Economisti italiani “non allineati” su euro e debito pubblico

Pare che non tutti gli economisti italiani abbiano creduto o continuino a credere nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea e della moneta unica su cui essa si fonda, ovvero l’euro. Dico “pare”, un po’ seriamente e un po’ sarcasticamente, perché a dire il vero, specialmente nell’ultimo biennio, i media hanno veicolato ossessivamente quella che è stata presentata come la tesi di gran lunga maggioritaria della scienza economica più accreditata sul piano internazionale e consistente nel ritenere che non ci fossero alternative possibili o realmente desiderabili né all’Unione Europea né all’euro né alle politiche europee di austerità. Ora invece, dinanzi all’emergere sempre più chiaro di nodi molto ingarbugliati della politica finanziaria europea e dei disastri economico-finanziari sempre più gravi che, dal punto di vista del “sociale” e dei processi produttivi, le severe ma insensate direttive di Bruxelles continuano a provocare, molti economisti italiani cominciano a rivedere le proprie posizioni, ad essere meno dogmatici, a ridiscutere il concetto di Unione Europea, battendo più sul tasto del rilancio dell’economia e della cosiddetta crescita con l’auspicata apertura dei rigidi rubinetti finanziari della BCE e della Commissione europea a favore degli Stati più “virtuosi” o più “disciplinati”, che non su quello del rigore e della necessità di mettere completamente a posto i bilanci statali dei vari partners.  

Però, a parte i tanti pentiti dell’ultima ora che si danno da fare per dimostrare che essi in fondo anche prima qualche dubbio l’avevano sempre avuto e che le cose non si sono svolte esattamente secondo i loro schemi interpretativi, vi sono economisti che, da parecchio tempo a questa parte, hanno mostrato di non apprezzare il modo in cui è stata costruita l’Unione Europea, e di non fidarsi né dell’euro, né delle conseguenti e sempre più esasperate politiche di austerità imposte a tutti gli Stati membri. Solo per fare dei nomi tra i più prestigiosi: Giulio Sapelli, che è tra l’altro professore ordinario di storia economica presso l’università degli studi di Milano; Bruno Amoroso, italiano naturalizzato danese e allievo dell’economista di fede keynesiana Federico Caffè; Alberto Bagnai professore di politica economica a Pescara e in Francia.

Sapelli, nel corso di un’intervista rilasciata il 19 dicembre 2012 ad “Abruzzoweb” e intitolata “Andiamo incontro all’Iceberg. L’euro è una pazzia”, demoliva letteralmente la prosopopea europeistica ed euromonetaristica con argomentazioni chiare e rigorose. Quelli che seguono sono alcuni dei passaggi più significativi del suo ragionamento: «L’euro è una pazzia, non esiste nella storia dell’umanità una moneta creata prima dello Stato. Nel nostro caso, la moneta unica è affidata a meccanismi di regolazione incompiuti e di bassissima competenza tecnica. Fin quando abbiamo avuto una crescita, la debolezza dell’euro era attenuata, ma dall’arrivo della crisi e a causa delle differenze di produttività del lavoro e delle differenze delle bilance commerciali tra Paesi come la Germania in surplus commerciali e altri in deficit come Italia, Francia, Spagna, sono emersi tutti i limiti di questo esperimento mal riuscito. Non potendo più controbilanciare i limiti in un regime di cambi flessibili, come capita in tutto il mondo e come capitava all’Italia con la lira, perché bloccati nel regime di cambi fissi, ecco che ci troviamo in guai molto grossi. In definitiva, l’euro non doveva essere creato…Siamo sull’orlo del baratro, il Titanic continua ad andare contro l’iceberg. E le sterzate decisive sono state evitate. È mancato, per esempio, un regolamento bancario transatlantico, quindi euro-americano…. Ai tedeschi andava bene, gli italiani invece non se ne sono occupati, ma adesso in Germania si accorgono che un controllo bancario unificato farebbe scoprire le immense quantità di asset tossici contenute nelle banche tedesche. Secondo alcuni studi, nell’elenco delle banche più a rischio, la prima al mondo è la Deutsche Bank, laddove la statunitense J.P. Morgan è tredicesima. Con lo scoppio dei nazionalismi e in un clima molto teso, pieno di difficoltà economiche ed elettorali di grande portata, non si riesce a fare ciò che va fatto: riformare la Banca centrale europea, che si ostina a portare avanti una debolissima politica antideflattiva. E la crisi industriale è appena cominciata».

Certo, bisognerebbe riformare la BCE, ma bisognerebbe riformarla non con dei semplici correttivi o aggiustamenti bensí radicalmente, ovvero inglobandola in uno Stato europeo che le detti legge e non che si faccia da essa dettar legge. Tale Banca infatti è nata da un errore madornale originario che sconfina nella pura e semplice criminalità, vale a dire il consentire che essa nascesse come un’istituzione di diritto pubblico (e quindi con funzione pubblica) ma costituita da istituti bancari privati, detenuta da banche private (perché anche le Banche Centrali di ogni Paese membro dell’UE, pur essendo pubbliche, sono a larghissima partecipazione privata), comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all’euro. LA BCE, in sostanza, ha la struttura di una società per azioni, che come ogni società per azioni mira a massimizzare i profitti degli azionisti e non certo i benefici dei o per i cittadini, e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica.

Tale colossale società per azioni ha tutto l’interesse, in vero, a creare “debito pubblico” perché maggiore è il debito, maggiore è il profitto, e appaiono del tutto giustificati i rilievi che faceva qualche tempo fa Cristiano Magdi Allam: «Questa “fabbrica del debito” si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati il 19 luglio dal nostro Parlamento: cosí ci siamo ormai autocondannati ad essere indebitati a vita. Ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l’Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili. D’ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale.
Siamo ad un bivio epocale: salvare l’euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la “fabbrica del debito”, emessa a parità di cambio con l’euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena dritta».

         Tuttavia, benché la creazione dell’euro, per i modi in cui è avvenuta, si sia rivelata, a parte la Germania e qualche nazione nordeuropea, una iattura per gli Stati e i popoli europei, Sapelli ammonisce a non sottovalutare le conseguenze catastrofiche di una possibile uscita dall’euro, perché in effetti «uscire dall’euro sarebbe una catastrofe per le classi più basse, come gli operai e in generale chi vive con un reddito da lavoro. Forse, i commercianti riusciranno a salvarsi fin quando troveranno qualcuno disposto a comprare un prodotto pagandolo cinque volte di più del prezzo reale, ma gli altri annegheranno. Se guardiamo alla Grecia, possiamo affermare con certezza che è di fatto crollata, è come se fosse già uscita. Ecco perché per salvare il sistema va riformata innanzitutto la Banca centrale europea, cambiandola sul modello della Federal Reserve degli Usa. E poi, riformare anche il parlamento che sicuramente sconfiggerebbe la politica della signora Angela Merkel, anche se non credo si farà in tempo. Molti anni fa, purtroppo, i cambiamenti arrivavano dalle guerre. Oggi non più. Allora, si deve sperare di riuscire a cambiare senza traumi. Mi fa ridere chi oggi parla di un parlamento europeo che non conta niente. Dove sarebbe la novità? Si accorgono soltanto adesso che le leggi in parlamento vengono approvate da una commissione piena di commissari e ambasciatori non eletti? Gli Usa e l’Inghilterra lo sapevano, per questo non si fidano più di un continente ormai privo di democrazia».

E, per quanto riguarda in particolare l’Italia, come dovrebbe comportarsi, dopo le elezioni del febbraio scorso, il nuovo governo, alla luce del fallimento del governo Monti? Questi i suggerimenti dell’economista piemontese: «Dopo Monti non cambierà nulla. Certo, tutto può rivelarsi migliore di Monti, ma è necessario un governo di unità nazionale che si impegni a iniziare una politica anti-deflattiva che comprenda una piccola inflazione capace di tirarci fuori dal debito, perché il debito non è il nostro problema, ma l’unico modo che abbiamo per salvarci. E, puntando all’Europa, legarsi bene al Ppe e al Pse».

Anche sul famigerato “debito pubblico” Sapelli viene proponendo un’analisi molto diversa da quella solitamente propagandata dai media. Dopo aver premesso che le tasse patrimoniali, pur necessarie e da applicare secondo criteri di progressività, non dovrebbero sfondare livelli di moderazione per evitare che i capitali scappino via laddove l’Italia «ha un gran bisogno di capitali», egli contesta che sia giusto considerare il debito pubblico «come la peste»: «Non scherziamo. L’oligopolio finanziario mondiale non colpisce il debito pubblico, ma l’assenza di crescita. Il Giappone ha il 280 per cento di debito pubblico, la Spagna del default il 75,8 per cento. Vogliono farci credere agli spauracchi, questa è la verità». Per Sapelli, dunque, la soluzione sarebbe nella ripresa della tanto invocata seppur in vero molto problematica “crescita”, che può essere favorita soltanto tornando a fare investimenti pubblici e privati, riaprendo i rubinetti bancari per la concessione di crediti necessari in particolar modo a piccole e medie aziende e alle famiglie, e riattivando i processi produttivi ora pressoché fermi sia per tornare a creare la ricchezza nazionale sia per far ripartire il consumo senza il quale non è possibile produrre se non in misura molto modesta.

Anche il professor Bruno Amoroso prende di mira l’euro e il governo Monti. In un’intervista pubblicata in “Focus” in data 4 dicembre 2012 e intitolata “La nostra rovina: l’euro”, egli, riproponendo posizioni critiche maturate all’indomani della UE, è tornato a schierarsi nettamente contro l’Europa della moneta unica: «L’Euro è un’idea folle che sta portando povertà su larga scala. Il rischio di rivolte sociali è molto elevato, se non si cambia rotta si può finire male». Dopo aver ricordato che l’euro fu istituito non già per motivi economici ma per motivi politici o meglio per «uno scambio politico», e più esattamente «per l’insistenza dei francesi che preoccupati per la riunificazione tedesca pensavano di poterne controllare il peso e il ruolo con una moneta unica», mentre dal canto loro «i tedeschi accettarono la moneta unica come forma di scambio per ottenere il consenso francese e degli altri paesi alla loro annessione della Germania Orientale dentro il sistema dell’Unione Europa», egli ha osservato che tuttavia proprio «i nodi di questa azzardata operazione, ossia una moneta senza uno Stato o istituzioni comuni adeguate al compito, sono venuti al pettine. L’insufficienza dell’euro rispetto alle speculazioni finanziarie dalle quali ci doveva proteggere è oggi evidente. La protezione si è trasformata in trappola e la speculazione, associata al potere economico assunto dalla Germania, che non è un partner cooperativo come immaginato dai padri dell’Europa, ma un soggetto competitivo e aggressivo, sta strangolando i Paesi dell’Europa del Sud e del Mediterraneo».

In effetti, la funzione dell’euro di proteggere dalle turbolenze delle speculazioni finanziarie si è rivelata molto più teorica di quanto pensassero gli economisti che hanno lavorato alla sua introduzione. Come ha ancora osservato Amoroso: «La cosa…non poteva durare. Oggi le crisi finanziarie mettono a nudo l’insufficienza di uno strumento che è diventato un mezzo di controllo delle economie. Lo strangolamento dei Paesi del sud, non solo d’Europa, è sotto gli occhi di tutti. Quello che oggi si sta avverando è il compimento di un piano di ‘apartheid globale’ messo in opera dal 1971 con l’avvio della Globalizzazione e del quale Mario Monti in Italia e Mario Draghi in Germania sono gli esecutori testamentari per le nostre economie. Quello a cui stiamo assistendo non è il fallimento della Globalizzazione, delle politiche neoliberiste e della finanza, bensí il loro realizzarsi nella forma più piena e più bieca. Anche le guerre in corso sono espressione di questo potere per disciplinare, oltre all’Europa e agli Stati Uniti, anche le economie asiatiche, africane e latioamericane. Ma la vittoria in casa si scontra sempre di più con i fatti oggettivi e le resistenze fuori casa, ed è l’espansione di queste aree e Paesi che possono far fallire questi nuovi piani di colonizzazione delle risorse mondiali».

Sarebbe stato del tutto normale ipotizzare che l’introduzione della moneta unica non preceduta dalla costruzione di istituzioni comuni e di un governo europeo avrebbe finito per determinare squilibri favorendo qualche nazione a danno di altre. Perché tale ipotesi non sia stata presa in attenta e seria considerazione, resta a dir poco un mistero: «più che nel paradosso, siamo nel mondo dell`assurdo: l’Europa ha pensato di avere una moneta e al posto del governo ha messo una banca. Governare 27 paesi europei mediante una banca, se non è uno scherzo, è una follia. Neanche la stessa moneta sembra funzionare bene. Basti pensare che i titoli in Euro dei paesi membri non hanno lo stesso valore sui mercati esteri. Di fatto funziona come se esistesse l’Euro-italiano, l’Euro-greco, l’Euro Tedesco e via discorrendo. Questi, però, hanno prezzi diversi. Non c`è quindi il rischio di tornare alle valute nazionali, ma di fatto questo avviene oggi quando si stima il valore delle valute mentre si insiste nella retorica della moneta comune e nel togliere ai vari paesi la sovranità sulle proprie politiche economiche».

Ogni politica e scelta economiche non possono funzionare se non in un rapporto serio e responsabile al problema dell’occupazione e delle concrete condizioni sociali di vita delle popolazioni e dei cittadini. In questo senso, la soluzione più intelligente e realistica sembra essere quella legata al «modello keynesiano di monete nazionali raccordate da rapporti di cambio flessibili concordati e da un patto di solidarietà che riequilibri i Paesi con un eccesso di surplus e quelli con un deficit forte. Io concordo con questa proposta», ha osservato Amoroso pur rilevando che «però il suo presupposto è l`esistenza di un accordo tra tutti i Paesi europei e dei rispettivi governi e questo mi sembra oggi alquanto difficile. Dieci anni di euro pesano», per cui adesso bisogna trovare «il modo di regolare l’economia per riequilibrare le forze in campo. Poiché i problemi sono stati creati nella zona Euro, è dentro questa che si deve trovare una soluzione di riequilibrio, creando due Euro (nord e sud) raccordati tra loro da un un rapporto di cambio fisso e un patto di solidarietà come sopra. Se non si fa questo, il rischio di grossi conflitti sociali è elevatissimo».

Ma non è affatto questa la soluzione e la prospettiva dei burocrati e degli esperti finanziari di Bruxelles e di tutti quei politici e media europei che continuano a spacciarne come vere e indispensabili le terapie fondate sostanzialmente su prelievi fiscali e finanziari ingenti e sistematici dalle economie nazionali europee più povere o segnate da un maggior grado di criticità. Costoro, infatti, continuano ad agitare il debito pubblico dei greci, degli italiani o di altri popoli dell’Europa meridionale, come la vera causa della crisi in atto, reiterando nei loro confronti l’accusa di «essere spendaccioni e altre sciocchezze. Le soluzioni, al contrario, esistono. A meno che non si voglia arrivare al disastro che si abbatterà sui nostri ceti medi, destinati all’ulteriore impoverimento, e al peggioramento delle condizioni di chi è già povero. L’esperienza insegna che quando i ceti medi si sentono aggrediti nella loro sopravvivenza, hanno una reazione violenta e si scatenano contro gli strati sociali più deboli come gli immigrati, il barista che non emette lo scontrino, i fannulloni. Una reazione alimentata dalle misure prese dal governo che fa della lotta all’evasione la caccia ai gruppi più deboli per sollevare il polverone che permette tranquillità ai ladri e ai veri speculatori, quelli della finanza e i loro portaborse della politica, invisibili. Mario Draghi, a capo della Banca centrale europea», questo è il giudizio impietoso ma obiettivo di Amoroso, «ha un ruolo ben definito. Mario Monti in Italia segue la sua linea».

In effetti, «Mario Draghi, che non fa mai errori di calcolo, è stato messo lí, come nelle cariche precedenti che ha ricoperto al Tesoro italiano e alla Banca d’Italia, perché è un collaboratore della Goldman Sachs, una banca che ha rovinato milioni di persone. Da Draghi al premier italiano Mario Monti c’è un disegno preciso: andare a pescare nei risparmi degli italiani e impoverire il sud dell’Europa per conto di speculatori finanziari e vari gruppi di potere. Negli ultimi trent’anni hanno contribuito a privatizzare tutto. Pensare che dobbiamo convincerli a far bene è ingenuo, non lavorano per le popolazioni, ma contro. D’altronde, le politiche che Draghi sta perseguendo, ossia distribuire fondi ai suoi amici delle grandi banche invece di riattivare i flussi del credito produttivo per imprenditori e famiglie, sta lì a dimostrarlo.

Molti italiani ancora sbraitano contro l’ex premier Silvio Berlusconi. Benedicono lo stile-Monti, sobrio e concreto. In piazza si festeggiava la cacciata del primo, in realtà voluta dai mercati, senza conoscere ciò che avrebbe fatto il secondo, messo a capo del governo con uno scopo ben preciso. I veri potenti sono aiutati dai mass media nella gestione del caos politico ed economico. Federico Caffè, nel lontano 1972 in un piccolo saggio parlò di ‘strategia dell’allarmismo economico’. La crescente concentrazione finanziaria che stava nascendo negli Usa era evidente, lo stesso Caffè diceva che la concentrazione di potere sarebbe stata legittimata dall’allarmismo economico creato ad arte. Negli ultimi dieci anni i polveroni politici in Italia ci sono stati, alcuni hanno anche un fondo di verità, ma per il resto sono stati ingigantiti e sfruttati per nascondere e fare ben altro.

Appare strano che dopo le gigantesche speculazioni e gli arricchimenti illeciti a cui abbiamo assistito, nessuno sia stato indagato. Il conflitto di interessi riguarda veramente solo Berlusconi? Certo, qualche reazione, anche se isolata, c`è stata, ma è poca cosa: un giudice di Trani…, ha aperto un procedimento contro una società di rating, mentre il Tribunale di Pescara ha invece condannato per frode Mario Draghi in quanto dirigente della Goldman Sachs per l’Europa. Draghi, per la cronaca, ha patteggiato. A parte questi casi isolati, però, nessuno si è sognato e si sogna di toccare i veri responsabili di quello che accade».

Questa è la realtà. E continuare a ragionare come se invece la verità fosse altra e diversa può solo aggravare la situazione economica dei paesi in difficoltà ed accrescere dovunque la conflittualità sociale suscettibile di esplodere prima o poi in forme di violenza popolare che non potranno più essere arginate dalla martellante ed ipocrita campagna dei media contro la violenza e finalizzata a garantire la cosiddetta unità nazionale degli Stati che, a quel punto però, sarebbe unità di cittadini-schiavi e incapaci di reagire alla dittatura planetaria della finanza internazionale sempre più gonfia di interessi illeciti e di attività delittuose. 

Tali analisi sono condivise dal terzo economista, di cui qui ci si vuole occupare, ovvero il professor Alberto Bagnai che però, diversamente da Sapelli e Amoroso, propende decisamente per una uscita preparata per tempo dell’Italia dall’euro. Sulla base di alcune importanti indicazioni di importanti economisti come Krugman e De Growe, egli riteneva già molti mesi or sono che l’Italia avrebbe dovuto decidere di lasciare la moneta unica prima che fossero i mercati a imporglielo  [Il teorico (serio) del partito antieuro: “Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile, in “Il Fatto Quotidiano” del 18 giugno 2012]. Proprio per salvare l’Europa e non per distruggerla, egli diceva, occorre sbarazzarsi dell’euro. A coloro che si ostinano a ripetere che l’euro non c’entra e che tutti i nostri guai sono dovuti alla crisi dei debiti sovrani, egli ha replicato cosí: « I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano cosí. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Gli squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla moneta unica, cosa ormai riconosciuta anche dal Fmi, che hanno portato all’accumulazione di debito privato».

Ma perché debito privato, gli è stato chiesto; non è di debito pubblico che si tratta? La risposta è la seguente: «Spiego: se un paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta cosí a debiti verso l’estero, prevalentemente privati. Ma perché il resto del mondo continua a far credito? Semplice: per finanziare la vendita delle proprie merci. E’ banalmente il meccanismo in atto tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso i paesi periferici. Certo, a valle il problema è costituito dai debiti pubblici. Ma a monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie, per via della storia del too big to fail. E ora il debito è pubblico». E a chi gli ha fatto osservare che economisti come Giavazzi e Alesina abbiano rilevato che però la colpa di quel che è successo sarebbe pur sempre nostra per non aver fatto le necessarie riforme, Bagnai replica: «Forse potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, però è anche vero che nei primi anni il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, ci sottraeva domanda estera: se avessimo diminuito anche quella pubblica saremmo cresciuti ancora di meno».

Ma non è forse vero che in Germania, dove le riforme sono state fatte, va tutto bene e riesce a vendere anche in Cina? Anche a questa obiezione Bagnai risponde che «intanto non è vero, perché la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Invece è migliorata coi paesi dell’Eurozona, con noi. Questo perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, quella che oggi viene chiesta a noi: non va dimenticato, però, che la Germania per assorbirne il costo sociale fu costretta a violare per prima il Patto di stabilità, sussidiando una pletora di sottoccupati (e quindi, indirettamente, il suo sistema industriale). Ma ora a noi chiede austerità, mentre occorrerebbero politiche di rilancio dell’economia, come riconosce anche l’International Labour Office delle Nazioni Unite».

Ma come sarebbe a dire che le riforme in Germania si sarebbero tradotte alla fine in una compressione dei salari, visto che l’operaio tedesco guadagna il doppio dell’operaio italiano? «In Germania», è la risposta, «non c’è solo l’operaio strutturato e non c’è solo la Wolkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job… Risultato: dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5%». Ed è del tutto evidente, per tutto ciò che è stato detto sopra, che l’euro favorisce solo o principalmente la Germania e i paesi del nord-Europa che anzi resteranno strenui paladini della moneta unica sino a che le regole monetarie non cambino nei rapporti complessivi tra gli Stati europei. Per cui, per quanto doloroso, sarà inevitabile che l’Italia esca dall’euro e sarebbe preferibile gestire questo processo anziché subirlo. Sarebbe un grave errore identificare l’Europa con l’euro perché l’euro «è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà anche dopo».

A chi, come per esempio Pier Luigi Bersani, teme che questa prospettiva sia catastrofica e che, con il ritorno alla lira e la sua svalutazione, la nostra antica moneta nazionale sarebbe cartastraccia, Bagnai ancora una volta risponde: «Si fa molto terrorismo, ma di fatto nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Cosí è successo in Argentina, cosí successe anche all’Italia quando uscí dallo Sme nel 1992. Nel caso attuale, la svalutazione sarebbe attorno al 20%», anche se questo non implica necessariamente che, nel caso in cui uscissimo dall’euro, ci troveremmo con un 20% in più di inflazione, dal momento che «tutti gli studi negano ci sia un rapporto diretto tra svalutazione e inflazione: sempre a stare agli studi scientifici, è lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti (non certo 20!)…è bene ricordare che nel ’92, dopo una svalutazione del 20%, l’inflazione scese dal 5 al 4%».

Purtroppo, ha dichiarato Bagnai dopo aver visto all’opera per alcuni mesi il governo Monti, questo governo compie «delle scelte tecnicamente sbagliate, che mettono in visibile difficoltà il paese, applicando a noi le ricette che non hanno funzionato in America Latina negli anni ’80 e ’90», là dove il PD è complice diretto di questi errori benché ipocritamente dica di volersi battere per introdurre elementi di maggiore equità sociale nelle leggi del governo: «La fiducia nel mercato di certa sinistra è commovente: nessuno sfrenato pensatore liberale e liberista ne ha altrettanta. Però quando la sinistra aderisce a politiche di forte destra, alla fine succede solo una cosa: vince la destra». E infatti, proprio per evitare che vincesse la destra finanziaria e burocratica della Unione Europea, il popolo italiano, alle ultime elezioni politiche del 2013 ha votato soprattutto a favore del Movimento 5Stelle.

Ma, se gli economisti che sono stati passati in rassegna non sono “allineati”, nel senso che essi sono venuti elaborando delle diagnosi molto più problematiche e dubbiose di quelle sbandierate all’insegna di un apparente ottimismo dagli apologeti del sistema europeo e della sua moneta unica, va notato che anche prima dell’inizio degli anni 2000 non erano mancati economisti che, senza essere profeti, avevano saputo vedere i pericoli sottostanti alla decisione politica dei governi, non adeguatamente sottoposta al vaglio pubblico dei cittadini, di costruire una Unione Europea, con la sua Banca Centrale e la sua moneta unica, senza che essa fosse preceduta da un vero e proprio Stato europeo dotato dei pesi e dei contrappesi di cui ogni Stato democratico e parlamentare deve poter disporre.

Guido Carli aveva detto: «Il perseguimento dell’unione monetaria con forte anticipo sull’integrazione delle economie può danneggiare alcune di esse e non consente una distribuzione fra i paesi membri dei vantaggi e degli svantaggi connessi con il processo di unificazione. L’integrazione riguarda i fattori produttivi, le istituzioni in cui tali fattori sono organizzati, le norme che ne regolano e ne promuovono la circolazione, i prelievi fiscali e previdenziali, i trasferimenti di reddito compensativi. Senza l’integrazione delle economie, la rinuncia dei paesi membri all’uso autonomo del tasso di cambio e degli altri strumenti di politica monetaria può danneggiare alcuni di essi» (Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, 1971).

Il noto economista del Massachusetts Institute of Technology di Boston, Rudiger Dornbusch, osservava: «La critica più seria all’Unione monetaria è che, abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio, trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi (…) Diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia», e poi: «Una volta entrata, l’Italia, con una valuta sopravvalutata , si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira» (Foreign Affairs, 1996), mentre il liberista Martin Feldstein, professore ad Harvard, pronosticava realisticamente che «invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa»,  non senza notare che «una caratteristica particolarmente critica dell’Unione monetaria europea è che non c’è alcun modo legittimo per i paesi membri di ritirarsi: l’esperienza americana durante la Guerra di secessione del Sud fornisce alcune lezioni sui pericoli di un trattato che non offre via d’uscita. Le aspirazioni francesi all’uguaglianza e quelle tedesche all’egemonia non sono compatibili: gli effetti economici avversi di una moneta unica controbilancerebbero abbondantemente qualsiasi guadagno che si otterrebbe dalla facilitazione del commercio» (Foreign Affairs, 1997).

D’altra parte, Dominick Salvatore, economista della Fordham University di New York, rilevava che «muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’Unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale e l’atteggiamento della Bce, che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri» (American economic review, 1997). E addirittura profetico era il giudizio di Paul Krugman, professore a Princeton, premio Nobel per l’economia: «l’Unione monetaria», diceva, «non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania, per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro» (Fortune, 1998).

Ma, fra i critici più lungimiranti dell’Unione Europea e della moneta unica, va incluso anche quel Bettino Craxi, che per quanto politicamente e umanamente sfortunato, aveva intuito, come risulta da un’intervista del 1997, che «si presenta l’Europa come una sorta di paradiso terrestre, ma per noi nella migliore delle ipotesi sarà un limbo e nella peggiore un inferno. Bisogna riflettere su ciò che si sta facendo: la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht». Proprio cosí: bisognerebbe rinegoziare, quanto meno, non solo i parametri di Maastricht ma anche il trattato di Lisbona in vigore dal 2009 e l’intera costruzione europea.

Mattia Lanternino Scolopio

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