Il massacro di Gaza e la retorica umanitaria

Tutti sanno che a Gaza è in atto un massacro, una carneficina, un genocidio di proporzioni ben più ampie di tanti altri atti di sterminio compiuti ai danni del popolo palestinese dallo Stato di Israele dalla sua nascita sino ad oggi. Tutti lo sanno: governi, diplomazie, organizzazioni umanitarie internazionali e nazionali, images (90)organizzazioni religiose come quella della Chiesa cattolica, organi di stampa, associazioni culturali, masse popolari. Tutti sanno perfettamente che ormai il cosiddetto diritto di Israele alla difesa armata contro i suoi nemici è solo una lurida scusa, un ignominioso eufemismo per far progredire rapidamente il suo antico anche se inconfessato piano razzista e coloniale di annientamento totale del popolo palestinese.Tutti sanno infatti che Israele, non ancora soddisfatta di aver gettato questo popolo in condizioni estreme di miseria, di privazione e di disperazione con i suoi continui sconfinamenti territoriali e abusi coloniali, con le sue continue recinzioni, restrizioni, provocazioni, e desiderosa ad un tempo di potenziare la propria economia, costretta oggi a segnare il passo, con l’acquisizione di nuovi spazi, di nuovi sbocchi, e quindi di nuove opportunità produttive e commerciali, sta ponendo ora in essere quel che già da tempo meditava di fare, ovvero conferire un sostanzioso salto di qualità al suo espansionismo militarista, alla sua volontà di invasione, di occupazione, di sterminio.

images (91)Di sterminio, perché è inutile far finta di non sapere che proprio in questo momento Gaza è un campo di sterminio, dove i famosi crematori nazisti sono sostituiti da strumenti “legali” e “democratici” come aerei, carri armati, bombe, missili intelligenti (che, proprio perché intelligenti, fanno saltare in aria case di gente ignara e innocente, ospedali, organizzazioni assistenziali, sedi di istituzioni internazionali, scuole, chiese e moschee) e fosforo bianco, e dove non c’è militare ebreo che non faccia diligentemente e teutonicamente, con precisione e inflessibilità tipiche delle armate naziste di Hitler, il proprio dovere omicida.

Tutti sanno che c’è un olocausto palestinese in corso da decenni che non accenna a perdere consistenza, e che in questo caso gli ebrei non sono naturalmente le vittime sacrificali ma i carnefici sacerdotali. Persino un ebreo italiano intollerante e arrogante, e tutt’altro che pacifico, come Riccardo Pacifici, recentemente colpito dalla sferzante invettiva del filosofo Gianni Vattimo, ha sentito il bisogno di farsi riprendere dai media televisivi su una piazza romana mentre si mostrava vagamente impegnato a manifestare, insieme ad un manipolo di ambigui personaggi della politica italiana, a favore dell’inviolabilità del diritto “di tutte le popolazioni civili” a non essere oggetto di atti violenti anche se compiuti nel quadro di conflitti bellici!

Di tutto ciò sono ben consapevoli i capi delle nazioni che, se volessero di comune accordo (e non vogliono perché ognuno di loro ha i suoi scheletri nell’armadio di casa) seguire un’etica dell’obiettività e del bene comune internazionale, potrebbero facilmente isolare lo Stato d’Israele e costringerlo in un modo o nell’altro non già a ritirare semplicemente il suo esercito dalla striscia di Gaza ma a sottoscrivere con i palestinesi un patto finalmente e totalmente rispettoso del principio giuridico, politico, morale, ripetutamente ribadito sin dal 1948 in tutte le principali sedi internazionali oltre che da tutti i governi del mondo: e cioè che, se il popolo israeliano ha diritto ad essere riconosciuto come Stato, lo stesso diritto deve essere riconosciuto ai palestinesi ai quali, nel frattempo, niente e nessuno potrebbero e dovrebbero comunque impedire di circolare liberamente nei loro territori che, diversamente da quel che succede, non dovrebbero essere continuamente violati dall’incessante occupazione edilizia israeliana, e su cui gli israeliani non dovrebbero imporre per nessun motivo restrizioni periodiche o permanenti sulle risorse idriche, sulle coltivazioni, sulla pesca.

Sono proprio queste le condizioni fondamentali, sistematicamente ignorate o meglio non adeguatamente divulgate dalla stampa internazionale e che chi scrive apprende solo dall’articolo del 21 luglio scorso di un coraggioso giornalista israeliano del settimanale Ha’aretz come Gideon Levy, che Hamas è costretto a porre oggi per la cosiddetta “sospensione delle ostilità”, in quanto chiedere di meno significherebbe condannare i palestinesi ad una morte lenta ma inesorabile.

Ecco l’elenco completo delle condizioni poste da Hamas per l’accettazione di una tregua duratura che sia preparatoria ad un trattato vero e proprio di pace: 1. ritiro delle truppe israeliane e possibilità per gli agricoltori palestinesi di coltivare la terra adiacente al confine; 2. rilascio dei prigionieri arrestati dopo il loro rilascio a seguito dello scambio con la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit; 3. fine dell’assedio e apertura dei valichi di frontiera; 4. apertura di un porto o aeroporto sotto il controllo ONU; 5. allargamento della zona accessibile per la pesca; 6. supervisione internazionale al valico di Rafah; 7. impegno israeliano a rispettare il coprifuoco per 10 anni e a non violare lo spazio aereo di Gaza; 8. permesso per i residenti di Gaza di visitare Gerusalemme e di pregare nella moschea di Al-Aqsa; 9. impegno israeliano a non interferire nella politica palestinese; 10. apertura di una zona industriale a Gaza.

Tra le condizioni non è ancora contenuta la pur legittima esigenza, riconosciuta e ribadita anche recentemente dall’ONU, di dar luogo alla costituzione formale di uno Stato palestinese. A chi potrebbero sembrare eccessive o insensate queste richieste? Solo ad Israele, naturalmente, che, come al solito, prima o poi, facendo finta di cedere in una certa misura alle pressioni diplomatiche internazionali e degli USA in primo luogo, accetterà una tregua a condizioni molto diverse da quelle di parte palestinese: nel frattempo il suo esercito avrà ucciso molti più civili palestinesi di quelli che aveva cinicamente programmato per vendicare i suoi pochi morti e per indebolire una volta di più images (92)il proprio avversario. Se il mondo non reagisce adeguatamente alla virulenta aggressività israeliana per mezzo di boicottaggi concentrici, di disinvestimenti finanziari nei principali comparti della vita economica israeliana, di sanzioni ferree volte a determinare un isolamento sempre più accentuato e costoso di Israele dalla comunità internazionale, la questione palestinese non potrà mai essere risolta e l’umanità assisterà inerte e rassegnata di lustro in lustro alle scene di oggi con gli stessi protagonisti di oggi: Israele in qualità di aggressore omicida e genocida e i palestinesi in qualità di vittima designata e abbandonata da tutti.

Tutti sanno che non è più tempo di retorica, di retorica politica e di retorica umanitaria. Lo sa anche la Chiesa cattolica che non può continuare a rivolgersi in modo equidistante “alle parti in causa” e ad invocare genericamente “la fine del conflitto” affidandosi alla buona volontà e alla capacità di dialogo e di pacificazione dei contendenti, ma che dovrebbe cominciare a chiamare le cose, con assoluta franchezza evangelica, con il loro vero nome.

Anche papa Francesco, pur giustamente auspicando che «non si ripetano gli sbagli del passato, ma si tengano presenti le lezioni della storia, facendo sempre prevalere le ragioni della pace mediante un dialogo paziente e coraggioso» e pur ammonendo saggiamente ad anteporre «il bene comune e il rispetto di ogni persona agli interessi particolari» nel momento di assumere determinate decisioni, dovrebbe capire che lo spirito evangelico di verità, di giustizia e di pace, non può ancora trovare soddisfacente esplicazione in una affermazione sincera ma generica e reticente come la seguente: «Fermatevi, per favore! Ve lo chiedo con tutto il cuore. È l’ora di fermarsi! Fermatevi, per favore!» (Angelus del 27 luglio 2014). Che significa “fermarsi”? Chi si deve fermare: l’oppresso palestinese che cerca di difendersi come può dalla sistematica violenza subíta o l’oppressore sionista che vuole liberarsi del suo prossimo, del suo vicino, del suo debole nemico, con un uso non solo illegale ma disumano e spropositato della forza? Cosa ci impone la verità e la giustizia in questo momento: di morire accanto ai palestinesi o di vivere accanto alla perversa o al perverso Israele? Perché i mafiosi devono essere scomunicati e gli Stati assassini devono essere tollerati? Perché, in nome di Cristo!

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