Europa: uscirne è più vantaggioso che restarci

Non c’è niente da fare: si possono adottare tutte le ricette che si vuole ma sino a quando esisteranno l’Unione Europea, la BCE, la Troika, molti popoli saranno destinati non già a progredire ma ad un declino inesorabile, per il semplice fatto che quest’Europa fu 1349684248638_qsns_coverpensata e costruita non già in funzione degli specifici interessi nazionali di ogni Paese membro e di tutti i Paesi in egual misura ma in funzione di precise oligarchie finanziarie e di un certo numero di Stati europei che più di altri si trovavano e si trovano a ruotare intorno a quelle oligarchie.

Continuare a negare questo dato di fatto è ormai impossibile oltre che disonesto, come sta a dimostrare per l’ennesima volta la foga con cui la cancelliera Merkel si è scagliata ieri contro il governo francese che ha annunciato di non poter fare a meno per i prossimi due o tre anni di sfondare il tetto del 3%.

Se l’Europa fosse conveniente per tutti e non fosse percepita da alcuni come una fregatura, se proprio tutti i governi si impegnassero costantemente e con pari forza a difenderne norme e vincoli, contratti commerciali e patti monetari e fiscali, molto probabilmente molti suoi critici attuali, tra cui anche lo scrivente, sarebbero in errore, ma la realtà impone a tutti, in modo sempre più stringente, di vedere come alcuni, sempre gli stessi e sempre le economie più forti e rese tali dalla moneta unica e dalle regole europee, ci guadagnino e altri, oggi persino la Francia, ci perdano non in termini puramente contingenti ma decisamente strutturali.

Francamente, si capiscono sempre meno i motivi per i quali un Paese come l’Italia debba rimanere inchiodata ad impegni assunti dai suoi precedenti governi e ad impegni che tendono inequivocabilmente a procurarle anche in prospettiva molti No-Austerity-protestsvantaggi e ben pochi vantaggi, molte e anzi troppe perdite e ben pochi guadagni. D’altra parte, si è obbligati ad ottemperare a criteri e parametri europei sino ad un certo punto, sino a quando cioè un popolo non ne può più e i suoi governanti, volenti o nolenti, sono costretti a cambiare rotta.

Non è solo mistificatorio ma profondamente immorale sostenere che ormai quest’Europa è irreversibile e che il destino di tutti i popoli europei, costi quel che costi, sia quello di rimanere ingabbiati nel governo tecnocratico, burocratico, bancocratico e sostanzialmente élitario dell’Unione Europea, dal momento che la finalità primaria che quest’ultima in origine si era prefissa, vale a dire il progresso economico e il benessere sociale dei popoli aderenti e di ciascun popolo, è bene ribadire, nella stessa misura, non solo resta disattesa ma tende addirittura a convertirsi in una finalità opposta: quella di accentuare il divario tra Paesi più forti e Paesi più deboli, di creare disuguaglianze sempre più evidenti e socialmente conflittuali, di generare nel tempo debiti sovrani insostenibili e pericolosissimi rapporti di dipendenza finanziaria tra gli Stati.ar_image_2485_l (1)1236230_365031926960774_752230210_n

Ormai sono in troppi a parlare della dittatura dell’Unione Europea (in Italia Ida Magli fu un’antesignana di questa diagnosi, ma tanti altri ormai la condividono sia pure da punti di vista diversi, come per esempio ultimamente in ordine di tempo, e solo per fare dei nomi, Luciano Gallino o Enrico Grazzini) perché sia ancora possibile considerarla un’esagerazione o addirittura una bestemmia! Semmai, esiste il problema di non uscire unilateralmente dall’euro per non determinare sconvolgimenti monetari e commerciali che potrebbero danneggiare gravemente chi prendesse questa decisione, ma di uscirne nella concordia e nella comune accettazione dei Paesi membri. Altre alternative pare non ve ne siano, a meno che, di comune accordo, ma è un’ipotesi palesemente irrealistica, non si decida di rifondare completamente l’Unione.

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E’ pensabile che Renzi sia intimamente convinto che per rilanciare significativamente l’economia non bastino le riforme, come troppo spesso stoltamente si continua a ripetere, ma sia necessario che lo Stato si metta a creare nuova moneta, magari, come qualcuno suggerisce, in forma di Certificati di Credito Fiscale, senza passare per le banche e la BCE ma immettendo direttamente nel mercato e nell’economia denaro vero, reale liquidità che riattivi in modo significativo la domanda interna e quindi i consumi e quindi la produttività (anche se rimarrebbe pur sempre da studiare il modo migliore di essere competitivi nell’economia globalizzata) con inevitabili contraccolpi positivi sullo stesso piano dell’occupazione giovanile.

Ma il problema è che quest’Europa non è disposta ad accogliere neppure suggerimenti meno radicali come quelli proposti per esempio da Joseph Stiglitz e da molti altri economisti: la mutualizzazione almeno parziale dei debiti sovrani, la creazione di eurobond e di un fondo comune per i fallimenti bancari, l’istituzione di provvedimenti economici e finanziari seriamenti idonei a rilanciare gli investimenti e a creare posti di lavoro.

Insomma, c’è ancora spazio per proporre soluzioni e misure davvero efficaci e qui semplicemente in parte enunciate per uscire dalla crisi e liberarsi dall’incubo europeo. Il problema è politico, non economico, nel senso che se, quanto meno a forte maggioranza, si ritenesse assolutamente prioritaria anche in senso economico la necessità di mettere la finanza e il denaro al servizio dei bisogni reali e oggettivi delle comunità nazionali, senza più abnormemente sacrificare tali bisogni alla interessata e cinica contabilità dei potentati che dettano legge in Europa e nel mondo, non c’è motivo di credere che l’attuale scenario, fra qualche tempo, non possa cambiare anche radicalmente. Renzi lo sa: fra non più di sette o otto mesi saremo forse in grado di capire se sarà riuscito a pilotare l’Italia verso l’uscita del tunnel ovvero di una crisi che ha molti nomi tra cui uno che soverchia tutti gli altri: Europa. E reputo ragionevole augurarsi, nell’interesse stesso del nostro Paese, non già che egli fallisca ma che i suoi sforzi, se ci saranno, siano coronati da successo.   lavoro

In particolare saremo in grado di capire se sarà stato capace di comprendere che il futuro economico dell’Italia come di qualunque altro Paese è e resta connesso ad una tutela reale e non formale o apparente dei diritti del lavoro, perché come ricordava oggi papa Francesco, le cause strutturali delle diseguaglianze e di una povertà sempre più diffusa non si vincono con lo smantellamento dello Stato di diritto sociale e più specificamente del diritto al lavoro e ad una remunerazione differenziata ma adeguata o dignitosa per tutti: «questo» – ha detto il papa – «non può essere considerato una variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari. Esso è un bene fondamentale rispetto alla dignità, alla formazione di una famiglia, alla realizzazione del bene comune e della pace» (Per tutelare i diritti del lavoro, in “L’Osservatore Romano” del 2 ottobre 2014).

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