto, non sa essere veramente autonomo e libero né nel giudizio né nel volere.

E’ un peccato che un pensatore cosí stimolante, chiaro e profondo, anche se talvolta troppo enfatico e retorico, come Antonio Banfi, non possa essere oggi ricordato tra coloro di cui Dario Fertilio, con tono giustamente e solennemente commemorativo, ha scritto in questi termini: «Erano in centouno, giovani e forti, tutti comunisti ma non disposti a vendere l’anima per la maggiore gloria dell’Urss. Si ribellarono, in quei giorni tragici dell’invasione ungherese, e dissero no — addirittura — a Togliatti. Cosí attaccarono per la prima volta il muro di ortodossia ideologica del Pci, e fu un colpo di martello contro il muro del totalitarismo marxista-leninista» (La rivolta dei 101, in “Corriere della Sera” del 22 settembre 2006). Un uomo, un intellettuale, un politico, possono essere di grande valore anche se i loro limiti sono altrettanto grandi. Nel caso di Banfi, dopo tanti studi, convegni, atti celebrativi a lui dedicati, occorreva fare ancora chiarezza, ed è ciò che qui ho forse contribuito a fare.

Francesco di Maria

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