Fede e criminalità finanziaria

In data 7 marzo 2013, all’indomani dei travolgenti risultati elettorali italiani del 24 e 25 febbraio 2013, che hanno segnato la sensazionale affermazione del movimento 5Stelle di Beppe Grillo, Mario Draghi a Francoforte dichiarava con apparente imperturbabilità: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Come dire: Grillo e il suo populismo antieuropeo o euroscettico hanno vinto, ma questo non è certo un problema né per i mercati né per l’Unione Europea che sanno bene come la democrazia sia un elemento costitutivo ed ineliminabile dello scenario in cui operano.

Ma Draghi, in realtà, nell’esprimersi in questi termini, intendeva veicolare un concetto ben più perfido di quel che molti hanno percepito: quello per cui la democrazia, pur cosí “cara” ai mercati finanziari e ai banchieri europei e mondiali, non può impedire che la finanza continui ad avere le sue dure necessità e ad imporre severe direttive soprattutto ai paesi debitori, per cui Grillo o non Grillo, niente e nessuno potranno impedire che le politiche europee dell’austerità facciano il loro corso sino al completo conseguimento degli obiettivi fissati.

Come ha brillantemente chiosato Barbara Spinelli, per Draghi l’austerità non potrà essere intralciata da eventuali dubbi e ripensamenti dei governi europei, essendo essa «divinamente indifferente a quel che mugghia nei bassi mondi. In altre parole: la democrazia può emettere le sentenze che vuole, ma nelle chiome dell’Unione e dei mercati se ne udirà appena l’alito» (Il pilota automatico nei palazzi del potere, in “La Repubblica” del 13 marzo 2013). Ma su che cosa Draghi basa questa certezza? Sul fatto, egli ha detto esplicitamente sempre in quel di Francoforte, che «gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico» e questo ben garantisce che «l’unità d’intenti dei governi» europei non sarà minimamente scalfita. Il “pilota automatico”: ovvero gli impegni precisi che sono stati già assunti e sottoscritti, e che dovranno per forza essere onorati, anche e principalmente da quei governi europei che, come Grecia, Cipro, Portogallo, Spagna e Italia, hanno già conosciuto un terribile tracollo economico-finanziario o rischiano di scivolarvi in tempi molto brevi.

Draghi, pertanto, pensa cinicamente che, quale che sia l’indicazione o la reazione democratica dei popoli, i patti sono patti, o per meglio dire i contratti sono contratti, e non possono in ogni caso essere disattesi. Per lui, il pilota automatico o autopilota «è il dispositivo che fa avanzare il veicolo senza assistenza umana. E’ impersonale, non si cura del singolo e degli elettorati, ed è il contrario della democrazia» (ivi), ed è come se il presidente della BCE, nel farsi garante dei mercati, avesse detto di voler rispettare formalmente la democrazia ma dichiarando sostanzialmente che i trattati economici, le regole finanziarie e le stesse penalità previste in caso di infrazione, tutte cose custodite e garantite gelosamente dagli inflessibili organi di controllo della stessa Unione Europea, non possono essere violate impunemente da nessuno dei Paesi membri.

Ciò significa che, per quanto ci riguarda, secondo Draghi «l’Italia è già commissariata, dunque calma e gesso, fatti giunco, la tempesta passerà. Dice passerà: non come, né se sarebbe forse meglio sostituire al dispositivo un governo fatto di uomini, e avere statisti europei con carisma non solo alla Bce» (ivi). Ora, a parte il fatto che la tracotanza di un Draghi, curiosamente cosí osannato dai media delle democrazie occidentali, può durare sino a quando i popoli se ne stiano fondamentalmente muti e passivi e non passino a concrete e convincenti vie di fatto, prese di posizione cosí ostentatamente autoritarie e cosí povere di sensibilità sociale possono essere assunte solo in un’Europa economico-finanziaria priva, e non a caso, di un’Europa politica. E’ per questo, per gli automatismi finanziari europei, che, nota ancora Barbara Spinelli, «ogni Stato diventa una specie di rione municipale, dove le più varie sperimentazioni (buone e non) diventano possibili: il pilota automatico le incanalerà. Il potere vero ha cambiato sede ed è una virtual machine che simula il politico» (ivi).

Ora, basterebbe solo riflettere sull’indecenza del modo di ragionare e di esprimersi di un esponente autorevolissimo del mondo finanziario internazionale qual è certamente Draghi per decidersi non solo a replicare duramente che il concetto di pilota automatico è un’offesa all’intelligenza di chi lo pronuncia e un insulto sprezzante per i popoli e gli Stati cui è destinato, ma anche e soprattutto a sostituire radicalmente i ceti politici governativi di tutta Europa, complessivamente e sostanzialmente proni alle continue ossessive ingiunzioni finanziarie degli organismi decisionali della UE, con uomini e donne capaci di rappresentare nelle sedi decisionali preposte le reali necessità economiche delle proprie comunità nazionali e di farsi portatori di istanze politiche che riflettano non già o non più astratti quanto corposi interessi di determinate oligarchie finanziarie ma concreti, stringenti e diffusi bisogni sociali di vita, e quindi di occupazione, di lavoro, di coesione comunitaria e di dignità personale, dove solo in funzione di tali bisogni, e non a prescindere da essi, sia possibile discutere di finanza, di unione europea, di cooperazione internazionale e di quant’altro viene generalmente utilizzato in modo strumentale e mistificante e quindi non a fini di servizio ma di potere o di dominio.

E’ tempo che il “pilota automatico” venga sostituito con la guida di persone serie, coraggiose e responsabili, capaci di rovesciare con tutte le forze i piani economico-finanziari che spiriti perversi ed irrazionali hanno concepito ed intendono porre in essere non per lavorare all’emancipazione della civiltà europea e mondiale ma alla desertificazione materiale e spirituale dell’umanità. Ed è tempo che quel pilota venga quindi trasformato prestissimo in sovranità del popolo europeo se si vuole evitare che esso «ci bombardi come un drone».

Sta accadendo davvero qualcosa di assurdo: l’Unione Europea, nata per rendere più forti e sicuri tutti i popoli del vecchio continente, sta producendo irresponsabilmente, con la diretta o indiretta complicità di molti governi nazionali, una tale serie di disastri da mettere in serissimo pericolo non solo la civiltà europea ma la stessa sopravvivenza materiale di interi popoli: si pensi emblematicamente alla tragedia greca. Ma che senso ha, a questo punto, una politica europeistica che, lungi dal garantire un buon governo ai popoli, ne favorisca lo sfascio e la irreversibile decadenza? Che senso ha rimanere in Europa se ogni popolo in casa propria non è più libero di decidere il proprio futuro e il proprio destino? E perché mai bisognerebbe rimanere legati all’euro se il mantenimento di questa moneta è funzionale alle esigenze dei mercati e agli interessi finanziari di Paesi come Germania e Francia o Stati Uniti ma non indistintamente alle necessità di sviluppo economico di tutti gli Stati membri della UE? Perché ogni Stato dovrebbe uniformare la sua politica a scelte decise sempre da altri sia pure in nome di una molto astratta ed equivoca unità europea?

L’umanità europea e mondiale non ha bisogno affatto di governi automatici e impersonali ma di governi di uomini seri e responsabili che siano capaci di dare luogo a un governo di leggi finalizzate alla risoluzione di gravi problemi economici reali, ovvero non creati ad arte da attività o giochi speculativi sfuggenti ad ogni controllo politico, e al soddisfacimento almeno parziale e moralmente accettabile di non solo legittime ma doverose e non più prorogabili aspettative di redenzione umana, morale, economica e sociale. E’ tempo che l’etica e la politica abbiano un soprassalto di dignità perché nel codice etico-spirituale dell’umanità non è affatto previsto che ciò che è mezzo di vita per tutti, ovvero il denaro, possa o debba trasformarsi in fine primario di alcuni fondato sulla forzata privazione di molti. Perché è verissimo ciò che scriveva Giorgio Agamben, poco più di un anno fa: «se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese. Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’ archeologia – non la futurologia – è la sola via di accesso al presente» (Se la feroce religione del denaro divora il futuro, in “La Repubblica” del 16 febbraio 2012).

E insomma, per dirla in termini comprensibili in relazione all’Italia, il nostro debito pubblico è talmente patologico che la terapia da cavallo ad essa imposta dalla Troika non è sostenibile e quindi non deve essere sostenuta, perché se pareggio di bilancio e fiscal compact vengono di fatto implicando non solo l’immiserimento delle generali condizioni di vita della nostra nazione ma la persistenza di una disoccupazione giovanile galoppante e persino la non sopravvivenza fisica di migliaia o di centinaia di migliaia di persone, se quindi le perdite sono di gran lunga superiori ai vantaggi, non si capisce proprio per quale motivo si dovrebbe ottemperare senza batter ciglio ai vergognosi diktat usurai europei. Una politica finanziaria quale quella richiesta dall’Unione Europea non consentirebbe alcuna riduzione della pressione fiscale né riaprirebbe la strada ad interventi espansivi per esempio nell’ambito delle politiche industriali. Già essa ha provocato una fase di recessione, cui è seguita l’attuale fase di depressione, cui ineluttabilmente seguirebbe, se continuassimo ad assecondarla, una fase di vera e propria e definitiva disperazione.        

Certo, non ci si può illudere che la politica economica europea possa essere cambiata facilmente non solo perché le forze semiocculte che la sostengono fanno molto pesare i loro ricatti estorsivi sui popoli ma anche perché al momento non tutti i paesi stanno subendo i pessimi effetti dell’austerità e anzi alcuni se ne stanno ora avvantaggiando, pur senza capire che di questo passo non possono non venir compromessi e distrutti due beni fondamentali della civiltà europea, ovvero la democrazia e la pace. I fatti però sono quelli che sono e, se proprio bisogna litigare per cambiare le cose, è molto meglio farlo subito che non quando sia troppo tardi.

   Il punto di vista cattolico su questa materia è stato espresso efficacemente dall’economista Carmine Tabarro (Ridurre l’austerità e ripartire con la crescita, in “Zenit” del 24 marzo 2013), il quale ha osservato che «essere custodi della creazione», come si è espresso papa Francesco, «significa stare accanto agli altri con attenzione responsabilità e amore, prevedendo, provvedendo, farsi fratello dei più deboli, avere come meta il bene comune alla luce di Cristo. Questo concetto di custodire l’altro, di generosa responsabilità, sembra smarrito almeno in certi ambiti bancari e politici dell’Europa», per cui è probabile che la Chiesa sia sul punto di non considerarsi più “Chiesa europea” per riassumere e riaffermare la sua antica funzione di “Chiesa universale”.

Visto che le austere politiche economiche europee stanno producendo disastri in modo reiterato mettendo in pericolo la stabilità e il futuro dell’euro e le stesse democrazie europee, è evidente che all’Unione Europea manchi una visione d’insieme e che, ne sia o meno consapevole, essa stia portando avanti semplicemente un piano usuraio e criminale di prelievo sistematico di denaro e di prosciugamento di tutte le risorse economiche disponibili sul vecchio continente, operando significativamente delle discriminazioni tra paese e paese: e per esempio, tra l’Italia che dovrebbe rispettare i patti fiscali entro e non oltre il 2013 e la Francia che, pur avendo un deficit ben superiore ai parametri del patto di stabilità, si è vista concedere la possibilità di pareggiare il suo bilancio interno solo a partire dal 2017. 

Non solo la carità cristiana ma la stessa logica, argomenta giustamente Tabarro, vorrebbe che l’attuale superiorità economica di cui oggi dispongono, per effetto dell’andamento dei mercati, i Paesi nordici su quelli mediterranei si traducesse in una disponibilità dei primi a prestare denaro a un bassissimo tasso d’interesse ai secondi per rilevanti investimenti industriali e finanziari di cui quest’ultimi appunto hanno un’assoluta necessità. Anche perché, se andrà crescendo sempre più un sentimento di ostilità fra nord e sud d’Europa, non si rischierà forse di precipitare in una situazione storico-politica simile, se non analoga, a certe situazioni del recente passato da cui sono scaturite guerre fratricide tra i popoli europei?

Non è che ci si possa limitare a condannare i crescenti populismi ed estremismi europei, che sono peraltro il fedele riflesso del bisogno oggettivo dei popoli di difendersi dalla politica criminale che stanno subendo, ma almeno come cristiani non ci si può non domandare «se abbia ancora senso un’Europa aggrappata soltanto alla moneta che non sa più guardare avanti, mentre una parte importante del continente sta vivendo una decrescita sempre più infelice. Come cristiani non possiamo non essere preoccupati della crisi sistemica che stiamo attraversando; inoltre siamo, per le nostre radici sostenitori dell’Europa, intesa come progetto a un tempo civile, valoriale e culturale che va oltre l’utilitarismo economicista. Un’Europa come l’attuale, politicamente frammentata, economicamente squilibrata, culturalmente segnata dal ritorno degli egoismi, dei particolarismi regionali e linguistici, poco attenta ai valori dell’etica del bene comune, sembra destinata a cercare di gestire una lenta e buia decadenza» (ivi).

Per i cristiani non esistono ragioni al mondo per le quali si possa concepire un’economia che non abbia al suo centro l’uomo e uomini specifici e concreti e in cui il denaro non sia funzionale al benessere di tutti e principalmente al benessere dei soggetti economicamente e socialmente più svantaggiati. Motivazioni del tipo: bisogna pagare il debito, bisogna onorare i patti, bisogna osservare gli accordi fiscali, bisogna pagare le multe in caso di infrazione, per i cristiani non hanno e non possono avere un valore assoluto e certamente non hanno alcun valore e alcun carattere di vincolo morale oltre che politico se o quando esse contravvengano ai precetti evangelici di fraterna condivisione, di uguaglianza, di giustizia anche e non solo sociale. 

Perciò, se l’economia viene realmente assolvendo la funzione di contribuire al bene comune sia nelle sue forme materiali che in quelle immateriali, essa potrà essere e sarà probabilmente ancora imperfetta ma pur sempre suscettibile di essere accolta e riconosciuta come un’economia sana e utile; altrimenti non potrà essere che malata e, com’è noto, se non ci si allontana o non si guarisce dalle cose malate si va incontro alla morte.

E’ in un’ottica del genere che banche e finanza dovrebbero trovare la loro giusta collocazione, come sottolinea ancora Tabarro in un suo recente volume (Dalla società del rischio all’economia civile, Pardes 2010), e svolgere un ruolo importante come quello svolto storicamente dai Monti di Pietà dei francescani che furono il primo esempio di banca popolare. L’economia dev’essere civile e a fondamento di un’economia civile «vi sono la reciprocità e la felicità relazionale, ovvero la felicità che può essere goduta solo con gli altri e insieme agli altri» (ivi), ciò che comporta una notevole distanza rispetto a logiche puramente strumentali e a teorizzazioni pseudoeconomiche che, per lungo tempo applicate, hanno riconosciuto «ai manager d’impresa l’unica responsabilità di far guadagnare quanto più possibile agli azionisti, sviluppando un sistema fondato sulla crescita esponenziale delle disuguaglianze, fra persone e fra popoli» (ivi). I cristiani non possono aderire a modelli di agire economico che non presentino un chiaro ed inequivocabile valore sociale. Se l’economia, anziché rendere prospera la vita sociale, la inaridisce e la distrugge, vuol dire che ha incorporato in sé qualcosa che non ha a che fare con l’economia correttamente intesa quale servizio sociale ma solo con una forma deteriore di economia qual è quella che punta non a servire ma a dominare sulla società.

Se è vero che nel mondo globalizzato non può darsi etica senza economia è altrettanto vero che in esso non può darsi economia senza etica e senza un’etica quanto più possibile comunitaria e giusta. Questo è l’unico parametro da cui i cristiani e i cattolici non possono e non devono mai derogare.

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