Etica e politica tra ateismo e fede

di Gianni Pierangeli

“Che Dio esista o non esista, l’uomo è il Dio della norma. Non esiste una norma già data in natura. In natura esistono solo fatti, eventi” (P. Flores D’Arcais, Etica dell’ateismo, in “Micromega”, 3/ 2008). Se esiste, infatti, poiché Dio parla solo attraverso l’uomo per quanto ispirato questi possa essere, esiste solo attraverso l’uomo, attraverso la sua voce, la sua pretesa di rappresentarlo e rappresentarne la volontà; se non esiste, ogni uomo può crearsi una norma, una legge e può tentare di farla valere socialmente, storicamente con il consenso di altri uomini. In questo senso, osserva d’Arcais, che Dio esista o non esista, tutto è comunque permesso e quindi ogni creazione, ogni elaborazione, ogni concezione morale e politica prodotte o inventate dagli uomini e da ogni singolo uomo sono condannate al soggettivismo, al relativismo, al nichilismo.

Ma, mentre nel caso in cui l’uomo religioso fonda il suo ragionamento e ogni possibile ragionamento su Dio e sul suo Dio personale ovvero su un Dio a sua immagine e somiglianza si tenta scorrettamente di ancorare la razionalità, l’eticità, la socialità all’assoluto, a qualcosa che si sottragga alla possibilità stessa della verifica e della confutazione, nel caso in cui invece l’uomo si fa creatore e signore della norma senza ricorrere a riferimenti metafisici e dogmatici di natura teologica, indipendentemente dalla qualità discorsiva di simili riferimenti, si è disposti a mettere in gioco le proprie idee, le proprie tesi, consentendo ad altri di verificarle, correggerle, integrarle, rovesciarle o perfezionarle, e quindi dando luogo al gioco del libero dibattito democratico e della ricerca della verità per via democratica.

Dogmatico è sia chi vuole far entrare Dio nel dibattito pubblico in quanto, pensa il D’Arcais, a decidere della volontà di Dio non esistono altri criteri al di fuori della “guerra”, della “forza” e “del successo” (affermazione chiaramente opinabile se non del tutto infondata), sia chi lo vuole invece espellere dal dibattito pubblico e politico. Ma la differenza è che il credente pone le sue norme come “indiscutibili e non negoziabili”,  mentre il laico credente o non credente presenta le sue norme di “individuo pensante ma finito e fallibile” come norme sottoponibili “alla critica e perfino al compromesso”. Nel primo caso, la tolleranza verso chi nega l’assolutezza della verità è al più “una concessione provvisoria”, mentre nel secondo caso, quello in cui venga sostenendosi con ferma convinzione un’opinione pur sempre relativa, si lascia ben aperta la porta del dubbio e della discussione critica. Molto meglio, democraticamente parlando, la posizione di chi argomenta senza scomodare Dio e senza farne un interessato uso strumentale, che non quella di chi si trincera dietro il ricorso a Dio, attribuendogli le proprie opinioni e peccando quindi di “delirio di onnipotenza”, perché incapace di rispondere alle argomentazioni razionali dell’ateo (in senso metodologico) con argomenti logici umani altrettanto efficaci.  

Ecco perché, in sostanza, una politica veramente democratica dovrebbe provvedere a bandire il discorso religioso dall’arena politica in cui devono assumersi decisioni e misure legislative di interesse collettivo. Senonché, il ragionamento di d’Arcais appare non solo involuto o contorto ma anche e soprattutto contraddittorio e inattendibile. Quando infatti afferma che “escludere Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica è condizione essenziale perché la creazione della norma comune possa avvenire in forma democratica. Non a caso, demos-cratia implica che la legge può avere quale unico ‘fondamento’ gli uomini stessi, la loro sovranità. E il disincanto del mondo che la precede”, non si accorge evidentemente che l’odio per l’assoluto da cui è mosso lo porta inevitabilmente ad assolutizzare il relativo da cui è attratto, anche se si sforza vanamente di chiarire che tale relativo è pur sempre suscettibile di revisione e approfondimento continui ovvero di non assolutizzazione, quasi che invece una verità assoluta, per esempio la provvidenza divina o l’immortalità dell’anima, non presentino o non possano presentare margini di problematicità critica e di discussione libera e aperta.

Piaccia o non piaccia a filosofi come quello cui qui ci si riferisce, i problemi della fede e i contenuti della religione sono e restano anch’essi problemi e contenuti della ragione e di una ragione critica che sta alla base dello stesso agire pratico, perché nati e consolidatisi nel quadro della complessa e tormentata storia degli uomini. Se secoli e secoli di scienza e di modernità, di pensiero critico e di ermeneutica radicali, non sono riusciti non dico a distruggere ma neppure a porre in uno stato di oblìo l’interesse umano e spirituale per la fede, per la religione e la teologia, e quindi per il problema del rapporto tra uomo e Dio, un motivo molto concreto e radicato nell’esperienza storico-empirica della vita umana dovrà pur esserci e, semmai, si tratterebbe di orientare l’indagine in questa direzione e non di reclamarne o augurarne la fine o la proscrizione.

Contrariamente a quel che certi atei metodologici o esistenziali ci raccontano nell’abusato nome dell’autonomia di pensiero e della libertà di coscienza, Dio resta ancora oggi il cuore pulsante di ogni seria e rigorosa interrogazione critica, perché solo gli sciocchi, che si trovano equamente distribuiti tra i colti e gli incolti, possono negare che Dio sia un problema reale e oggettivo della civiltà umana e della vita di ogni singola persona. Tu, ateo, puoi forse dimostrare la non oggettività del problema di ciò che, secondo innumerevoli esperienze e testimonianze umane, ci trascende infinitamente? Puoi forse invalidare con fatti incontrovertibili l’ipotesi Dio, indipendentemente dai soggettivi tentativi di rappresentarne la vera identità o dalle inevitabili tendenze umane ad appropriarsene? Puoi, d’altra parte, e di conseguenza, argomentare che le convinzioni religiose sarebbero irrilevanti e anzi dannose ai fini della vita democratica e della possibilità di un libero e spregiudicato dibattito politico, per cui sarebbe appunto opportuno estrometterle da tutto ciò che è pubblico per relegarle unicamente nell’ambito del personale o del privato?

Si può forse negare legittimità alla posizione di quella moltitudine di persone che, per quanto forse affetta da forme più o meno conclamate di ateismo pratico, non ha difficoltà a riconoscere come assolutamente sensato quel che diceva Pascal: nel mondo c’è troppo poco per credere, ma c’è troppo per negare?

Dio, nonostante gli sforzi appassionati di tanti brillanti uomini di pensiero, non si può negare né teoreticamente né, soprattutto, praticamente. Apertura critica significa continuare ad indagare su di Lui e continuare a credere che Egli, fino a che non sia possibile dichiararne la morte sul piano scientifico, possa essere molto rilevante per la vita e la stessa vita politica dell’umanità.

Ad oggi, nulla impedisce di ritenere del tutto democratico consentire ai credenti di qualunque religione di far valere la loro fede anche sul piano politico, in modo che dal confronto-scontro quanto più possibile pacifico tra valori diversi o opposti (politeismo dei valori lo definiva Max Weber) possa scaturire senza coercizioni di sorta un destino di salvezza oppure un destino di perdizione per individui, popoli e umanità tutta. La verità è che gli atei che contestano il diritto dei credenti di portare il loro impegno religioso in politica sono atei rozzi o volgari non certo raffinati o civili, troppo pieni di sé per poter accettare l’idea che un giorno potrebbero sentirsi drasticamente rimpiccioliti e condannati al fallimento. 

Gianni Pierangeli

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