Cassazione e democrazia

imagesA Cosenza ci sono avvocati che ritengono “non consentite” espressioni come “abuso dell’esercizio del potere”, “insabbiamento”, “imbavagliamento della verità”, se riferite ad una sentenza della Cassazione che, come tale, abbia carattere di definitività e non impugnabilità. Naturalmente, questi avvocati fanno riferimento a una sentenza che li ha visti vincenti sul piano giudiziario e tendono a tutelare il più possibile il loro assistito anche sul piano morale, mentre chi usa quelle espressioni è dalla parte dei perdenti sempre da un punto di vista giudiziario ma non è disposto a riconoscere l’imparzialità della Suprema Corte.

La precisazione è opportuna, perché pare che in questo Paese una vittoria giudiziaria rischi troppo frequentemente di diventare sinonimo di sicura innocenza anche sotto il profilo umano e morale, mentre una sconfitta giudiziaria rischi di diventare sinonimo di indubbia colpevolezza o di incontrovertibile inattendibilità. Ma questo modo di pensare, se pretende di valere in modo assoluto, non può che essere fallace, non solo perché umanamente nulla è perfetto, non solo perché la verità cui tende la Giustizia è di natura formale e non esaustivamente sostanziale, ma anche perché, persino sotto il profilo formale, possono essere commessi errori, omissioni, travisamenti talvolta anche molto gravi e tali da compromettere la giusta ricerca della verità.

Naturalmente, proprio sul piano formale, è possibile abusare del proprio potere, sia pure in modi molto discreti e quasi impercettibili, insabbiare e imbavagliare la verità, come la lunga storia giudiziaria italiana sta ampiamente a dimostrare, e c’è quindi da domandarsi in base a quale norma giuridica e giurisprudenziale gli avvocati di cui sopra abbiano ritenuto di ammonire con molta enfasi a non criticare e biasimare, oltre certi limiti, le sentenze della Cassazione, o almeno le sentenze che loro interessano solo perché favorevoli ad alcuni loro particolari clienti.

Ma se anche esistesse un divieto giuridico, che però fortunatamente non esiste, alla libertà di espressione e di critica circa le sentenze della Cassazione, non si potrebbe esitare ad affermare che tale divieto sarebbe del tutto incostituzionale, oltre che palesemente immorale ed antidemocratico. Se a me singolo individuo consta personalmente, per aver assistito a un fatto delittuoso, che il soggetto assolto in Cassazione è un delinquente, non ci sarà mai alcun potere capace di costringermi a tacere sul fatto che egli sia un delinquente, anzi un potere ci sarebbe: un potere coercitivo di tipo dittatoriale molto simile al potere mafioso di togliere la vita a chi non sia disposto a tacere o di mandare in rovina colui che si ostini a testimoniare una verità antitetica a quella di cupole o di sommi tribunali umani.

Ma, fortunatamente, è la stessa Cassazione che, a beneficio di certi avvocati piuttosto distratti, ha ritenuto di fare chiarezza una volta per tutte in questa materia. Già, perché i giudici della Cassazione non sono tutti come quel giudice leccese di Cassazione, certo Giuseppe Caracciolo di 58 anni, indagato recentemente insieme con la sua compagna, una poliziotta di Brindisi in aspettativa, per favoreggiamento della prostituzione.

Sarebbe terribile se la Cassazione fosse piena di giudici come il Caracciolo, perché un giudice siffatto, trovandosi a dover giudicare, per esempio, il caso di un prete accusato di aver stuprato una suora, assai difficilmente potrebbe valutarlo e giudicarlo in modo sereno e obiettivo.

imagesMa la Cassazione non è piena di magistrati corrotti; di magistrati fallibili sì, ma non corrotti, anche se determinate cause possono andare a finire talvolta nelle mani sbagliate, ed è anche per questo che gli “ermellini”, diversi anni or sono, saggiamente argomentarono quanto segue: «i magistrati italiani godono di piena indipendenza di giudizio e l’ordine giudiziario ha un rilevante tasso di effettiva autonomia: ciò comporta, tra l’altro, che per i loro provvedimenti giudiziari i magistrati non sono perseguibili penalmente né disciplinarmente, e non sono responsabili civilmente, a meno che le loro decisioni non siano frutto di palese negligenza o di dolo». «Il contrappeso all’elevato grado di indipendenza e di autonomia della magistratura…non può che essere rinvenuto in una ampia possibilità di critica dei provvedimenti giudiziari che deve essere riconosciuta a tutti i cittadini e non soltanto ai cosiddetti addetti ai lavori». E poi: «se è vero che i provvedimenti giudiziari ritenuti errati possono essere modificati soltanto con il rimedio delle impugnazioni, è pure vero che essi possono essere ampiamente ed anche aspramente criticati, come dimostrano le numerose e severe critiche ai provvedimenti giudiziari che quotidianamente possono essere lette non solo su riviste specializzate, ma anche su quotidiani».

Ma la Cassazione si spingeva oltre e proseguiva affermando che la «legittima critica dei cittadini non deve limitarsi soltanto alle sentenze e alle loro motivazioni, ma può investire anche i comportamenti assunti dai giudici nell’esercizio delle loro funzioni». Spesso, dicevano i supremi giudici, «alcuni comportamenti arroganti assunti nei confronti di avvocati, imputati e parti processuali, appaiono addirittura meno tollerabili di motivate decisioni contrarie agli interessi di una parte».

E per il Palazzaccio era ed è «giusto» che chi esercita la funzione del giudice si «astenga dall’assumere atteggiamenti che possano sembrare improntati a pregiudizio». Le «critiche» a tali atteggiamenti «contribuiscono, infatti, alla crescita della sensibilità collettiva ed “aiutano” chi esercita un pubblico potere a correggersi». La sentenza in cui tutto questo veniva lucidamente enunciato era la n. 29232 del 6 luglio 2004, Vª Sez. Pen. (Gazzetta del Mezzogiorno.it).

Pertanto, gli avvocati cosentini cui si allude devono rassegnarsi a sopportare che, anche se vincenti in senso giudiziario, la pubblica opinione e i singoli cittadini possano continuare ad esprimere giudizi dissonanti, sul piano etico-civile, da quello emesso dalla Suprema Corte. Va da sé che, ove un imputato venga prosciolto definitivamente dall’accusa di malversazione o stupro continuato, non sarà più lecito fare a lui riferimento con appellativi che denotino appunto crimini di questa natura (perché, anzi, si commetterebbe un reato), anche se una pubblica opinione che sia venuta a conoscenza, a mezzo di stampa e televisione, di intercettazioni e reperti oggettivamente compromettenti almeno sotto il profilo morale che lo riguardino, avrà facoltà di esercitare pienamente il suo diritto di critica, che è notoriamente un diritto costituzionale garantito a tutti i cittadini e non solo agli esperti di diritto.download (92)

Per contro, quando capiti che un soggetto manifestamente onesto, venga condannato perché non sussistano a suo favore tutte le “prove” necessarie a scagionarlo, pur intuendosi chiaramente la sua buona fede, il suo altruismo o il suo senso di giustizia, appare ancora più evidente che a lui dovrebbero esser tributati moti di simpatia e di apprezzamento popolari consistenti che invece, paradossalmente, assai di rado hanno luogo. Un discorso a parte è poi quello che riguarda i cosiddetti “eroi civili” che, non sempre dotati tra l’altro di adeguati mezzi finanziari per la loro difesa, vengono condannati solo perché troppo scomodi per qualche potente che abbia facoltà di incidere, direttamente o indirettamente, sui magistrati giudicanti e persino sulla formazione delle prove. Non è dunque possibile generalizzare.

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C’è la Cassazione, che deve fare il suo lavoro assumendo decisioni definitive e che non proprio di rado lascia l’amaro in bocca ai cittadini onesti, e c’è la democrazia, che deve potersi esercitare quanto più liberamente e criticamente possibile, pur nei limiti del rispetto di fatti veri o collettivamente riconosciuti, affinché anche la Cassazione possa diventare migliore di quello che è ed emanare sentenze sempre più veritiere e sempre meno lesive dello spirito di giustizia.

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