Coronavirus e latitanza cattolica

Invece di starcene a casa, almeno noi cattolici dovremmo riversarci sulle piazze delle nostre città e riempire le chiese delle nostre parrocchie recitando il mea culpa, mea maxima culpa per gli innumerevoli e immondi peccati da noi per troppo tempo commessi contro Dio e contro gli uomini, e implorando il Signore e la Sua Santissima Madre di volerci perdonare e liberare ancora una volta dal male che colpisce popoli e individui. Forse verrebbe facilitata la trasmissione del coronavirus e alimentato il contagio tra le persone, ma le vittime mietute a causa dell’azione ferale del virus sarebbero alla fine certo inferiori a quelle che saremo costretti a contabilizzare se continueremo a cantare l’inno di Mameli da balconi e finestre mentre scorrono sotto i nostri occhi centinaia e centinaia di bare che trasportano i corpi di tanti nostri fratelli e sorelle per le strade di Bergamo, a disertare le chiese, a restare lontani dai sacramenti istituiti da nostro Signore Gesù Cristo.

Il pericolo di fare moralismo religioso in una circostanza del genere è in agguato, lo so, e proprio per questo, in più di un’occasione, mi sono trattenuto dall’esternare pubblicamente i miei sentimenti religiosi. Ma adesso, dinanzi a tanta prosopopea scientifica o scientista, dinanzi a tanta stupidità televisiva che affida ad allegri e sempre disinvolti oltre che ben remunerati personaggi dello spettacolo il compito di esortare il popolo a resistere al male standosene ben rintanati nelle mura domestiche, dinanzi alla cecità spirituale della mia Chiesa che crede di piacere a Dio offrendo incondizionata collaborazione alle autorità politiche e scientifiche dello Stato e quindi impedendo di fatto ai fedeli di assistere ad una santa messa e di accostarsi alla santa mensa eucaristica, di fronte alle sconcertanti parole del mio papa che invita ognuno di noi a confessarsi direttamente con Dio, alla maniera protestante, in un momento in cui sembra molto difficile poter disporre della vicinanza di presbiteri pronti a recarsi nelle case e a raccogliere le confessioni dei penitenti che ne facciano richiesta, quasi che il sacerdote di Cristo non fosse tenuto dal suo stesso ministero, specialmente nella libera e civile Italia, a stare sempre e comunque, sino all’offerta stessa della sua vita, in mezzo al popolo di cui è pastore, dinanzi ad una preghiera che dal mondo si leva assai flebilmente verso il Cielo, dinanzi a tutto questo mi sento chiamato a gridare il dolore che a Dio la comunità cristiana nel suo insieme continua a procurare in una situazione in cui, molto più che in altre circostanze, essa dovrebbe inginocchiarsi con spirito adorante dinanzi a Lui per chiedergli perdono e per ottenere che Egli non applichi la sua giustizia troppo a discapito della sua misericordia.

Non si tratta di fare gli eroi magari a detrimento della salute pubblica, non si tratta di fare i santi senza averne le doti né i martiri senza averne la forza, non si tratta di esasperare la fede e il sentire religioso fino a rischiare di rasentare il fanatismo: certo, ci vuole cautela, prudenza, equilibrio, ma come un seguace di Gesù può sopportare che nelle chiese non ci sia anima viva, né preti pronti a dedicarsi alle anime in pena e a recarsi nelle case di tanti malati nel corpo e nello spirito, né funzioni liturgiche e sacramentali, né incontri di preghiera comunitaria? Un seguace di Cristo non può, non deve sopportare tutto ciò, perché anche lui, in quanto battezzato in Cristo, è Chiesa e come Chiesa è tenuto a testimoniare con voce alta e chiara la sua fede in Cristo molto più vigorosamente che la fede nella scienza degli uomini. Tutto la scienza può fare con Dio, poco o nulla potrà fare senza Dio! Il corpo di Cristo guarisce, non contagia: non contagia neppure chi sia già contagiato da un virus mortale. Vescovi italiani, ridate la Santa Messa, la celebrazione eucaristica, i sacramenti, i riti funebri, la preghiera pubblica alle vostre pecorelle smarrite e senza pastore. Ve lo chiedo nel nome di Cristo!

Francesco di Maria

 

 

 

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