Il governo Monti e i cattolici

Un individuo si apre al mondo esterno e agli altri perché non potrebbe vivere senza relazionarsi ad entrambi; allo stesso modo una determinata comunità religiosa cerca di non rimanere chiusa in se stessa ma di allargarsi ad una comunità religiosa sempre più grande o universale per evitare di essere settaria e per arricchirsi di una spiritualità che da sola non potrebbe produrre e praticare, e cosí anche una comunità civile nazionale tende ad accrescere il suo benessere e le sue opportunità sociali e culturali di vita attraverso un’apertura costante alla comunità internazionale o mondiale. Va da sé che questo movimento, questa dinamica dello spirito umano, sono del tutto naturali e necessari nei limiti in cui sia l’individuo o la persona, sia una data comunità religiosa, sia una comunità nazionale abbiano buone ragioni per ritenere di trarne un reale vantaggio e un accrescimento delle proprie potenzialità umane, morali, spirituali, economiche, sociali e religiose. Ma se ci si rende conto già originariamente o sulla base di successive esperienze che in realtà “i costi” complessivi di tali forme di apertura sono ben superiori ai “benefici” effettivi che se ne possono trarre, sarebbe veramente diabolico perseverare nell’errore o nel peccato solo per amore di malintesi princípi altruistici e caritatevoli  o di un ecumenismo fine a se stesso o infine di ambigui ideali internazionalistici o mondialistici che, perseguiti fondamentalmente secondo le direttive di invisibili ma ben reali e dispotici governi finanziari transnazionali, non possono che condurre popoli, famiglie e soggetti umani e sociali alla rovina.

Anche da un punto di vista evangelico, si è tenuti sempre a valutare le ragioni delle proprie scelte, a soppesare quel che si fa e come lo si fa, a declinare eventualmente certi inviti ad accettare la compagnia di individui empi o non dotati di sicuro senso morale o a far parte di gruppi e di associazioni ecclesiali più ampi dei propri ma non necessariamente più sani e virtuosi, e infine a rinunciare persino a certi apparenti vantaggi materiali ove non siano ancora per nulla chiare le vere e complessive finalità per le quali ci si dovrebbe decidere ad essere parte integrante di una società globale, planetaria o europea che sia, sulla base peraltro di prevalenti interessi economici e finanziari.

Tutto si può fare ma a condizione, ammonisce il vangelo, che si sia candidi come colombe e furbi come serpenti. Per cui, è certo necessario che la Chiesa di Cristo si espanda quanto più possibile nel mondo, che agisca in ogni ambito familiare, civile, parrocchiale, economico, politico, territoriale del mondo, ma non evidentemente a costo di smarrire o dissolvere o diluire la sua identità religiosa e la sua capacità spirituale e missionaria di testimoniare ciò che è vero e ciò che è santo. E’ o sarebbe molto meglio quindi che la Chiesa resti o restasse eventualmente “un piccolo gregge” o “un piccolo resto” di persone davvero credenti e fedeli a Cristo Signore, se il prezzo ad essa richiesto per ampliare la propria presenza e la propria influenza nel mondo dovesse implicare una ritrattazione o un ammorbidimento sostanziali dei rigorosi richiami e valori evangelici.

Oggi la Chiesa cattolica, per bocca di alcuni suoi eminenti esponenti, ha avuto forse comprensibilmente fretta di salutare il governo Monti come un governo di persone serie e competenti. Lo speriamo, ma io non avrei troppa fretta nel decretare la natura e le finalità virtuose di tale governo solo perché molti dei suoi componenti pare si professino cattolici. Monti, sino a qualche tempo fa, era colui che attaccava le lobbyes di ogni ordine e grandezza, era molto critico con le grandi rendite finanziarie e molto severo verso una pressione fiscale eccessiva. Era anche determinato a tagliare aiuti finanziari alle imprese private. Francamente, è difficile ritrovare traccia di tutto questo nella sua recente manovra governativa, stracolma di tasse ben più gravose per i non abbienti che per i ricchi, e puntata essenzialmente su un prelievo fiscale strutturale che sembra danneggiare molto più i ceti medio-bassi che non i ceti alti e privilegiati della nazione italiana. A questo si aggiunga la fede assoluta e quindi dogmatica di Monti nella comunità economica internazionale, nei processi di globalizzazione, nella economia europea, benché non gli sfugga talvolta che in essi si aggirano veri e propri “avvoltoi” sempre pronti a speculare sulle debolezze delle economie nazionali e a portar via rapacemente dai popoli quanta più ricchezza possibile.

Nulla invece egli ha detto sin qui sulle consorterie ideologiche di segno prevalentemente massonico e anticristiano che molto probabilmente agiscono e decidono ai più alti livelli di comando economico-finanziario. Ecco: la Chiesa e i cattolici, prima di esprimersi su certe realtà mondane pure cosí importanti per il bene spirituale e materiale di tanta parte di umanità, dovrebbero forse essere più riflessivi, più prudenti, e soprattutto molto più candidi interiormente. E dovrebbero sottoscrivere in larga misura le recenti parole di Raniero La Valle, per il quale «alle nuove generazioni» bisogna far sapere, in modo molto più chiaro ed incisivo di quanto ancora non siamo riusciti a fare, «che il mercato non è tutto e che il pareggio di bilancio non è un dogma di fede. Se l’economia di mercato fosse stata fuori della portata delle decisioni politiche, Dossetti non avrebbe potuto fare quel discorso ai giuristi cattolici nel ‘51, e su Cronache sociali non si sarebbero potute discutere e criticare le ricette di Einaudi e di Pella, non si sarebbe potuto negare che il problema fosse solo nel controllo del credito e nella difesa della lira, e non si sarebbero rivendicate politiche di intervento e di spesa. A Dossetti, a Fanfani, a La Pira, a Glisenti, a Federico Caffè, a Novacco, a Massaccesi, che scrivevano su Cronache Sociali, era ben chiaro che si doveva uscire dal cerchio magico di un “dogmatismo liberale” e dal mito di un automatico funzionamento del meccanismo di mercato, cosí come dall’abbaglio della “deflazione benefica e risanatrice”; essi scrivevano che non è solo col bilancio in pareggio “che si occupano le migliaia di braccia inerti, che si dà la vita al Paese, che si muovono le energie, si moltiplica il reddito, si utilizzano i sussidi esteri, si diffonde il benessere” e si risponde alla domanda e ai bisogni dei poveri.

E cosí le generazioni di oggi almeno dovrebbero sapere che nel Novecento a tutti gli uomini e le donne è stato proposto un nuovo annuncio di fede, con una nuova narrazione e un nuovo linguaggio, e che anche l’annunciatore, cioè la Chiesa, è cambiato, come ha scritto Karl Rahner; c’è stata nel Novecento una straordinaria teofania di un Dio personale che con infinita tenerezza è tornato a parlare ai suoi figli nel Figlio, è tornato a reclamare un rapporto con ciascuno, dentro e fuori le religioni e le Chiese.

Dicono le inchieste che le prossime generazioni non sapranno più nemmeno chi sia questo Dio, mentre nuove culture e nuovi teologi si affannano a spiegare che non può esserci un Dio personale, che Dio consiste in una potenza neutra dell’essere energia, che la divinità sarebbe una forza vitale astratta, una idea regolatrice, una pura dimensione dell’essere, un brivido di trascendenza interno e non esterno a ciascuno; una specie di ectoplasma che sarà pure il grembo dell’esistenza, ma è senza nome, senza volto e senza parole di vita. Forse la Chiesa dovrebbe accorgersi che il Novecento, col suo Concilio, le ha offerto l’ultima possibilità di narrare agli uomini il Dio di Gesù Cristo» (Grandezza e miseria del Novecento in Dossetti, Monteveglio, 17 dicembre 2011).

Intanto però, per cattolici che non si accontentano del vangelo delle buone intenzioni di cui peraltro è lastricata la via dell’inferno, non può non essere un motivo concreto di speranza il nuovo monito del cardinal Bagnasco, sebbene probabilmente esso non sia stato rivolto al governo Monti: «Al di là di ogni ventata antipolitica, la politica è assolutamente necessaria, e deve essere in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione facile e garantita…Che la grande finanza internazionale guidi ormai i giochi sembra un dato innegabile ma così non deve essere. Una finanza fine a se stessa non serve il mondo ma se ne serve, e alla fine ne risentono i più deboli. Quando, infatti, il criterio sembra essere il guadagno il più alto e facile possibile, e nel tempo più breve possibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso e quindi immorale perché condiziona e sottomette anche l’economia e la politica, e quindi l’uomo… Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno» ha detto ancora il porporato, e modellare la vita sulla base delle sentenze giornaliere e quasi sempre nefaste dei mercati.

Il che significa che «la politica non può prescindere» dal suo ruolo «se vuole corrispondere al suo mandato di promuovere la giustizia e il bene comune» e deve fare in modo che la vita dei popoli e della gente comune non sia concepita in funzione dei mercati ma, al contrario, i mercati sussistano ed operino nei limiti e in funzione delle possibilità e dei bisogni oggettivi delle popolazioni europee e mondiali (Bagnasco: la politica regoli la finanza. E va fermata la macchina del fango, in “Il Sole 24 Ore” del 31 dicembre 2011), magari, mi permetto di aggiungere, con l’aiuto più responsabile di governi nazionali che, in tempo di grave crisi come quello attuale, farebbero cosa saggia e utile se dalle loro politiche fiscali e tributarie escludessero completamente tutti quei cittadini che obiettivamente già vivono intorno alla cosiddetta soglia di povertà.

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