Palestina, un problema mondiale

di Elena Persicò

Ricordare insistentemente ad Israele i suoi obblighi giuridici, il suo dovere di rispettare trattati e norme internazionali e più in particolare il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1996 ed entrato in vigore dieci anni dopo, Patto che riconosce il diritto dei civili di ogni comunità umana alla protezione della propria integrità fisica e della propria esistenza contro discriminazioni sessuali, etniche o religiose, nonché il loro diritto ad esercitare senza limitazioni di sorta la libertà di pensiero, di parola, di associazione, di stampa e di riunione, nonché di partecipazione politica, è un atto moralmente e politicamente necessario che l’ONU sta compiendo da tempo immemorabile ma sostanzialmente inutile a giudicare dai risultati o meglio dalla totale mancanza di risultati raggiunti nel corso dell’ultimo mezzo secolo.bandiera-sasngue

Il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha inviato recentemente un appello al governo di Israele chiedendogli di indagare sugli ultimi tre conflitti a Gaza e sulle violazioni commesse durante gli scontri e intimandogli di “evacuare gli insediamenti in Cisgiordania”, pur sapendo perfettamente, per una lunga e pregressa esperienza, che non ci sono appelli e intimazioni che possano smuovere il governo israeliano dai suoi cocciuti e unilaterali propositi coloniali a danno della comunità palestinese.

Chiedere a Israele di riportare i suoi confini alla situazione territoriale antecedente la Guerra dei sei giorni del 1967 e di interrompere le sue continue attività di insediamento e di espropriazione in terra palestinese, è molto più inutile e mortificante che chiedere alla Russia di Putin di non fare ingerenza nella sovranità territoriale dell’Ucraina.

Tant’è vero che Netanyahu, uno dei tanti Messia osannati dal popolo ebraico, come al solito stoltamente indispettito nei confronti dell’ONU, ha dichiarato che «il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite» avrebbe ampiamente «tradito la sua missione di proteggere gli innocenti» trasformandosi in realtà in «Consiglio per i diritti dei terroristi». Una mezza frecciata, a dire il vero, in queste insensate parole è rivolta anche agli Stati Uniti che, già da tempo disapprovando le improvvide iniziative coloniali israeliane, avevano sospeso le forniture urgenti di missili per Tel Aviv durante l’ultima guerra di Gaza, che forse solo per questo motivo il governo di Tel Aviv è stato costretto a sospendere.

Con Israele ormai dialogare, trattare in senso puramente diplomatico e politico, è tempo perso: la maggioranza dei Paesi del mondo l’ha compreso perfettamente e non da oggi, l’hanno compreso persino gli USA che però sono talmente intrallazzati con Israele da non riuscire mai a dare un impulso decisivo a Concrete misure di boicottaggio e di embargo che sarebbero più che sufficienti a mettere in ginocchio le classi dirigenti israeliane e a costringerle ad un profondo o radicale ripensamento della loro politica estera, in particolare per quanto riguarda il rapporto con il popolo palestinese.

Quel che proprio non si riesce a capire, anche al di là di comprensibili preoccupazioni internazionali di natura geopolitica,  è la persistente indisponibilità a riconoscere quel che già l’ONU ha sancito sul piano etico-giuridico, vale a dire la costituzione del popolo palestinese in Stato indipendente e sovrano. Fortunatamente, qualche giorno fa, la situazione ha cominciato a muoversi, perché la Svezia ha deciso di riconoscere concretamente, avviando le relative pratiche burocratiche, lo Stato palestinese. Nessuna intenzione da parte della Svezia, naturalmente, di sostenere le frange terroristiche palestinesi, posto che si possa nettamente distinguere tra terrorismo palestinese e legittima resistenza del popolo palestinese ad uno stato di sopruso e di vessazione che dura da troppo tempo, senza che sia mai possibile riscontrare sia pur lievi progressi nelle trattative, in realtà false ed ipocrite trattative, tra israeliani e palestinesi.Wallstrom-633x415

Sinora solo il Parlamento britannico, sia pure con una risoluzione non vincolante e quindi semplicemente indicativa dei propositi della Gran Bretagna, aveva riconosciuto lo Stato palestinese. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito il riconoscimento svedese della Palestina una decisione “deplorevole”, mentre un plauso del tutto scontato è arrivato invece dal portavoce del presidente palestinese Abu Mazen: «Diamo il benvenuto alla decisione della Svezia» – ha detto Nabil Abu Rudeina – «questa è per noi una decisione coraggiosa e storica», parole scontate ed interessate, ma non per questo destituite di veridicità e di legittimità morale e politica.

Sono proprio decisioni come queste che il governo israeliano teme maggiormente e che, in prospettiva, potrebbero realmente spingerlo a rivedere la sua politica internazionale in genere e mediorientale in modo particolare. Ma, sino a quando, gli Stati del mondo e d’Europa non faranno sentire a Israele in maniera tangibile e corposa la minaccia di un suo graduale e rovinoso isolamento politico-diplomatico, economico-finanziario, commerciale e culturale, in un sempre più ampio contesto mondiale, non sarà certo questa o quella decisione, questo o quello Stato, questa o quella sporadica iniziativa politica, a determinarne un pur auspicato ed auspicabile mutamento di visione politica.

E, tuttavia, il fatto che qualche Stato si assuma la responsabilità di cominciare a rompere realmente le uova nel paniere, sin troppo sporco di sangue omicida, della leadership governativa israeliana e sionista, dev’essere salutato in modo assolutamente favorevole e preso da esempio da imitare soprattutto da parte di Paesi civili occidentali che, per un sia pur comprensibile senso di colpa verso un popolo ferocemente perseguitato nella storia, hanno finito per troppo tempo per tollerare crimini intollerabili dello Stato israeliano e diversi da quelli compiuti dai nazisti in Europa tra il ’40-’45 solo sotto l’aspetto quantitativo e non certo sotto l’aspetto qualitativo.

Nel frattempo che fa lo Stato Vaticano, che per tanti motivi potrebbe e dovrebbe essere più coraggioso di tanti Stati puramente politici? In un suo articolo del 2003 intitolato “Geopolitica vaticana. Punto per punto, ciò che oppone Roma a Israele” e pubblicato nel suo stesso sito (www.chiesaespressoonline.it), Sandro Magister scriveva che «in Vaticano, gli orientamenti sulla questione Israele non sono compatti…Ma questa varietà di accenti non impedisce che la Santa Sede persegua una sua precisa politica, in rapporto ad Israele», politica che secondo alcuni studiosi cattolici consisterebbe in questo: «che tra Israele e i palestinesi il Vaticano non si collochi in posizione di imparzialità, come un arbitro che si limiti a far rispettare le regole, ma piuttosto cerchi di ricondurre ad equilibrio le parti in gioco, appoggiando il contendente più debole, i palestinesi, e contrastando il più forte, Israele».

Sono passati 11 anni, ma io non sono affatto convinto che il Vaticano appoggiasse allora e, ancor meno, che appoggi oggi i palestinesi rispetto all’immutata politica militarista ed imperialista di Israele, verso cui preferisce mantenere un atteggiamento più dialogico e diplomatico che non schiettamente evangelico. Papa Francesco, che pure non risparmia in astratto critiche sferzanti a questo o a quel potere mondano costituito, non ha proferito una sola chiara parola di condanna verso un governo israeliano, quello di Netanyhau, obiettivamente responsabile di aver provocato, nel corso della terza guerra di Gaza, più di duemila morti tra i civili palestinesi.il-tweet-del-papa

Questo, per me cattolica convinta che la Chiesa debba adottare solo entro determinati limiti la realpolitik di qualunque altro Stato laico, non è molto confortante, anche perché forse papa Francesco non ha ben presente la personalità non propriamente rassicurante del suo amico israeliano Perez!

Elena Persicò

Lascia un commento