La democrazia economica e l’Italia

Il problema della democrazia economica è stato centrale nella lotta politica e sociale del XX secolo, quando ancora il comunismo sovietico e il comunismo degli Stati dittatoriali dell’Europa orientale esercitavano un notevole condizionamento sulle politiche sociali europee che si sentivano sia pure indirettamente sostenute nei confronti degli assetti capitalistici occidentali. Poi, con la caduta dei comunismi europei e la concomitante crisi della socialdemocrazia, esso è praticamente sparito dalle agende politiche e sindacali di tutti gli Stati europei occidentali imageslasciando campo libero alle peggiori forme di liberismo che hanno finito per espellere il problema della democrazia economica dal dibattito politico complessivo, peraltro anch’esso molto approssimativo, sulla democrazia.

Eppure, come giustamente sostiene un fine analista economico e politico italiano, «senza democrazia nell’economia non esiste vera democrazia. E senza la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori l’Europa non uscirà dalla sua grave crisi economica e politica» (E. Grazzini, Manifesto per la democrazia economica, Castelvecchi Editore, 2014). Non sembrano esserci dubbi circa il fatto che l’economia sia più efficiente, innovativa e sostenibile se include elementi di democrazia.

Ma, poiché l’espressione sopra indicata può avere significati molteplici e diversi, cosa si intende veramente per democrazia economica? Perché è fondamentale oggi stabilire preliminarmente quale senso si voglia attribuire a questa espressione. La risposta di Enrico Grazzini, dotato di una rigorosa formazione cattolica, è molto chiara e precisa: «Per noi democrazia economica significa che, come accade da sessanta anni in Germania con la Mitbestimmung (codecisione), i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nel board delle maggiori imprese private e pubbliche e influire sulle scelte strategiche e sulla gestione aziendale» (ivi).

Dunque, democrazia economica è una pratica di cogestione, di codecisione e di controllo collettivo o comunitario delle imprese pubbliche e private in virtù della quale i lavoratori, tramite loro rappresentanti regolarmente eletti, siedono nel Consiglio direttivo (board) ovvero allo stesso tavolo di imprenditori, consiglieri nominati dagli azionisti (shareholders) e managers, per decidere quasi alla pari con essi ed insieme ad essi (e, ovviamente, alla stessa proprietà), la complessiva strategia produttiva e finanziaria delle stesse aziende, dove pertanto non si dà alcuna subordinazione del lavoro all’impresa e images (1)al capitale, né alcuna forma meramente collaborativa ai fini di un aumento della produttività o dei livelli di flessibilità e sicurezza sul lavoro, né infine una semplice e concordata partecipazione finanziaria dei lavoratori al capitale e al profitto aziendali, ma al contrario un vero e proprio potere decisionale dei lavoratori stessi sia sul sistema contrattuale di lavoro relativo a investimenti, regolamenti interni, salari ecc., sia sulle complessive strategie aziendali.

Si potrebbe dire: un modello piuttosto utopistico di organizzazione aziendale. Ma in realtà, sia pure in versioni diverse, questo modello è già felicemente funzionante in alcune delle più importanti democrazie occidentali quali, oltre la già citata Germania e i Paesi scandinavi, Austria, Olanda, Lussemburgo. Sia nelle aziende pubbliche che private di questi Paesi «si registra la maggior occupazione, maggiore reddito per i lavoratori, maggiore competitività delle aziende, maggiore innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale» (ivi).

Secondo questo sistema della “codecisione” o “codeterminazione”, da non confondere né con il sistema della “concertazione” tra governo e sindacati né con pratiche sindacali puramente antagoniste o iperpoliticiste (vedi Fiom italiana), l’assunto di partenza non è più quello per cui dall’alto politiche industriali illuminate, keynesiane, verdi o di sinistra, possano incidere positivamente sulle realtà imprenditoriali ed economiche, ma quello per cui un’effettiva democrazia dal basso sia essenziale tanto per la politica quanto soprattutto nell’economia, in quanto senza un potere reale anche se parziale (e parziale perché condiviso con altri agenti della complessiva realtà aziendale) dei lavoratori sulle strategie aziendali risulta molto difficile trasformare l’economia, come la politica e la società tutta, e difendere l’occupazione. Come scriveva Grazzini già nel 2012, «di più: senza che gli utenti e i lavoratori partecipino direttamente negli organi direttivi degli enti di servizio pubblico è impossibile che gli interessi del pubblico stesso siano effettivamente rappresentati» (Il modello tedesco per la democrazia economica, in “Micromega” del 5 aprile 2012).

A dire il vero, in Italia è meritevole di attenzione l’azione politico-sindacale svolta da Maurizio Landini che, al di là delle sue prese di posizione talvolta troppo pregiudizialmente conflittuali, propone una politica industriale molto simile a quella “compartecipativa” (appunto Mitbestimmung) del mondo industriale tedesco il cui fiore all’occhiello è la rigogliosa Volkswagen, tradizionale bestia nera di Fiat. Peraltro, una politica industriale della condivisione, in Italia dovrebbe essere di casa, visto che l’articolo 46 della nostra Costituzione recita testualmente: “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”.

Ma, in Italia, come in molti altri Paesi europei, né Destra né Sinistra si mostrano ancora particolarmente interessate alla tedesca Mitbestimmung preferendo mantenersi fedeli alle varie forme di Corporate Governance (governo societario o d’impresa) di origine inglese, capaci di una produttività e di un benessere sociale ben inferiori a quelli ottenuti dal sistema economico tedesco e rispondenti ad istanze di natura soprattutto neoliberista e in parte anche neokeynesiana. Segno evidente che Destra e Sinistra, sia pure forse con qualche distinguo inessenziale, sono e restano ugualmente a rimorchio di un capitalismo che, soprattutto sul piano economico, non sopporta di essere limitato.

E cosí paradossalmente, specialmente per quanto riguarda la Sinistra e sia pure con qualche eccezione, si parla di democrazia in senso sempre più vago e generico e quasi esclusivamente in riferimento a criteri politico-elettorali maggioritari e alla sfera dei cosiddetti “diritti civili”, cancellando in pratica dal dibattito politico ogni riferimento alla democrazia nell’economia e nel mondo del lavoro, che sono gli ambiti in cui poi si viene di fatto decidendo di accrescere o diminuire il potere sostanziale dei cittadini e del popolo. In tal modo, non si vede proprio come si possa porre rimedio ai ricorrenti e sempre più gravi dissesti economici e ai “drammatici deficit della politica” (ivi).

In realtà, la democrazia economica, spiega Grazzini, implica anche che «i beni comuni dovrebbero essere gestiti autonomamente dalle comunità interessate, a tutti i livelli, locale, nazionale, globale; e che i cittadini dovrebbero potere controllare e cogestire con i loro rappresentanti i servizi pubblici di cui sono utenti e di cui, come contribuenti, sono anche “proprietari”. Il bilancio partecipato dovrebbe diventare la norma per indirizzare le politiche di spesa a favore dei cittadini e per fare funzionare bene le istituzioni pubbliche» (ivi).

Tutto ciò è completamente disatteso dall’Unione Europea che da una parte continua a favorire gli interessi economici tedeschi mentre dall’altra non fa assolutamente nulla per estendere ad altri Paesi europei il modello economico e il modello di organizzazione del lavoro attuati proprio in Germania, sí che i suoi stessi appelli a libertà e democrazia finiscono per essere grevemente retorici e alla fine insignificanti.

E’ pur vero che in economia e in tema di organizzazione del mondo produttivo, come l’esperienza storica dovrebbe insegnare, non si può generalizzare e non ci sono teorie che possano essere assunte come assolutamente vere e quindi applicabili a tutte le situazioni economiche e ai diversi contesti nazionali. Ma è del tutto evidente che da crisi prolungate e drammatiche come quella attuale non sarà possibile uscire con soluzioni o ricette economiche autoritarie tutte fondate su austerità e patti monetari e fiscali buoni solo per arricchire determinate e ristrette oligarchie finanziarie, per cui solo imboccando la via della democrazia partecipata o una qualche convincente via di democrazia partecipata si può sperare di sbloccare l’economia nel senso dell’innovazione e della sostenibilità.

Purtroppo però al momento, è l’amara riflessione del nostro analista, in «Europa la famigerata Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, Commissione europea), invece di contrastare la speculazione, propugna i dogmi disastrosi del neoliberismo e impone download (1)bilanci pubblici in pareggio: la crisi colpisce quindi in primo luogo duramente i servizi pubblici per i cittadini. I tagli vengono decisi dall’alto e colpiscono i servizi essenziali, come la sanità e l’istruzione, e i diritti acquisiti da decenni. Le restrizioni alla spesa pubblica e ai diritti sociali impongono anche forti restrizioni alla democrazia» (ivi).

Se in Italia, a tutti i livelli di decisione pubblica, non viene adottato un sistema di bilancio pubblico partecipato come quello in vigore in Svizzera o in California, dove i cittadini votano leggi propositive e referendum che consentono di partecipare a livello nazionale alla gestione dei beni pubblici ovvero dei “loro” beni (beni di cui sono proprietari perché li pagano), non si vede come i bilanci comunali, regionali o statali potranno essere migliori di quelli sgangherati o disastrati che si continua ormai da troppo tempo ad esibire senza soluzione di continuità.

In particolare a livello locale sarebbe auspicabile una partecipazione dei cittadini e soprattutto di quelli meno abbienti alla gestione dei bilanci comunali, in quanto è in questo modo che la spesa pubblica potrebbe rimanere al riparo da inutili e dispendiosi sprechi o da veri e propri saccheggi amministrativi e finanziari e conseguire risultati certo più efficienti, più equi e soddisfacenti per tutti.

Se la politica, in Europa e in Italia, non smette di essere complice o succube della speculazione finanziaria e di utilizzare i soldi dei cittadini e dei lavoratori per salvare le banche e fare gli interessi particolari delle multinazionali e di determinate lobbies o gruppi di potere economico, i bilanci pubblici presenteranno deficit sempre più pesanti, la disoccupazione diventerà più pericolosa di un’epidemia mortale, il tenore di vita dei cittadini normali si ridurrà nel migliore dei casi a livelli di pura e semplice sopravvivenza. Ha perfettamente ragione Grazzini nel denunciare che «la crisi finanziaria globale attuale ha radici nell’economia reale e nel fatto che le aziende hanno come solo obiettivo quello di “creare valore per gli azionisti” senza preoccuparsi di chi in azienda lavora e produce, e quindi di chi crea davvero il valore per l’impresa. La corporate governance autoritaria e orientata alla massimizzazione del valore finanziario dell’impresa è responsabile non solo della crisi economica ma anche di quella ecologica e della democrazia. Crisi economica, ecologica e democratica sono strettamente connesse e rappresentano gli aspetti eclatanti della crisi epocale di un capitalismo che, come un novello apprendista stregone, non sembra più capace di controllare e governare le immense forze produttive che ha sviluppato e sviluppa» (ivi).

Dunque bisogna darsi da fare e, se necessario, anche contro questa Europa, per riconquistare innanzitutto non solo la nostra sovranità monetaria e fiscale ma più in generale la nostra autonomia decisionale circa l’introduzione in Italia di una nuova organizzazione del lavoro ed ispirata ad una politica economica e a una politica tout court finalmente democratica in virtù della quale sia possibile mettere al centro della stessa attività democratica di governo non la produzione ma i modi specifici della produzione e non più la produzione indipendentemente dalla distribuzione ma la produzione della ricchezza strettamente connessa e correlata alla distribuzione e all’uso sociale della ricchezza stessa.

Al tempo stesso, dovremo impegnarci per riqualificare profondamente quella globalizzazione economica che, insieme ad organismi mondiali quali FMI, BM e WTO, era stata teoricamente pensata per garantire a tutta l’umanità sviluppo e benessere e che invece sta producendo, tranne rarissime eccezioni, solo effetti di impoverimento generalizzato. Tali organismi, come la stessa BCE oggi presieduta da Draghi, non sono stati eletti democraticamente, né per via diretta né per via indiretta, per cui, come ha scritto bene Dante Nicola Faraoni, «le cariche e le strategie», in essi adottate, «sono decise in base al peso economico che le singole nazioni hanno sul mercato. E’ chiaro a tutti che gli Stati Uniti d’America hanno il peso maggiore e poi a scalare gli altri Paesi ricchi. Il rapporto di forza economica non può essere considerato un metodo di misura democratico, piuttosto si può trasformare in una dittatura economica quando sul campo le disparità sono enormemente considerevoli come oggi» (Verso la democrazia economica, Treviso, 2005), dove di fatto «a decidere il funzionamento, l’organizzazione, la struttura e gli uomini di questi organi sovranazionali…sono quelle organizzazioni economiche che a livello mondiale contano di più e cioè le corporazioni multinazionali. Sono loro che con l’enorme massa di capitali a disposizione controllano i governi dei Paesi ricchi, condizionano e corrompono i governi dei Paesi in via di sviluppo, e sfruttano i Paesi poveri» (ivi).

E’ del tutto evidente che una lotta per l’instaurazione in Italia di una vera democrazia economica implichi anche una decisa e netta presa di posizione contro la “dittatura imposta” per l’appunto dallo strapotere economico delle multinazionali ed efficacemente veicolata in ogni parte del mondo dalla triade BM, FMI, WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), perché sono le stesse tradizioni democratiche e partecipative occidentali a non tollerare il perpetuarsi di questo iniquo stato di cose.

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