Scuola, università e fede

C’è chi dice che la scuola è troppo antiquata, troppo tradizionale, troppo burocratica e repressiva, troppo poco aperta all’informatica e alla multimedialità e a tecnologie se possibile ancora più sofisticate, e chi invece la trova, anche quando sia aperta “ai nuovi scenari della scienza e della tecnologia, alle nuove logiche della produzione e del mercato del lavoro” (come recita lo “schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca” del 2008), ancora troppo in ritardo rispetto agli standard di conoscenza e di competenza specifica raggiunti a livello europeo e più in generale a modelli educativi e ad obiettivi formativi soddisfacenti anche sotto il profilo etico-civile. Ragion per cui la politica continua a preoccuparsi, almeno formalmente, di trovare adeguate contromisure, anche alla luce delle attuali contingenze economiche e finanziarie, attraverso “un profondo e sereno ripensamento dell’impianto complessivo del nostro sistema scolastico” (idem) e della stessa organizzazione universitaria. Ma, a dire il vero, chi come lo scrivente ha insegnato per circa trentacinque anni nella secondaria superiore e ha avuto modo di conoscere abbastanza il mondo accademico non è affatto convinto che il risanamento del complessivo sistema italiano dell’istruzione e della ricerca abbia a che fare innanzitutto e soprattutto con una razionalizzazione ed “ ‘essenzializzazione’ ”, per riprendere il linguaggio ministeriale, “dell’intero quadro normativo, ordinamentale, organizzativo e operativo”, anche sotto l’incalzare della su accennata e per alcuni non ineluttabile crisi economica e finanziaria.

Che nella scuola come nell’università ci siano molti e costosi fronzoli da eliminare nell’ambito della didattica e della ricerca mi è sembrato in passato e continua a sembrarmi evidente e questo, peraltro, significa anche che molte spese inutili o non necessarie potrebbero essere facilmente abbattute a tutto beneficio dell’economia nazionale e della società italiana. Che in esse si debba puntare ad una valorizzazione effettiva del merito, per quanto riguarda sia i docenti che i discenti, mi sembra e non da oggi del tutto pacifico, anche se ad oggi il dato emergente è che, sia tra i professori della secondaria sia tra quelli universitari, non ci sia una convergenza unanime, univoca e oggettiva né sul concetto di merito, in relazione all’esigenza di riconoscere ai discenti e ai docenti il giusto valore delle proprie capacità e del proprio impegno, né sulle concrete modalità attraverso cui sia possibile quantificare e qualificare il merito stesso dei singoli soggetti sul piano di un’adeguata incentivazione agli studi (come nel caso degli studenti) e su quello professionale ed economico-retributivo (come nel caso dei docenti).

Il vero problema è di natura morale e politica o meglio etico-politica, perché se un paese cui si riesca ad assicurare per ipotesi un grande sviluppo economico e finanziario è profondamente corrotto resta pur sempre un paese incivile in cui le iniquità sono destinate a moltiplicarsi a dismisura. Il riconoscimento del merito – questione eminentemente etica – in una società democratica di massa, salvo facendo il principio che a tutti debba essere garantito il soddisfacimento di necessità primarie o vitali, è diventato la questione centrale del sapere (che non smette certo di avere una destinazione e finalità democratiche se si fa in modo che professionalmente e in assenza di discriminazioni di qualsivoglia natura i principali artefici di esso siano innanzitutto quelli che le cose siano più capaci di conoscerle, di diffonderle e praticarle socialmente, e in tal senso i più meritevoli), dell’attività produttiva e dello stesso progresso civile delle nazioni. Perché è fuor di dubbio che, nell’individuazione del merito e delle capacità individuali in genere, un margine soggettivo di discrezionalità sarà pur sempre ineliminabile, e tuttavia, dinanzi al proliferare di abusi e prevaricazioni di ogni genere che finiscono immancabilmente per generare effetti nefasti in ambiti particolarmente delicati della società come l’istruzione secondaria e scientifica, la sanità o la pubblica amministrazione, non è possibile non preoccuparsi di trovare finalmente delle misure legislative ed etico-giuridiche in virtù delle quali sia possibile contrastare efficacemente e irreversibilmente il sistematico convertirsi della discrezionalità in palese e ingiustificabile arbitrarietà.

Se nella secondaria superiore non c’è più la figura del professore ma al più la sua caricatura, se le università in molti casi (e con riferimento particolare a talune facoltà) non sono più (almeno da 20 o 30 anni a questa parte) centri di elaborazione e trasmissione del sapere ma vere e proprie cloache a cielo aperto, se negli ospedali è sempre più opportuno che i malati entrino muniti di un qualche aggeggio scaramantico per esorcizzare il pericolo di una morte prematura, non è forse in una selezione molto spesso arbitraria del personale docente per la secondaria e l’università e del personale medico che bisognerà cercare la causa? Certo, forse anche nella mancanza di adeguati trattamenti economici ma come negare che l’impreparazione studentesca o l’approssimazione professionale insieme ad una totale carenza di senso civico siano il più delle volte promosse e valorizzate piuttosto che scoraggiate e respinte e fatte rovinosamente confluire in quel variegato mondo di decisioni arbitrarie e di soprusi, nella didattica come nella docimologia, nella produzione scientifica come nei giudizi accademici che su questa vengono espressi con relative mortificanti conseguenze circa l’assegnazione di cattedre e responsabilità in seno alle varie facoltà universitarie, o ancora nella medicina o nella paramedicina come in tutta una serie di altri servizi socialmente indispensabili? Beninteso, non è tutto marcio ma il marcio sembra prendere di anno in anno il sopravvento su ciò che è sano e in una tale misura da rendere ormai inevitabile e improrogabile il ricorso a provvedimenti draconiani (ammesso che ci si possa intendere, in questo caso, sulle reali implicazioni di tale termine). 

Il dramma è che teoricamente sono davvero pochi, specialmente nelle fasce sociali più “colte”, quelli che non condividono l’analisi e il giudizio qui formulati. Questo contribuisce ad occultare molto meglio e a rendere quindi più difficilmente estirpabile il male. Nella stragrande maggioranza dei casi, in cui va incluso lo stesso mondo cattolico nella sua generalità,  si concorda, anche se poi, appena possibile, ognuno non esita a fare il furbo e a brigare per ottenere quanti più vantaggi possibile. E allora? E allora corre o resta l’obbligo morale e politico di ridurre il più possibile la malapianta, pur sempre sapendo che non sussistono rimedi infallibili e definitivi. Il credente cattolico, però, sa bene che nulla sfugge all’occhio di Dio e che ognuno prima o poi dovrà rendergli conto dei suoi pensieri, delle sue intenzioni e delle sue azioni. Egli non può farsi illusioni circa il fatto che con preghiere completamente slegate dalla sua condotta di vita potrà evitare alla fine il severo giudizio di Dio: sarebbe opportuno che la Chiesa fosse meno comprensiva e benevola verso certa diffusissima ipocrisia cattolica fondata sulla deprecabile abitudine a vivere la fede in una sorta di sdoppiamento interiore: in privato mi nutro di preghiera, di eucaristia, di buone intenzioni e di ragionamenti evangelici, mentre in pubblico faccio come fanno tutti e cerco di arraffare, non solo in senso economico, quanto più possibile indipendentemente dal fatto che io sia più o meno meritevole di altri, più o meno capace di assolvere ruoli o mansioni cui ambisco e che riesco ad ottenere in un modo o nell’altro.

Ecco perché la scuola e l’università dovrebbero poter ritrovare o ripristinare la loro antica e più nobile funzione che non è semplicemente quella di favorire un accesso al sapere e alle professioni del maggior numero possibile di persone ma quella di proporre e diffondere un piano di conoscenze realmente qualificate mettendolo a disposizione non di tutti indiscriminatamente ma di quanti, pur con capacità differenziate, abbiano effettivamente i mezzi intellettuali e le predisposizioni attitudinali a ricoprire ruoli o posti di più o meno elevata responsabilità. Scuola e università in questo senso dovrebbero essere rifondate ab imis fundamentis, perché non c’è dubbio che, a giudicare dagli esiti degli esami di stato degli ultimi decenni, dai concorsi universitari e dai concorsi banditi ed effettuati dalle e nelle pubbliche amministrazioni, dai primariati assegnati nei pubblici ospedali e via dicendo, la situazione che emerge è semplicemente catastrofica.

Un pensatore marxista italiano come Antonio Banfi, che lo scrivente non ha allontanato dal suo cuore di riconvertito cattolico, aveva un’acuta percezione della valenza politica dell’istruzione e della formazione scolastiche e universitarie e sosteneva che il problema della scuola sia il problema centrale e più delicato della politica, della stessa democrazia italiana. Per lui non esisteva un problema tecnico del finanziamento della scuola ma piuttosto un problema politico del finanziamento politico della scuola. Osservava tuttavia che, se il finanziamento è condizione necessaria di sussistenza di una scuola degna di questo nome, esso non è ancora condizione sufficiente per garantire la funzionalità etico-culturale e la specifica funzionalità sociale della scuola stessa: non solo perché la bontà di una politica scolastica non può misurarsi o definirsi semplicemente in relazione alle sue capacità di finanziamento, ma anche perché qui le responsabilità in gioco non sono esclusivamente di natura politica. In altri termini, per Banfi non c’era solo una responsabilità della politica verso la scuola ma, in misura non meno rilevante, c’era anche la responsabilità morale e civile della scuola verso la politica intesa, in senso generale, come dimensione essenziale del vivere associato. Nessuna politica infatti, per quanto lungimirante e progressista, può mai garantire che la scuola sappia perseguire con assoluto rigore ed immutabile coerenza un grado apprezzabile di conoscenza critica ed elevate finalità civili e democratiche. La scuola come l’università dovevano pur mostrarsi capaci di fare tesoro delle ipotetiche concrete attenzioni ad esse riservate dalle autorità governative e di utilizzare nel modo più razionale possibile tutte le risorse finanziarie eventualmente elargite a loro favore e le stesse positive sollecitazioni culturali ad esse eventualmente provenienti dal mondo politico. Che la scuola e l’università dovessero essere responsabili verso la politica significava in ultima analisi che esse fossero responsabili del modo in cui autonomamente venivano organizzando e trasmettendo il sapere in relazione ad istanze profonde e oggettive e ad aspettative legittime del Paese, della Nazione. Questa duplice responsabilità Banfi intendeva sottolineare quando affermava: “Bisogna che la scuola senta il Paese, che il Paese senta la scuola” (Scuola e Società, in “Opere”, Bologna, 1987, p. 21).

Si può forse affermare che questa posizione banfiana sia anacronistica o che non sia ancora profondamente attuale? Possono gli stessi cattolici, pure troppo interessati ad ottenere finanziamenti per le loro scuole piene zeppe di insegnanti troppo spesso assunti per amicizia o per interesse e non certo per merito e capacità, negarne la persistente fecondità? Penso che una riforma della scuola e dell’università sia necessaria, anche se sarebbe ingenuo pensare che persino la più perfetta delle riforme possa risolverne per sempre i problemi, dal momento che non c’è legge o riforma che possa neutralizzare totalmente la disonestà umana. Però dev’essere chiaro un punto: che cosí come sono, non solo per responsabilità della politica ma anche per loro precisa responsabilità, la scuola e l’università italiane non sono utili a niente e a nessuno: non agli studenti impegnati perché troppo al di sotto delle loro esigenze conoscitive, né a quelli disimpegnati perché troppo complici del loro disimpegno; non ai docenti dell’una e dell’altra perché istituzioni troppo spesso fondate su un favoritismo gratuito e inaccettabile quando non anche su pratiche prettamente clientelari e servili; non alla stessa politica perché dall’una e dall’altra essa non potrà ricevere quelle sollecitazioni e quelle critiche davvero mirate e profonde di cui la prassi politica non può fare a meno, né infine alla società civile che necessita di competenze certe e non fittizie e di attività professionali non mediocri ma quanto più possibile eccellenti ed altamente produttive.

Qui ci sono cose che decisamente non vanno e determinano un notevole aggravio per l’erario dello Stato, cose francamente superflue e inessenziali, destituite di ogni vera valenza critico-culturale e di finalità realmente formative, inventate solo per accontentare i teorici ad oltranza della “modernizzazione” della scuola (si vedano, ad esempio, i famosi “progetti” della secondaria superiore tra i quali ben pochi sono quelli da salvare) o per moltiplicare artatamente posti e cattedre universitarie. Qui c’è un mondo universitario abnorme con le sue troppe università, con una massa mastodontica quanto incomprensibile di insegnamenti disciplinari, con un numero eccessivo di docenti di fascia alta che non proprio sporadicamente mostrano di non essere affatto all’altezza dei loro titoli e dei loro compiti (specialmente in facoltà come quelle di lettere e filosofia, di lingue straniere, di scienze giuridiche e sociali e in parte economiche, di scienze della comunicazione), e poi ancora con troppo pochi docenti, per lo più “ricercatori”, realmente al servizio della formazione dei giovani studenti, con stipendi talvolta troppo alti e sprechi di denaro per pseudo attività culturali e “scientifiche”, dove non  può essere infine sottaciuta la presenza di una meritocrazia accademica molto burocratica e preconcetta volta fondamentalmente a riprodurre, nel migliore dei casi, linguaggi, schemi mentali, metodologie, strumenti ermeneutici e stili di ricerca certo ampiamente collaudati o sperimentati ma non per questo perfetti e insuperabili e non suscettibili di miglioramenti anche radicali e significativi.

Tutto questo dovrebbe sparire, mentre altre cose al momento inesistenti, come una maggiore centralità dell’insegnante (e non solo dello studente secondo un concetto velleitario molto caro a certa sinistra politica e sindacale) nella secondaria, o la possibilità per i giovani ricercatori universitari meritevoli di fare carriera molto più agevolmente e rapidamente di quanto oggi non sia consentito, nonché anche offerte accademiche non risibili ma sostanziali a soggetti extraccademici che abbiano acquisito meriti culturali o scientifici oggettivi o comunque tali da non poter e dover essere disconosciuti, dovrebbero poter emergere rapidamente.

Ma anche la Chiesa, nel frattempo, non può stare a guardare e non può accontentarsi del fatto che la laicità dell’istituzione scolastica ed universitaria non sia troppo carica di acrimonia verso l’istituzione ecclesiastica. Essa deve sentire il dovere di difendere il merito, la competenza, la professionalità, lo spirito etico, se necessario anche contro se stessa e i suoi interessi, contro i suoi apparati di potere e i suoi rappresentanti curiali. E i cattolici devono pensare e operare in assoluto spirito di verità perché il bene non può mai essere perseguito al di fuori dello spirito di verità, benché siano troppi coloro che con questa espressione si sciacquano la bocca, e perché solo la verità evangelica, ancor più della laica verità di cui parlava Gramsci, è sempre effettivamente “rivoluzionaria” e benefica.

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