Da La Pira a Renzi passando per Cacciari

1. La crescente disaffezione per la politica che si avverte specie tra i giovani è un sintomo e anche una causa della profonda crisi che oggi investe il cosiddetto mondo occidentale e che mette in pericolo lo stesso concetto di democrazia partecipativa che è alla base delle nostre società. L’esperienza lapiriana, soprattutto nell’amministrazione della città di Firenze, costituisce un concreto contributo ad una politica coerentemente posta al servizio della comunità e in particolare dei suoi membri più indifesi e ben al riparo da strumentalizzazioni di varia natura, da malcostume e da illecite operazioni finanziarie a vantaggio di singoli o di gruppi. Giorgio-La-Pira-Ragazzi-ecco-i-quattro-motivi-per-cui-credo_articleimage

Non so se si possa e in che misura definire “rivoluzionaria” tale esperienza politica, sociale e culturale, sempre esercitata alla luce dei princípi evangelici, ma non c’è alcun dubbio che, con La Pira, la figura di sindaco cambiò in Italia radicalmente: da quella di freddo e burocratico esecutore di leggi a guida illuminata e sensibile di una comunità sociale fondata sulla solidarietà e al cui interno non ci fosse spazio per la difesa di privilegi e interessi privati o particolaristici e ogni persona-cittadino si sentisse al contrario non solo utile ma anche e soprattutto rispettato e tutelato conformemente ad una costante promozione di valori costituzionali, e democraticamente fondativi, quali sono primariamente quelli del lavoro e della giustizia sociale.

Nel ritenere che la democrazia politica non solo dovesse essere piena e
imageseffettiva ma dovesse essere integrata da una democrazia economica e che, più in generale, il patto costituente dovesse essere orientato in modo da garantire la piena tutela di una serie di valori ed il conseguimento di obiettivi di giustizia, egli si pose come interprete coerente e rigoroso della proposta costituzionale più avanzata della Democrazia Cristiana (V. Onida, La Pira, i popoli, la pace, Testo della conferenza tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Firenze il 5 novembre 2007; U. De Siervo, La Pira e la Costituzione, Prato, 2008).

Accadde a Firenze, tra gli anni ’50 e ’60, che La Pira desse perciò fastidio non solo a tanti laici “benpensanti” borghesi ma anche a tanti che si dichiaravano cristiani. Non si era mai visto, né a Firenze né in altre parti d’Italia, che nel nome del Vangelo un sindaco non solo requisisse una fabbrica, delle ville e degli alloggi vuoti da mettere a disposizione di centinaia di sfrattati e di senza casa non appartenenti ad ambienti criminali o malavitosi ma semplicemente impossibilitati a pagare un canone di affitto, forzando talvolta l’interpretazione di una legge o di una norma a sostegno del suo intervento governativo o amministrativo, ma fosse persino capace di abbinare a tali interventi emergenziali interventi strutturali di enorme rilievo economico, sociale, urbanistico e ambientale: basti ricordare che seppe aprire cantieri di lavoro per migliaia di disoccupati, varò un programma di edilizia pubblica per i non abbienti (le cosiddette “case minime”) e creò ex novo ad esclusivo beneficio degli operai la città-satellite dell’Isolotto, aumentò le voci di bilancio relative all’assistenza pretendendo che il governo gli mettesse a disposizione i fondi per essa preventivati, non esitò a chiedere aiuti finanziari a tutti gli enti pubblici che per legge avevano facoltà di concederli, si avvalse in modo spregiudicato dell’aiuto del suo amico Enrico Mattei per salvare una fabbrica di telai tessili come la Pignone che denominata poi Nuova Pignone ancora oggi è leader mondiale nell’estrazione e nella lavorazione di petrolio e gas, per non parlare poi della ricostruzione dei numerosi ponti cittadini fatti saltare durante l’ultima guerra, della ripavimentazione del centro storico di  
images (2)Firenze, della costruzione di decine di scuole e della realizzazione della Centrale fiorentina del latte, o ancora della restaurazione del Teatro comunale. 

Perché il quadro sia completo, va aggiunto e precisato che se come sindaco fece un uso non solo legittimo ma molto disinteressato e generoso del pubblico denaro, come privato cittadino non solo non si limitava a stare nel palazzo comunale ma non di rado andava spontaneamente tra la gente per capirne necessità e aspettative e distribuiva quasi per intero il suo stipendio di professore universitario a molti poveri o non abbienti fiorentini che incontrava per le vie e le piazze della sua amata città. Questo fu il sindaco Giorgio La Pira, come risulta non già dalla sua pur ricca agiografia ma da testimonianze storiche attendibili ed inequivocabili (Sulla politica lapiriana come concreta politica della speranza individuale e collettiva, si può confrontare A. M. Baggio, M. Cacciari, V. Chiti,  La politica come servizio alla speranza, Firenze, Ed. Polistampa, 2002).   

Quello che forse si era sentito impossibilitato a realizzare come politico
nazionale a causa delle esasperate contrapposizioni e dei fortissimi
images (16)condizionamenti politici che allora si venivano esercitando sul dibattito parlamentare e sulle stesse scelte governative nazionali, volle realizzarlo come sindaco, come amministratore di una grande città quale Firenze, sebbene, in un’epoca in cui il sindaco non era ancora eletto direttamente dal popolo, pur in veste di primo cittadino non ebbe affatto vita facile e fu anzi soggetto a forme di resistenza e di incomprensioni anche gravi non solo in consiglio comunale ma anche nelle segreterie dei partiti (ivi compreso il suo) le quali non gradivano affatto la strenua opposizione lapiriana ad interventi calati dall’alto, per non dire dell’ostilità di molta stampa: fattori che nel ’57 avrebbero determinato concentricamente persino la fine della sua prima esperienza amministrativa, benché La Pira rimanesse sempre forte dell’abbraccio corale e riconoscente del suo popolo.images (3)

2. Forse non tutti sanno che la figura di La Pira, molto lontana da una politica di soli annunci e di sensazionalismo mediatico, è politicamente molto presente all’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi che si laureò nel 1999, presso la Facoltà di Giurisprudenza di Firenze, proprio con una tesi su “Amministrazione e cultura politica: Giorgio La Pira sindaco del Comune di Firenze 1951-56”. Anzi, sembra che dalla figura del “sindaco santo”, che tende a considerare come un “padre spirituale”, egli continui a trarre diversi motivi di ispirazione per la sua stessa attuale esperienza governativa.

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E’ presto per dire quanto spirito lapiriano pervada realmente e non solo presuntivamente l’azione politica del giovane politico fiorentino, ma è ugualmente interessante tenerne in considerazione non solo download (1)l’affezionato ricordo di cittadino e di erede amministrativo ma alcuni spunti interpretativi, alcune valutazioni ed annotazioni etico-politiche, che Renzi non ha mancato quasi devotamente di esprimere anche in tempi recenti. Per lui il più grande merito di La Pira come politico e amministratore fu quello di aver dato ad una città come Firenze un’anima, una vitalità morale e spirituale, una vera identità comunitaria, ben al di là dei servizi amministrativi che pure instancabilmente volle offrire alla cittadinanza. Proprio il felice contrario del rischio oggi incombente su molte città, perché, afferma Renzi, «qual è oggi il rischio più grosso del nostro essere comunità? È quello di non essere donne e uomini, ma di essere genericamente la gente; di non essere persone, ma di essere un ammasso indistinto di codici fiscali; di non essere un popolo, ma di essere degli spettatori, dei consumatori, degli utenti. In questo senso qual è il luogo nel quale una comunità può dire “io”, può riscoprire sé stessa se non la città?» (M. Renzi, Non case ma città, in “L’unità d’Italia e le città. Il messaggio di Giorgio La Pira”, da “Atti del Convegno su La Pira”, promosso e organizzato dalla Fondazione La Pira di Firenze e qui svoltosi il 7 dicembre del 2012, Le Lettere, 2012, a cura di P. Meucci e A. L. Marchitelli, pp. 87-92). images (4)

La Pira fu profetico, secondo lui, non solo per quanto riguarda la storia dei popoli in cammino verso una loro sempre più ampia, pacifica e solidale unificazione, ma anche nella sua «capacità di capire che le città sono l’avanguardia e in qualche modo la frontiera su cui si gioca il futuro. Oggi chiediamo sui social network l’amicizia a tutti, ma poi pratichiamo concretamente magari l’inimicizia con il vicino di pianerottolo e non riusciamo a vivere quella dimensione della relazione nella concretezza di ogni giorno. Questo dovrebbe farci riflettere…» (ivi). Oggi troppo spesso si vive più di relazioni virtuali che di relazioni reali, ma una comunità non si crea in una “realtà virtuale” bensí in una realtà viva, reale, virtuosa, la quale sussiste solo ove si pratichi «l’amicizia e la relazione con le persone che ci stanno accanto» (ivi).

In un più recente intervento sul suo stesso sito, Renzi ha affermato che «il degrado più grande» delle comunità locali, delle città italiane contemporanee, «non sono i muri scritti o i venditori abusivi come vuole una certa retorica della superficialità. Il vero degrado è quando le persone non si parlano più, quando si perde relazione, quando si allontana la socialità. Il vero degrado è la solitudine. Qualche anno fa Zygmunt Bauman rifletteva sulla solitudine del cittadino globale: possiamo ben dire che questa è l’angoscia principale di un amministratore locale» (Il mio modello Firenze, 6 novembre 2013).

Il tema della solitudine sociale contemporanea è anche al centro della riflessione della Chiesa, che non ha fatto mancare proprio in questi giorni il suo monito: se la rete favorisce la menzogna interessata e deliberata e non la ricerca puntuale e pacata della verità, la divisione e non la comunione, la lontananza e non la vicinanza, l’individualismo egocentrico e non l’altruismo comunitario, essa non risponde ad una vocazione umana e cristiana ma contribuisce ulteriormente ad alterare i tratti della convivenza civile e ad approfondire il senso di solitudine, di atomizzazione spirituale, che è una componente strutturale della vita personale ed interpersonale contemporanea (Mons. Vincenzo Bertolone – vescovo di Catanzaro, Se la rete diventa comunione, in “Zenit” dell’1 giugno 2014).coppia

Peraltro, è certo importante che i media, la rete, veicolino cultura e senso civico, «senso di solidarietà e desiderio di lottare per i diritti umani, contro la logica dello scarto», ma quest’opera apparentemente rischiaratrice e moralizzatrice non è tuttavia sufficiente ed efficace se essa si risolve interamente in una forse appagante ma vuota “retorica della pietà a distanza”, in quanto «è solo fermandosi e prendendosi cura dell’altro che ci si fa prossimi, risvegliando la propria umanità», è solo trasformando la testimonianza, specie se cristiana, in parola incarnata che si può portare «calore e bellezza su tutte le strade. Solo se si è capaci di accarezzare si è capaci anche di carezze digitali» (ivi).

Nell’epoca del “villaggio globale” queste considerazioni non valgono solo per i singoli o per le singole comunità della rete ma per la stessa Chiesa nel suo insieme, nel senso che la comunità ecclesiale non può limitarsi a pontificare senza avvicinarsi concretamente ai bisogni della gente e delle persone. Lo ha detto chiaramente papa Francesco: di preferire ad una Chiesa ammalata di autoreferenzialità una Chiesa accidentata che esce per strada e «“le strade sono quelle del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile effettivamente e affettivamente. Tra queste strade ci sono anche quelle digitali”. E la Chiesa, chiamata ad essere dove sono gli uomini, non deve rimanerne ai margini» (ivi).

Dunque il sindaco come il politico in genere, specialmente quello investito di alte cariche istituzionali, è oggi certamente chiamato a «restituire nobiltà all’impegno politico risolvendo giorno dopo giorno singoli problemi alla luce di una visione strategica» (Il mio modello Firenze, cit.). Però, c’è un passaggio nel ragionamento renziano che appare difficilmente compatibile con una visione veramente alta della politica come quella sempre coltivata da Giorgio La Pira, e questo passaggio consiste nel fatto che chi è eletto per dare per l’appunto un giusto e nobile valore all’impegno politico, per ciò stesso non sarebbe eletto «per guidare un condominio» (ivi), ma per promuovere e attivare forme di associazionismo, di volontariato, di valorizzazione del patrimonio storico-artistico del proprio territorio. L’amministratore politico, secondo Renzi, non si deve preoccupare di creare strutture che diano occupazione: «c’è chi pensa, come nel caso del Teatro Valle», dice testualmente il presidente del Consiglio in carica, «che bene comune sia invece il modello che prevede l’occupazione. Noi non occupiamo, liberiamo spazi di cultura sostenendone il rilancio concreto. Palazzo Vecchio ne è l’esempio più vivo: era chiuso, lo abbiamo restituito ai cittadini, aprendolo anche di notte. È la casa di tutti i fiorentini. Che dalla Torre di Arnolfo possono ora sentire col cuore la storia di Firenze e affacciarsi sulla città in un abbraccio unico e reciproco. Ma un’operazione su tutte testimonia il nostro passo e il senso del nostro sguardo: il raddoppio degli spazi e degli utenti delle biblioteche. Dalle Grandi Oblate alle nuove o rinnovate biblioteche nei quartieri, perché portare un bambino a leggere un libro significa non essere cittadini di un museo a cielo aperto ma di una città che investe in cultura e futuro» (ivi).

Se si combina la frase “non siamo eletti per guidare un condominio” con la perentoria affermazione per cui “noi non occupiamo”, la sensazione che se ne trae è che, purché dedito a qualificate attività di recupero artistico e culturale e di reperimento di mezzi finanziari necessari alla realizzazione di opere pubbliche, all’istituzione di essenziali servizi sociali come per esempio la costruzione di nuovi e moderni asili nido, ad opere di pedonalizzazione e di accrescimento del verde pubblico, un sindaco o un presidente del Consiglio, ovvero il manovratore, non debba essere ulteriormente “disturbato” e non sia tenuto ad interessarsi ai piccoli problemi della quotidianità.

3. Purtroppo, questo specifico pensiero renziano, che definirei aristocratico più che democratico, evoca il caso di un altro sindaco del passato, ben noto allo stesso Renzi, e che, nonostante la sua notevole intelligenza teorica, si può considerare come icona di un mondo accademico e politico vanesio e autocelebrativo e avvezzo a frequenti incursioni nel luccicante ed elettrizzante proscenio massmediatico. Si sta qui alludendo al caso di Massimo Cacciari che, dopo aver assolto per circa un quindicennio la funzione di sindaco nella città di Venezia, il 10 marzo del 2011, ai microfoni di Radio 24, ebbe a dire cose sconcertanti ma ben indicative della sua indole di uomo, di politico e di amministratore: «I sindaci? Poverini, sono gli unici a cui non getto la croce addosso. La società civile? Ti invade ogni mattina che ti alzi con problemi senza senso. I cittadini? Un esercito di infanti incapaci di arrangiarsi…Non si ha la più pallida idea di cosa voglia dire, ogni mattina che ti alzi, avere la cosiddetta nostra società civile che ti invade perché ha la prostituta in un viale o il casino del bar sotto casa, o perché c’è il mendicante o la strada dissestata». A questo esercito di cittadini infanti che ti molesta ogni mattina, aggiungeva il grande filosofo Cacciari, «a un certo punto gli dici “vabbé, ti faccio un’ordinanza, ma smettila di rompermi le palle”…Non si ha mica idea di cosa significhi fare questo mestiere. E’ vero: nessuno è obbligato a fare il sindaco, ma uno pensa di poter fare cose importanti per questa città, mentre poi metà del tuo tempo lo passi a trattare queste cose».images (5)

Chissà com’è Cacciari come professore universitario! Riuscite ad immaginarvelo come un docente che prepara puntigliosamente le sue lezioni per renderle quanto più possibile chiare e coinvolgenti ai suoi allievi e non eccessivamente autoreferenziali, come un docente che pazientemente si confronta con questi ultimi senza fare tra loro discriminazioni di sorta (tra la belloccia e la brutta, tra il figlio di un prestigioso e influente personaggio universitario o politico e l’intelligentissimo figlio di nessuno che non ha nei suoi confronti alcun timore riverenziale) e li aiuta senza fretta e boria nella preparazione della tesi di laurea, o anche come un commissario concorsuale capace di dare la cattedra persino ad un candidato sconosciuto ma meritevole di ottenerla più di candidati portati da questo o quel barone? Se non riuscite ad immaginarvelo, avete tutta la mia solidale comprensione. C’è chi giustamente da leghista gli ha obiettato: «Che differenza tra l’ex sindaco Cacciari e alcuni amministratori che alle 6 del mattino già girano i cantieri, che nelle notti d’inverno spalano la neve, che vanno in pattuglia coi loro vigili, che sono in prima fila per i piccoli problemi dei cittadini, quelli fondamentali per la qualità della vita! Che tristezza, Cacciari, che tristezza!…Purtroppo ancora una volta siamo costretti a constatare quanto la presunta intellighenzia di sinistra sia lontana da ciò che chiede la gente, cosa che peraltro le urne hanno più volte sancito negli ultimi anni. Per inciso vorrei ricordare a Cacciari che un sindaco è primus inter pares, primo tra i suoi cittadini, con onori ma anche con moltissimi oneri. Firmare un’ordinanza è un atto di enorme responsabilità civica, non una “rottura di palle”» (Federico Caner, in “Corriere del Veneto” del 10 marzo 2011 e in “Corriere della Sera” del 23 marzo 2011).
                                                             images (6)Altri, come Massimo Gramellini sulle colonne de “La Stampa” dell’11 marzo 2011, hanno scritto con appropriato sarcasmo: «nel migliore dei mondi possibili la società civile invade l’ufficio del sindaco per discutere di filosofia o dei grandi temi che riguardano la comunità. Ma nel mondo in cui ci tocca abitare, i cittadini si rivolgono al sindaco come a un amministratore di condominio», – lo noti Renzi e capisca che un buon sindaco come un buon presidente del Consiglio devono essere innanzitutto prosaicamente e senza facili e celestiali lirismi buoni amministratori di condominio – «e rovesciano sul suo tavolo i piccoli affanni della vita quotidiana, che – per il fatto stesso di avvenire davanti al portone di casa – sono quelli che li angustiano di più. Saranno “un esercito di infanti”… Ma in che modo, di grazia, dovrebbero “arrangiarsi”? Asfaltando da soli la strada dissestata? Abbassando da soli la saracinesca del bar troppo rumoroso? Trovando di propria iniziativa un altro posto o luogo di lavoro alla prostituta e al mendicante? Il volontariato supplisce già a varie carenze istituzionali, ma l’Ufficio Rogne, almeno quello, resta di competenza esclusiva del Comune. Alzare gli occhi al cielo per concepire un grande progetto e poi abbassarli a terra per aggiustare una buca: non sarò un filosofo, ma credo sia questo il segreto di un buon sindaco, oltre che di un buon essere umano». Ineccepibile!

Altrettanto ineccepibile è la critica di chi, pur riconoscendo che spesso i cittadini sono menefreghisti e tendono ad aspettare sempre la manna dal cielo, attacca il modello medio di politico italiano, in cui ben rientra lo stesso Cacciari: «Caro Cacciari, perché i cittadini votano un sindaco? Per discutere di filosofia e della fame nel mondo? I grandi sindaci, Giuseppe Dozza a Bologna e Giorgio La Pira a Firenze, riuscivano ad elevare il dialogo con i cittadini affrontando temi quali la pace, i servizi sociali, la cultura, l’urbanistica, la democrazia ecc, non isolandoli dai problemi terra terra che la gente comune aveva e deve affrontare ogni giorno. Dove c’era un problema, là c’era davanti a tutti il sindaco. Non a tagliare nastri o rilasciare interviste, ma ad aiutare coi fatti e spronare con l’esempio i cittadini. Cosí operavano i sindaci di grandi città e piccoli paesi cresciuti alla scuola del PCI, della DC e di altri partiti della prima repubblica. Il cittadino sarà anche “infantile” come dice Cacciari, ma è solo davanti ai piccoli e grandi problemi e per questo bussa alla porta del municipio. Il sindaco deve guardare in alto per offrire il senso di marcia alla comunità, orientarla su grandi progetti, ma deve anche guardare in basso per affrontare le piccole rogne quotidiane, che però sono grandi per il singolo» (M. Falcioni, in “Polisblog” dell’11 marzo 2011).

Peraltro, non manca chi, come lo storico veneziano Raffaele Liucci, in un pamphlet ben documentato (Il politico della domenica. Ascesa e caduta di Massimo Cacciari, in “Stampa Alternativa” 2013) e fortemente polemico, ha stroncato non solo il Cacciari politico ma persino il Cacciari filosofo, parlando da una parte del suo prolungato malgoverno politico che avrebbe fatto sí che “Venezia sia oggi una città morta, spogliata da un turismo rapace” e criticando dall’altra persino la Chiesa cattolica che, sopravvalutando le sue capacità filosofiche, ne avrebbe fatto “il filosofo prediletto dei clericali di casa nostra”. Ora, non so che cosa Renzi pensi di questo caso Cacciari e sarebbe anzi opportuno che ne prendesse almeno implicitamente le distanze; è tuttavia certo che, rispetto ad esso, il modo politico di pensare e di fare di Giorgio La Pira resta agli antipodi, perché, come si è scritto, La Pira fu certamente un alfiere della nobiltà della politica ma adattandosi umilmente e non di rado a fungere anche da buon amministratore di condominio.

4. Certo, ha ragione Renzi a scrivere che La Pira su tante cose non amasse perdere tempo con discussioni interminabili e compromessi al ribasso; che non gli importasse granché condividere con i suoi avversari o con i suoi stessi compagni di partito determinate decisioni se si trattava di decisioni necessarie e improrogabili. Ha cioè ragione Renzi nel rivendicare che il suo “maestro” fosse un “decisionista” e che non utilizzasse «il metodo della concertazione per ritirare il passaporto a un imprenditore che cerca di evitare di incontrare il sindaco perché vuole chiudere la sua fabbrica, il Pignone» (cit.).

Ma proprio quest’ultimo esempio portato dal presidente del Consiglio denota che il grande politico democristiano, e sia pure democristiano sui generis, fosse in possesso di una grande capacità di discernimento che gli consentiva di andare dritto per la sua strada tutte le volte che gli si voleva impedire di fare cose buone e giuste per il popolo, per la gente comune, per i lavoratori e per i poveri, e di sprecare invece abbondantemente il suo tempo tutte le volte che sentiva il bisogno morale prima che politico di stare vicino ai cittadini di un quartiere impossibilitati a risolverne determinate problematiche, agli operai a rischio di licenziamento di una fabbrica, ai senzatetto o ai questuanti di una strada o di una piazza, a chiunque fosse privo di un lavoro e necessitasse di una parola di conforto e di speranza.

Il sindaco della speranza: questo fu realmente La Pira, il cui chiodo fisso  sarebbe sempre stato principalmente quello di adoperarsi per dare direttamente o indirettamente un posto di lavoro a chi ancora ne fosse privo o per conservarlo a chi rischiasse di perderlo. Egli non amava parlare di “coperture”: lo Stato o il Comune, se “non hanno soldi” per tutelare il sacrosanto diritto dei cittadini ad avere un lavoro e ad essere assistiti nelle loro effettive o primarie necessità, li devono trovare; non hanno alternativa, altrimenti cosa ci stanno a fare? Quindi è sperabile che, quando Renzi dice che «noi non occupiamo», non creiamo strutture produttive che diano posti di lavoro, ma facciamo tante cose belle per i cittadini o per il popolo, si tratti solo di un’espressione infelice o non particolarmente meditata e non rispondente alle più profonde intenzioni che informano il suo programma politico.download (2)

I progetti strategici, i programmi di alta e non dozzinale politica, la visione del futuro, e via dicendo, tutte cose che in apparenza starebbero molto a cuore al saccente e spocchioso Cacciari, che per inciso incassa prebende, vitalizi e cumuli più o meno lauti, pagati proprio dal cittadino “rompiballe”, hanno come presupposto etico-politico imprescindibile la capacità di coloro che, facendosene portatori in quanto investiti da importanti cariche pubbliche, siano disposti a sporcarsi innanzitutto le mani, ad ascoltare fisicamente la gente, a misurare e modellare i propri programmi di governo sulle reali necessità e sulle legittime aspettative di lavoratori della pubblica amministrazione, operai, disoccupati, precari, pensionati, uomini di cultura e uomini di Chiesa, a non cercare facili vie di fuga rispetto ad urgenze impellenti e improcrastinabili.

Cosa volete che a uomini e donne, che devono lottare per stare al mondo adesso, possa importare il futuro di cui parla cialtronescamente la quasi totalità dei politici. Il futuro è nel presente: fai cose buone e necessarie per il presente e avrai già preparato un pezzo importante di futuro! Agisci in funzione di un futuro meramente ipotetico e ti sarai coperto di disonore per tutta la vita! Come volete che cittadini e cittadine possano essere interessati al futuro e alle generazioni che verranno quando il presente loro e dei loro figli è cosí incerto, soprattutto quando il futuro metta a rischio benefici o vantaggi piccoli o grandi faticosamente conquistati dai loro padri e dai loro nonni?

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Bisogna finirla, se veramente si ama un uomo di fede e di cultura, un politico illuminato e disinteressato, un amministratore integro e generoso come Giorgio La Pira, con le mistificazioni, con le tecniche dilatorie, con i progetti di ampio respiro che valgono solo per il futuro e mai per il presente e richiedono sacrifici alle vecchie generazioni per un presunto ed enigmatico bene delle giovani generazioni. Politici e sindaci che vogliano richiamarsi a personalità come La Pira devono cominciare a pensare a come far proprie le lamentele straccione ma giustissime dei cittadini prima di pensare a realizzare i loro grandi “progetti”, perché altrimenti sarà più che legittimo il sospetto che dentro grandi progetti strategici si nascondano interessi privati o particolaristici molto cospicui e confliggenti alla lunga con il bene comune.

Qualcuno ha giustamente osservato che ci sono questioni che Giorgio La Pira, inviso alla destra del partito, alla Confindustria del suo periodo, ai liberisti convinti, e d’altra parte «niente affatto populista al punto da mettersi contro don Mazzi, in nome dell’obbedienza alla Chiesa, ma mai supino di fronte ai suoi compagni di partito», potrebbe porre oggi a Matteo Renzi, e queste questioni sono le seguenti: «1) È il governo persuaso che la disoccupazione, con la miseria morale che provoca, va combattuta come uno dei fondamentali nemici e delle fondamentali contraddizioni della società cristiana? 2) È il governo persuaso che la disoccupazione costituisca uno sperpero economico che incide gravemente sul reddito nazionale e che, a lungo andare, produce anche inflazione? 3) È il governo persuaso che la eliminazione della disoccupazione presuppone un regolamento del mercato del lavoro da operarsi mediante una pianificazione della spesa (pubblica e privata) che esso solo può compiere? 4) È il governo persuaso che nessun ostacolo di natura finanziaria può e deve impedire il raggiungimento almeno graduale di questo obbiettivo? Che i “danari” in ogni caso non possono non esistere anche se è estremamente faticoso -ed esige sforzi intellettuali, volitivi ed anche di preghiera!- il reperirli? Che se c’è un bisogno essenziale umano non può mancare – poiché Dio esiste ed è Padre – il mezzo adeguato per soddisfarlo? Che questa proposizione dettata dalla fede è perfettamente convalidata dalla esperienza e dalla più recente e vitale teoria economica? 5) È il governo persuaso che l’assunzione di questo compito nuovo e cosí fondamentale importa un mutamento in certo senso radicale della sua politica economica e finanziaria, interna ed internazionale? Che esso importa l’elaborazione di un bilancio del Tesoro totalmente diverso, per struttura e per finalità, da quello attuale? Che esso importa un mutamento adeguato nella struttura del Gabinetto e nella struttura dell’apparato burocratico statale? 6) Ed, infine, vuole intanto il governo procedere alla immediata erogazione delle somme necessarie per sovvenire in qualche modo alle prime ed inderogabili esigenze dei disoccupati? Ecco le domande precise che la povera gente fa al Governo: se il Governo può dare ad esse una risposta positiva allora la “crisi” sarà risolta ed il Governo – attirando sopra di sé le benedizioni della povera gente – farà come il sapiente costruttore del Vangelo: costruirà saldamente l’edificio sopra la roccia  (Mt 7, 24-29). Se il Governo darà ad esse una risposta negativa allora la “crisi” assumerà dimensioni più vaste ed il Governo farà come lo stolto costruttore del Vangelo: costruí l’edificio sulla sabbia, venne la tempesta e vi fu grande rovina (Mt 7, 24-29)» (V. Roghi, Le questioni che Giorgio La Pira porrebbe a Matteo Renzi, nel blog “Minima et moralia” dell’1 marzo 2014).images (7)

Noi piccoli cattolici di provincia, Renzi, ti abbiamo dato il voto alle ultime europee superando il forte pregiudizio che avevamo inizialmente nei tuoi confronti e dopo aver votato lo scorso anno per un comico genovese cui abbiamo avuto il torto di dare più credito di quanto ne meritasse. Adesso non deludere le nostre oneste aspettative e soprattutto l’attesa della povera gente, come avrebbe detto il tuo grande padre spirituale La Pira, che peraltro, se avesse avuto a che fare con gli eurocrati del nostro triste tempo, si sarebbe messo alla testa di un popolo che di questa Europa e della sua moneta non ne può più.

Dopodiché, poiché voglio credere alla sincerità della tua fede cattolica, sono lieto di concordare con te quando dici: «Credo che La Pira dovrebbe essere inserito nella categoria dei decisionisti, perché era uno di quelli che se hanno un problema non ci dormono la notte, come dice nel grande discorso ai giuristi cattolici, “io non ci dormo la notte pensando al numero dei disoccupati, pensando al numero degli sfrattati”. La Pira era uno che le cose le faceva davvero. E sicuramente era uno che stava alle regole della politica. Straordinario è il gesto di rinunciare al seggio parlamentare. Oggi probabilmente è più prestigioso fare il sindaco che non uno dei 630 peones del Parlamento, ma allora fare il sindaco significava mettersi nelle mani di 60 Consiglieri comunali che potevano dalla mattina alla sera mandarlo a casa» (Il mio modello Firenze, cit.).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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