Cattolici: svegliamoci!

Un economista cattolico, non accademico ma generalmente più chiaro e preciso di altri economisti cattolici dotati di titolo universitario e costantemente ospitati sulle colonne di alcuni importanti giornali nazionali, alcuni mesi or sono gettava brillantemente luce sulle dinamiche che sono alla base di una crisi epocale che non accenna ancora a finire.

Alla fine di luglio scorso, descriveva questa situazione: «il 9 luglio scorso la maggiore agenzia di rating mondiale, Standard & Poor’s (S&P), la stessa agenzia che nel 2008 poco tempo prima del fallimento Lehman and Brothers, aveva emesso un giudizio positivo sulla banca d’affari americana (“ci si poteva mettere la mano sul fuoco”), ha declassato il rating dell’Italia a BBB (la stessa valutazione del Perù), con outlook negativo (prospettive negativo, ossia ci sono il 30% di possibilità che il rating venga ulteriormente abbassato nel corso del 2013-2014)…La motivazione esplicita di questa penalizzazione secondo S&P è dovuto alla mancanza di attuazione delle riforme strutturali da parte dei governi che si sono succeduti…Si tratta di un giudizio molto grave che pone i titoli di stato italiani appena due categorie di rating sopra la valutazione di titoli spazzatura…Questo ha delle pesanti conseguenze sia di breve che medio lungo periodo (nel caso si dovesse arrivare in futuro a tale valutazione), sul costo del debito pubblico che l’Italia deve e dovrà pagare. Imporrà ulteriori tagli devastanti che incideranno sulle carne viva delle famiglie e delle imprese» (C. Tabarro, Europa, finanza o democrazia? -prima parte- in “Zenit” del 28 luglio 2013).

D’altra parte, la valutazione negativa della tristemente nota agenzia americana di rating avrebbe ulteriormente scoraggiato il sistema bancario nel suo insieme a finanziare l’economia reale, al cui servizio la finanza dovrebbe di norma sempre porsi, contribuendo notevolmente ad alimentare la perversa spirale di recessione e povertà. La non attuazione delle riforme strutturali necessarie all’economia italiana, la sostanziale stagnazione del PIL, la difficoltà di raggiungere gli obiettivi di bilancio per il 2013 a causa di una recessione ancora in corso e della volontà del governo italiano di sospendere o eliminare una tassa importante come l’IMU e infine dell’aumento di un punto percentuale dell’IVA, la quale, abbassando probabilmente il consumo, non avrebbe potuto non compromettere l’auspicata ripresa, non avrebbero consentito di superare talune rigidità presenti nel mercato del lavoro e in quello dei prodotti, per cui non era sembrato difficile alla Standard & Poor’s prevedere un ulteriore allontanamento della soluzione della crisi.

Nel frattempo, però, l’agenzia americana insisteva sul fatto che la condizione necessaria di qualsivoglia processo di crescita, di sviluppo, di ripresa dell’occupazione e quant’altro, doveva rimanere pur sempre l’obbligo del governo italiano di tenere in ordine i conti pubblici con tutto quel che di vessatorio ciò sarebbe venuto ancora implicando per il popolo italiano e principalmente per le sue fasce sociali meno protette e meno abbienti. A questo punto, il nostro economista non poteva fare a meno di affermare: «le misure proposte da S&P per evitare ulteriori declassamenti, lasciano alquanto perplessi sia dal punto di vista della giustizia sociale, della solidarietà e della tenuta democratica, sia dal punto di vista tecnico. Quale giustizia sociale, quale solidarietà, quale democrazia può perseguire la finanza speculativa, rappresentato da poche persone (di cui S&P è uno dei massimi esponenti), che nessuno ha votato, quando emette le sue “valutazioni” interessate che incidono sulla carne viva e sui destini di miliardi di persone?» (ivi).

E non poteva non denunciare la cecità ideologica che stava in realtà alla base di una visione economica e sociale non solo pseudoscientifica perché costantemente priva di positivi riscontri empirici ma anche profondamente nichilistica e immorale perché completamente priva di interesse per l’umanità e la solidarietà, dove, se questa denuncia è vera, come è vera, né l’Europa né l’Italia potranno mai uscire da una crisi suscettibile invece di peggiorare in modo indefinito. A ben vedere, le riforme invocate da S&P non possono minimamente intendersi come da concepire nell’interesse dei lavoratori italiani e di un sano sviluppo della nostra compagine sociale ed istituzionale, ma esclusivamente nell’interesse di un capitale internazionale sempre più vorace che non avendo ormai molto da lucrare nelle tradizionali aree modiali del sottosviluppo ha deciso di doversi accanire sulle ultime riserve di ricchezza rimaste, ovvero sulle stesse società occidentali che fino a ieri potevano godere di un buon tenore di vita pur se anch’esse caratterizzate dalla presenza di non trascurabili sacche di povertà.

Questa è la verità pura e semplice e ha perfettamente ragione chi scrive incidentalmente, pur da veterocomunista, che «l’attuale recessione non è un episodio accidentale, ma una crisi strutturale causata dall’eccessivo sviluppo delle forze produttive, una crisi accelerata dalla saturazione dei mercati internazionali» (L. Garofalo, Avanguardia di “ciarlatani e pifferai magici” o consociazione di rivoluzionari?, in sito “Il Dialogo”, 8 settembre 2013), il che significa che questa crisi «si spiega in virtù dell’enorme divario tra la crescente produttività del lavoro e la declinante capacità di consumo dei lavoratori. In altri termini, gli operai producono troppo, a tal punto che non si riesce a vendere quanto essi producono. E’ questa la radice delle contraddizioni del capitalismo, che è riconducibile alla sua tendenza intrinseca (e cioè innata) alla sovrapproduzione di merci. In questo quadro complessivo l’azione dei governi (qualsiasi governo) asseconda gli interessi del capitalismo di finanza» (ivi).

Se non si capisce, adottando politiche appropriate, che è proprio questa tendenza strutturale il reale motore della crisi in atto, come è significativamente dimostrato dalla persistenza negli ultimi decenni delle politiche di liberalizzazione indiscriminata poste in essere dai vari governi nonostante si accresca la consapevolezza che esse favoriscono grandi potentati economici, banche e società finanziarie, a netto svantaggio dei lavoratori di ogni ordine e grado, non sarà mai possibile ottenere significative inversioni di tendenza volte a tutelare il lavoro in tutti i suoi aspetti ed articolazioni contro la volontà ormai non solo incontrollata ma ostentatamente dispotica del grande capitale finanziario internazionale.

Come si fa a non capire che, oggi più che mai, termini come impresa, mercato, produttività, profitto, rigore finanziario e amministrativo, sono sempre meno termini asettici o neutrali perché definiscono al contrario affari e poteri concreti, persone in carne e ossa apparentemente anonime ma terribilmente reali? Come si fa a non capire che la prima mossa di una onesta e sensata strategia politica deve essere quella di non esibire più univocamente questi interessi come beni comuni o come strumenti irrinunciabili del bene comune? Fino a che punto, al di fuori di eventuali o reali riferimenti ideologici non più accettabili, anche un cattolico integro può dissentire da chi sostiene che «la contraddizione centrale è tuttora quella che contrappone l’impresa capitalista al mondo del lavoro sociale. I lavoratori devono prendere coscienza che il vero problema risiede nel costo del capitale, nell’inasprimento delle condizioni di sfruttamento e nell’aumento degli straordinari, nella crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita degli operai» (ivi)?

Sono sempre più numerosi, dopo un lungo periodo di letargo intellettuale, gli economisti che non esitano più ad indicare con chiarezza lo stretto nesso che intercorre tra le politiche europee di austerità e il crollo del PIL con una decrescita economica che non accenna a fermarsi. Cosa si aspetta dunque a zittire per sempre l’agenzia americana di S&P che da una parte ci punisce abbassandoci il rating perché il PIL non cresce secondo le previsioni (le previsioni poi di chi?) e dall’altra chiede nuove misure di austerità per raggiungere gli obiettivi di bilancio? Fino a quando ancora la classe politica italiana ed europea sarà disposta, per obbedire a queste assurde direttive, a tollerare che i propri cittadini siano trattati come “bestiame umano”, come “scarti umani? Ma soprattutto: è possibile che non ci siano cattolici italiani capaci di impegnarsi politicamente, con tutti i loro limiti, per tentare in tutti i modi di restituire dignità morale e vera stabilità economica alla loro nazione?

E’ vero che il nostro attuale ministro dell’economia Saccomanni ha avuto parole molto dure sul declassamento dell’Italia sanzionato da S&P, affermando che «è aperto il dibattito nelle sedi ufficiali sul ruolo delle agenzie di rating nell’orientare le scelte e le aspettative dei mercati finanziari internazionali. Decisioni non adeguatamente sostenute da analisi condivise possono avere effetti pro-ciclici e destabilizzanti» (C. Tabarro, Europa, finanza o democrazia? -seconda parte- in “Zenit” 29 luglio 2013), ma poi egli dichiara di voler rispettare alla lettera gli impegni finanziari presi dall’Italia con l’Unione Europea e con la BCE, dimostrando cosí di non aver compreso come alla lunga proprio questi impegni siano obiettivamente insostenibili e contrari ad ogni reale e durevole possibilità di ripresa economica.

Tanto più questo è drammaticamente vero quanto più si rifletta sulla strafottenza con cui un’altra agenzia americana come Moody’s, proprio mentre viene scritto il presente articolo, dichiara che, benché l’attuale governo italiano sia sopravvissuto alla recente crisi politico-parlamentare provocata da Berlusconi, esso sia tuttavia cosí “fragile” da mettere in seria discussione l’attuazione delle riforme fiscali e strutturali gradite ai signori burocrati e tecnocrati di Bruxelles e necessarie alla ripresa economica del Paese che però non sarebbe affatto sicura. La previsione di Moody’s, quindi, non può essere altro che negativa ed è quella per cui dunque difficilmente l’Italia potrà centrare «l’obiettivo di portare il deficit di bilancio entro il limite del 3% del Pil nel 2013». Risponderà ancora una volta il ministro Saccomanni, e che cosa risponderà?

Sembra perfettamente inutile che persino un premio nobel per l’economia ed uomo espertissimo di finanza mondiale come Joseph Stiglitz si sia molto sbracciato per cercare di far capire ai signori che decidono del destino dei popoli vivendo isolati dalla realtà e resi ciechi e indifferenti dal proprio status di sicurezza e di privilegio, che «l’austerità è una condanna a morte per i più poveri» (Ridateci il sogno, in “L’Espresso” del 7 marzo 2013).

Allora, si diceva, possibile che non ci siano cattolici evangelici in grado di farsi carico non velleitariamente ma coerentemente della necessità di liberare l’Italia dalla tirannide finanziaria internazionale, dietro la quale non è affatto vero che ci siano solo altri risparmiatori i cui diritti devono pur essere garantiti in modo adeguato, essendo molto più vero che dietro e tra questi risparmiatori ipotetici o reali agiscono persone in carne ed ossa che sono emeriti  farabutti, delinquenti, criminali come narcotrafficanti e mafiosi di tutte le categorie, oppure individui che sono galantuomini d’aspetto ma che in realtà sono mascalzoni incalliti?

Che c’entrano le riforme con la mancanza di lavoro, di domanda, essendo stati ed essendo consumi e investimenti asfaltati drasticamente proprio dall’austerity di questi cervelloni dell’alta finanza, a cui in realtà interessa esclusivamente prelevare tutto il denaro che possono al maggior numero di persone possibile e che parlano di riforme solo per tentare di nascondere il totale vuoto etico ed economico dei loro strambalati e disonesti ragionamenti? In realtà, questi novelli padroni del mondo non vogliono né democrazia né uguaglianza ma vogliono solo ridisegnare profondamente il mondo a loro immagine e somiglianza ovvero alla luce di princípi iniqui, immorali e contrari ad ogni idea di umanità giusta e solidale.

Per questo è ora che ci si renda conto che l’enorme debito pubblico, che le attuali politiche di austerità non potranno certo arrestare ma solo incrementare, è la principale causa strutturale del declino italiano e sorprende dolorosamente che l’economista cattolico sopra citato oggi sostenga che i nostri guai si devono spiegare principalmente col fatto che nel corso dei decenni gran parte della spesa sociale non sia stata destinata solo alla creazione di necessarie strutture e infrastrutture ma sia stata finalizzata principalmente a garantire “consenso elettorale”, per cui «per pareggiare l’aumento del debito pubblico è stata aumentata la pressione fiscale, senza riuscire a pareggiare le perdite» (C. Tabarro, Debito pubblico. Una storia triste, in “Zenit” dell’1 ottobre 2013).

Certo, per via di astrazioni, specialmente se esse siano totalmente indeterminate e non circoscrivibili a fatti empirici rigorosamente riscontrabili ed accertabili (come nel caso specifico) al di là di dati numerici che notoriamente possono essere usati in tanti possibili modi, si può rendere conto, si può giustificare qualunque cosa. Ma, in realtà, chi per esempio è nato nel 1949 da dignitosa ma non agiata famiglia impiegatizia e monostipendiata, laureandosi poi con sacrificio in una università italiana lontana dal suo luogo d’origine e avendo poi la fortuna di esercitare per circa 40 anni il lavoro di professore liceale, e pur non potendosi lamentare di come gli siano andate le cose a livello personale, può testimoniare di aver sempre vissuto sino ad oggi in una società di sprechi ma anche di iniquità, di poche opportunità di lavoro e di grandi delitti contro il lavoro e contro i cittadini, di diffuso o eccessivo benessere per pochi anche a prescindere da meriti e capacità professionali e di benessere assai contenuto se non decisamente insufficiente per molti e soprattutto per non poche persone certamente bisognose e meritevoli di un migliore destino di vita. Anche lo Stato Sociale, che l’economista cattolico Tabarro dice essere stato sostenuto con il debito pubblico, a questo testimone del 1949 non è mai apparso particolarmente florido e capace di rispondere adeguatamente alle necessità e alle priorità oggettive del popolo italiano.

Ora, poiché questa testimonianza è veritiera, è da ritenere semplicemente ridicolo che il baratro in cui stiamo cadendo possa essere stato determinato semplicemente dalla cattiva amministrazione politica o dallo sperpero della pubblica ricchezza, che peraltro nessuno nega, e non soprattutto da cause molto più distruttive per la nostra economia. In primis, come sempre Tabarro ricorda, l’infausta divisione intervenuta nel 1981 in materia di debito pubblico tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, la quale diventando cosí autonoma dalla politica «non era più obbligata all’acquisto illimitato del debito pubblico» (ivi). Rileva quindi Tabarro che, a quel punto, «senza nessun filtro della Banca d’Italia, nei quindici anni successivi, il debito esplose indebitando il nostro futuro e quello dei nostri figli» (ivi). Egli forse non si rende conto della portata di questa affermazione: perché se il filtro della nostra Banca nazionale era cosí decisivo per la nostra economia, a quale genio della stirpe italica è stato consentito, e per quale motivo, e per favorire chi, di farlo saltare a vantaggio della Banca Centrale Europea che notoriamente non può e non potrà, né vuole e vorrà con o senza il ricchissimo banchiere Mario Draghi, neppure lontanamente, garantire gli interessi nazionali italiani come erano garantiti dalla Banca d’Italia?

Inoltre, ormai è pacifico che, almeno per il grande pubblico e più segnatamente per i ceti sociali medio-bassi, il cambio della lira in euro non ha certo rappresentato un buon affare per la nostra vita economica e sociale, anche perché viene ormai riconosciuto quasi unanimemente che il valore della moneta europea non è uguale in tutti i Paesi dell’Unione ma differisce da Paese a Paese in dipendenza della maggiore o minore forza economico-finanziaria complessiva di determinati Paesi europei rispetto ad altri.

Per contro, la rinuncia alla nostra sovranità monetaria ha forse comportato nel frattempo dei vantaggi? Quali? Proprio nessuno, per quanto riguarda almeno la maggior parte della nostra popolazione: non solo sul piano economico, ma neppure sul piano morale giuridico e civile, giacché, nonostante gli ideologi dell’Europa unita si riempiano la bocca di ideali altisonanti di progresso, di benessere e di civiltà, tali solenni proclami sono sonoramente smentiti dai fatti nudi e crudi: quale benessere e quale civiltà possono essere realmente perseguiti da un centro tecnocratico di potere che parla solo di soldi, di denaro da reperire o prelevare a tutti i costi mostrandosi totalmente indifferente al destino di milioni e milioni di uomini e donne sempre più costretti a trascurare persino le loro più essenziali e vitali necessità? Quale giustizia e quale uguaglianza possono mai garantire quelle commissioni parlamentari europee che vorrebbero persino abolire la differenza naturale tra il genere maschile e quello femminile con dei provvedimenti e delle norme giuridiche ad hoc e che sono impegnate ad irrogare pesanti multe tutte le volte che, solo per fare qualche esempio, i nostri contadini, i nostri agricoltori o i nostri pescatori violano gli assurdi paletti da esse imposte alla produzione di latte, alla raccolta e alla commercializzazione della frutta o del pescato? Non sono danni enormi per la nostra economia, per il benessere del nostro popolo e per le stesse capacità nazionali di competizione economica e commerciale internazionale? Quali valori di umanità e solidarietà tra i popoli possono essere veicolati da un apparato politico sovranazionale di potere che non si preoccupa minimamente o si preoccupa molto poco del fatto che nel mediterraneo si verifichino quasi settimanalmente immani stragi di immigrati?

Peraltro, forse pochi sanno che l’Europa ideologica e politica, che conta molti suoi adepti anche nelle élites della vita politica italiana (a cominciare da Giorgio Napolitano, Mario Monti, Enrico Letta), nel frattempo sta lavorando alacremente al progetto di costituzione di una polizia e di un esercito europei che, ove fosse attuato, garantirebbe allo Stato sovranazionale e mondialista in fieri e vagheggiato da tutti coloro che frequentano assiduamente i clubs economico-finanziari più esclusivi e riservati del mondo il massimo di potere repressivo e di controllo militare sulle complessive attività politico-legislative e sulla stessa volontà democratica di ogni singolo Stato dell’Unione.

Cosa facciamo concretamente anche noi cattolici che diciamo di non poter vivere senza Cristo e senza il suo vangelo per contrastare tutta questa barbarie? Ecco perché alla fine risultano incomprensibili le indicazioni del nostro economista cattolico Tabarro, pur cosí limpido in altri scritti, che, nell’indicare le strade da percorrere per risanare i conti pubblici e ridare speranza alle famiglie e ai giovani italiani, si accoda a tanti altri economisti di scuola bocconiana o luissiana e affini che individuano tali strade risolutive nella riforma della pubblica amministrazione, nella riforma fiscale, nella lotta ad oltranza all’evasione fiscale, nella vendita di beni patrimoniali dello Stato per abbattere il debito pubblico, nelle liberalizzazioni e in una vera riforma del mercato del lavoro, con un contenimento strutturale anche se oculato della spesa corrente, con specifiche politiche fiscali per il meridione d’Italia.

Ora, non è che nel corso dei decenni i governanti italiani, sia pure tra limiti e resistenze di varia natura, non abbiano in qualche misura operato per lo svecchiamento e la modernizzazione della macchina statale italiana intesa in tutti i suoi comparti e articolazioni: la razionalizzazione della pubblica amministrazione, il fisco e la lotta all’evasione fiscale, privatizzazioni e innovazioni nel mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica e politiche a favore del Meridione, sono sempre stati, almeno a partire dagli anni ’70, impegni programmatici ben presenti nelle diverse agende dei governi che si sono succeduti in Italia. Certo, si può eccepire che ogni volta si sia fatto sempre troppo poco o male. Ma non è che si possa pensare con assoluta certezza che le strade indicate da Tabarro e altri oggi sarebbero percorribili senza intoppi di sorta e secondo modalità operative e attuative assolutamente perfette. Anche oggi converrà procedere lungo determinate direttrici di riforma, a condizione però che non si smarrisca mai la realistica consapevolezza che gli stessi limiti incontrati dai precedenti governi potrebbero essere sperimentati, sia pure per motivi diversi e in presenza di contingenze storico-politico-economiche diverse, anche dai governi italiani del tempo presente, i quali seguono fedelmente quelli precedenti almeno su un punto: sulla direzione conservatrice di quasi tutti i loro disegni di riforma, quali che sia la loro apparente carica innovativa.

Si intende dire, in sostanza, che non esistono garanzie assolute circa il fatto che, nonostante tutti gli sforzi politici che si potrebbero compiere, queste strade potranno essere percorse in modo radicale, perché umanamente e quindi anche politicamente la perfezione non esiste, perché le possibili variabili storiche sono sempre tante; ma si intende dire principalmente che, anche se ipoteticamente tutto dovesse esser fatto in modo esemplare e tutto dovesse filare liscio, non è né vero né possibile che, come scrive ancora Tabarro, queste operazioni o manovre o riforme che dir si voglia sarebbero in grado di conferire all’Italia quella credibilità e stabilità politica che sono assolutamente necessarie per «aggredire quegli 80-90 miliardi di interessi passivi che i governi italiani, di qualunque colore politico, sono costretti a recuperare ogni anno sui mercati per finanziare il debito pubblico di oltre 2mila miliardi» (ivi).

Ecco: sostenere questo significa mistificare ancora una volta la realtà. Nell’ultimo lustro il popolo italiano, è bene insistere su questo punto, è stato sottoposto a tagli e a ristrettezze di ogni genere: tagli sulle pensioni e sull’età pensionabile, sulla sanità, sulla scuola e sulla ricerca tecnologica e scientifica, licenziamenti di massa in aziende e fabbriche di diversa entità finanziaria, aumento dei prezzi in diversi settori produttivi e commerciali e aumento vertiginoso delle tasse, impossibilità quasi totale per famiglie e imprese di ottenere prestiti e mutui dalle banche a condizioni tollerabili, disoccupazione galoppante. Bene, è forse migliorata la situazione o non sta ulteriormente peggiorando nonostante le ottimistiche e propagandistiche previsioni del governo Letta? Quella dell’Italia sembra una vera fatica di Sisifo: più grandi sono i sacrifici, più grande è la percezione collettiva di non riuscire a risalire la china del profondo fossato in cui già siamo caduti.

Francamente non si capisce come il cattolico Tabarro, che critica aspramente le politiche monetarie e fiscali dell’Unione Europea, la sua insensibilità umana e morale, possa poi giustificarne il principale postulato: che il debito sovrano, al pari di tutti i trattati su cui è stata costruita questa Europa, non sia soggetto, per nessun motivo e in alcun caso, a revisioni o a ridefinizioni di sorta. Che è come dire: gli uomini possono anche crepare, ma le oligarchie finanziarie che governano invisibilmente il mondo non potranno mai smettere di accumulare denaro. E’ invece proprio la lotta al principio mistificante di debito sovrano il principale compito della politica italiana. O se ne ridefiniscono termini e condizioni, o è molto meglio ritornare alla vecchia lira, con una manovra ben preparata per tempo su posizioni “di sinistra” e non “di destra” ovvero tale da non incidere troppo negativamente sui ceti economici e sociali più deboli, e alla nostra vecchia Banca d’Italia che ricomincerebbe finalmente a battere moneta. Non è affatto detto che questa prospettiva riservi a noi italiani maggiori sofferenze di quelle che stiamo già adesso sperimentando.

Possono i cattolici italiani ritenere l’attuale stato di cose compatibile con la loro fede o non dovranno piuttosto sbrigarsi ad abbattere il nuovo Vitello d’Oro che un numero imprecisato di persone invasate ed abitate dallo spirito del male stanno ancora una volta fraudolentemente erigendo contro il genere umano e contro Dio?

La crisi attuale tra critica e fede

L’economista ungherese Karl Polanyi contestava fortemente che la “società di mercato”, una società cioè contrassegnata dalla presenza di un’alta finanza e in cui tutto è mercato per cui non c’è nulla (natura, lavoro, denaro, cultura) che non sia oggetto di scambio e non sia ridotto a merce secondo regole molto fluttuanti e mutevoli, fosse un “prodotto naturale”. Essa, in realtà, era piuttosto da considerare come un’anomalia  intervenuta nel processo storico di sviluppo dell’umanità, dal momento che storicamente l’economia, solo in questi ultimi decenni a cavallo tra XX e XXI secolo, sarebbe venuta sempre più arbitrariamente riducendosi alla sua forma mercantile e affermandosi come realtà dotata di leggi indipendenti dal complessivo funzionamento e dalle specifiche problematiche della società umana, rispetto alla quale invece l’economia non può e non deve isolarsi potendosi giustificare la sua stessa esistenza solo in funzione della società e dei suoi bisogni oggettivi e di conseguenza solo se sia in essa integrata o radicata (embedded e non embeddedness).

Come sempre accade quando la realtà avanza per vie completamente diverse da quelle pronosticate dagli esperti, anche oggi, in presenza di una crisi economica che non accenna a regredire se non in misura del tutto irrilevante, nei confronti dell’establishment scientifico-economico mondiale cominciano ad essere mossi dubbi, critiche, riserve sulla scia dei severi rilievi espressi da alcuni nuovi economisti o economisti per cosí dire “alternativi” (tra cui Jean Paul Fitoussi, Paul Krugman,  Prem Shankar Jha o lo stesso fondatore della Nuova Sociologia Economica come Mark Granovetter), che, da sempre sensibili alla scienza economica polanyiana, concordano nel riconoscere che in epoche e società del passato la dimensione mercantile costituiva solo una componente, e spesso molto marginale, dell’attività economica, mentre oggi, a causa di processi storici del tutto irrazionali, essa è assurta ad un ruolo cosí dominante da rendere completamente subordinato a sé e alle esigenze dei mercati finanziari l’insieme delle attività sociali, benché non siano poche le forme di scambio “non economico” presenti nella società contemporanea tra cui figurano per esempio il volontariato, associazioni di beneficenza, le economie informali e specifici interventi dello Stato (Welfare State) volti a sostenere essenziali attività e realtà economiche di grande importanza sociale.

Per Polanyi, come per gli economisti che oggi a lui sembrano richiamarsi insistentemente, è assolutamente necessario ripensare l’economia e adottare paradigmi economici meno restrittivi e ben più funzionali alle cose reali della vita, a bisogni individuali e collettivi semplicemente necessari e vitali del mondo in cui viviamo: magari anche, come propone Polanyi, in direzione di un socialismo liberale in cui sia possibile rimodulare e rinnovare il rapporto tra produzione e consumo per mezzo di cooperative autonome capaci di organizzare il mercato senza intermediazioni. Altrimenti, volendosi ostinare a negare l’evidenza dei fatti e volendo perseverare nell’errore, scrive l’economista ungherese nei suoi inediti oggi raccolti nel volume “Per un nuovo Occidente” e curati da Giorgio Resta e Mariavittoria Catanzariti (Il Saggiatore, Milano 2013), «l’intero meccanismo è destinato ad incepparsi, ponendo l’umanità di fronte all’immediato pericolo della disoccupazione di massa, dell’interruzione della produzione, della perdita dei redditi e, conseguentemente, dell’anarchia sociale e del caos», che è esattamente la situazione verso cui stiamo precipitando a grande velocità.

Oggi, non molto dissimile per alcuni aspetti è la diagnosi di un filosofo marxista come Alain Badiou, il quale, pur richiamandosi non a Polanyi (che non era stato né liberista né marxista) ma al comunista Marx, osserva che, come aveva previsto quest’ultimo, ormai il capitalismo è sul punto di dispiegare integralmente tutte le sue (residue) virtualità irrazionali e catastrofiche, descrivendo il mondo attuale con estrema lucidità e precisione: «Il capitalismo affida il destino dei popoli agli appetiti finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo senso, è un regime di banditi. Come si può accettare che la legge del mondo si regga sugli spietati interessi di una cricca di eredi e di parvenus? Non possiamo forse a ragione chiamare “banditi” uomini il cui unico principio è il profitto? E che, solo per assecondare tale principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di persone? In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone dipenda dai calcoli di questi banditi è cosí palese e cosí lampante, che accettare questa “realtà”, come dicono i loro scribacchini, è qualcosa che sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante» [A. Badiou, Il capitalismo oggi (risposta a Tony Negri), in “Micromega” del 27 agosto 2013].

Polanyi, contro il mito di un mercato autoregolamentato, propendeva per un’economia regolamentata e guidata dall’alto, pur senza aderire agli esiti totalitari dell’esperienza russa. Da questo punto di vista non si può dire che Badiou sia molto distante da lui, anche se naturalmente sulla forma di Stato che dovrebbe provvedere a questa regolamentazione dall’alto le due posizioni cominciano ad essere probabilmente confliggenti. Ma è molto verosimile che anche per Polanyi, vissuto in un contesto economico pur sempre diverso dal nostro, sarebbe stato semplicemente spaventoso pensare che il “mercato” sia rappresentato da loschi figuri senza scrupoli, da avidi speculatori e cinici parassiti del mondo della proprietà e del patrimonio finanziario, e che intere popolazioni debbano attenersi senza poter battere ciglio alle loro immonde e reiterate pretese. E quali sono gli ordini diramati con ossessiva monotonia da questa cricca di criminali lasciati inspiegabilmente liberi di operare, quali sono gli ordini che milioni di persone dovranno eseguire per condannarsi alla propria rovina? Eccoli, scrive ancora Badiou:  «Privatizzate tutto. Eliminate ogni sostegno ai deboli, alle persone sole, ai malati, ai disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non alle banche. Non curate più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i salari dei poveri, ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino fino a novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto agli ideologi di servizio» (ivi). Sembra solo un brutto incubo ma purtroppo questa è già realtà.

Marx, nota Badiou, fu lungimirante in molte cose. Per esempio, egli definiva “procuratori del capitalismo” i governi reazionari europei tra il 1840 e il 1850 volti a privilegiare indecorosamente la ricchezza e a penalizzare altrettanto spudoratamente il lavoro, e questo ci consente di capire che, oggi come ieri, governanti e banditi della finanza fanno parte generalmente dello stesso mondo. Infatti, che differenza c’è anche oggi tra governi di destra (vedi Sarkozy o Merkel) e governi di sinistra (vedi Obama, Zapatero, Papandreu)? Tutti questi governi e governanti non sono forse anch’essi “procuratori del capitalismo”? Dall’800 ad oggi c’è stato tanto progresso, è vero; ma oggi non stiamo forse ritornando indietro, quasi che il presente e il futuro dell’umanità dovessero essere risucchiati dal passato e che tutti i processi storici pure reali di emancipazione umana dovessero essere miseramente vanificati?

Che cosa bisogna fare dunque per non sprofondare nella barbarie, per non perdere ogni speranza di poter ritornare a vivere? Sono ancora condivisibili le indicazioni di Badiou: «Non saranno di certo il capitalismo o la schiera dei suoi servi politici a risvegliare la Storia, se con “risvegliare” intendiamo l’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice, con lo scopo di uscire una volta per tutte dall’ordine stabilito… Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo nel carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza di un’Idea» (ivi).

Tace però il filosofo francese (almeno in questo articolo), come aveva taciuto lo stesso pur “profetico” Polanyi, sulle modalità in cui “la potenza di un’Idea”, di un’idea radicalmente nuova, dovrà venire radicandosi nell’iniziativa popolare (come dice Badiou) o in una nuova generazione di economisti orientati a ripensare altrettanto radicalmente la scienza economica non a prescindere dai bisogni vitali degli uomini ma esclusivamente a partire da essi e in funzione di un destino collettivo di vita e non di disperazione e morte (come probabilmente avrebbe desiderato Polanyi).

Noi cristiani sappiamo tuttavia che quelle “modalità” non potranno essere né violente, né semplicemente calate dall’alto dall’ennesima aristocrazia di dotti e saggi. Noi cristiani sappiamo che quelle “modalità” potranno e dovranno essere il frutto di un modo nuovo (non solo e non tanto di un nuovo modo ma di un modo nuovo ovvero inedito), e svincolato da meschini interessi particolaristici, di coinvolgere le masse popolari in un processo di partecipazione etico-politica favorito o sollecitato da un’opera totalmente limpida e onesta di evangelizzazione della vita politica e delle dinamiche economiche e finanziarie, in modo che “pane e dignità per tutti, a tutti i livelli” possa diventare finalmente lo slogan di una stagione storica in cui governare un popolo torni a significare governare realmente per il popolo, in funzione dei suoi reali interessi e nel nome di una condivisione sociale di risorse materiali e spirituali quanto più estesa e profonda possibile. Il che significa che, per noi, la potenza di quell’Idea che dovrà radicarsi nell’iniziativa popolare di domani non potrà non corrispondere alla potenza dell’idea cristiana di un bene comune perseguibile soltanto attraverso un’opera di servizio e non di comando o di dominio finalizzata a contrastare i “poteri forti” di qualsivoglia natura e a creare le condizioni per una società più libera, più eguale e più giusta nel segno della croce redentiva di Cristo.

Come ha giustamente osservato il teologo cattolico della liberazione Frei Betto, sono moltissimi i giovani che oggi non vogliono né dittatura, né disoccupazione, né limitazione dei diritti sociali, né aumento del costo della vita, né inquinamento e alterazione dell’ecosistema e dei processi naturali. Solo che non sanno a chi rivolgersi, non sanno che fare, dal momento che, per la corruzione dilagante nei partiti politici e per il potere di cooptazione che in esso esercita il capitale, sino al punto che la stessa sinistra risulta ormai invisibile in Europa, essi non trovano nei partiti canali capaci di rappresentare onestamente i veri interessi popolari e di creare alternative credibili al potere forte dei gruppi finanziari internazionali (F. Betto, Protesto! Ma che cosa propongo?, in “Koinonia” agosto 2013).

L’analisi di Betto è estremamente chiara almeno dal punto di vista descrittivo-diagnostico: «Come già aveva previsto Robert Michels nel 1911, i partiti progressisti facilmente si lasciano addomesticare dalle cortesie borghesi quando arrivano al governo. Cambiano il progetto dei paesi con il progetto del potere; si allontanano dai movimenti sociali e si avvicinano a quelli dei loro antichi avversari; tralasciano di mettere in discussione il capitalismo per proporre  soluzioni cosmetiche di miglioramento della vita dei  più poveri…..Il capitalismo in crisi cerca in tutti i modi possibili di moltiplicare le sette vite del gatto neoliberale. Disattende le raccomandazioni dell’ONU riguardo alla crisi finanziaria (come quella di chiudere i paradisi fiscali) e rifiuta di regolamentare il capitalismo speculativo. Nel suo sforzo di perpetuarsi, il sistema dell’idolatria del capitale propone rattoppi nuovi con toppe vecchie: propone un capitalismo verde;  combatte la povertà con programmi sociali compensativi (e non emancipativi); baratta le libertà individuali con la sicurezza; disprezza i movimenti sociali, criminalizza il malcontento popolare…Il sistema si rivela più distruttivo che creativo. Perfino i partiti progressisti, prima considerati di sinistra, non hanno più proposte alternative e quando arrivano al potere si limitano ad essere meri gestori della crisi economica» (ivi). Betto pensa per esempio al Brasile di Dilma Rousseff, incapace di attuare le riforme promesse al popolo prima di arrivare al potere, ma come negare che la sua critica calzi a pennello agli stessi uomini politici della sinistra europea ed italiana?

E conclude amaramente il teologo brasiliano: «Non basta denunciare i difetti e gli abusi del sistema, come è solita fare la Chiesa Cattolica. È necessario indicare le cause e le alternative. Altrimenti l’insoddisfazione dei giovani si trasforma in rivolta, e questa a sua volta in nido che accoglie l’uovo del serpente: il nazifascismo» (ivi). Certo, non basta denunciare i difetti e gli abusi del sistema, anche perché senza quei difetti e quegli abusi in realtà il sistema, che è sempre stato costruito storicamente sulla base dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non potrebbe sopravvivere. Solo una nuova generazione di cristiani assistiti dallo Spirito Santo, ormai, potrà indicare “cause e alternative”, anzi una sola alternativa: quella di un mondo sociale costruito su pratiche coerenti ed efficaci di condivisione e socializzazione, in cui la proprietà privata di qualunque bene materiale non abbia più un valore assoluto ma un valore relativo e funzionale ad una liberazione finalmente e non retoricamente integrale di uomini e donne.

Per una critica evangelica della ricchezza

img9Questo scritto non avrebbe visto mai la luce se non avesse potuto avvalersi dei preziosi apporti esegetico-teologici di don Mario Cascone (in particolare quelli contenuti in un suo scritto del 1974 letto ad Assisi ed intitolato L’uso del denaro e della ricchezza nella vita del cristiano).

Oggi anche tra i cristiani abbondano persone molto facoltose economicamente che, pur non esitando a definire semplici mezzi ma non certo fini della vita il denaro e la stessa ricchezza, in realtà conducono la loro esistenza all’insegna di una continua accumulazione di beni materiali che, se anche talvolta in piccola parte destinati ad opere di carità o di beneficenza, tendono ad incrementarsi senza sosta e in modo illimitato. Questi ricchi cristiani, in un periodo di crisi strutturale come quello che stiamo vivendo, mostrano generalmente di preoccuparsi per la società di cui fanno parte, per i lavoratori sempre più frequentemente espulsi dai processi lavorativi, per i moltissimi giovani cui è impossibile accedervi, per i livelli decrescenti di benessere del popolo nel suo insieme, e auspicano un rigore finanziario, uno sviluppo economico e una rinnovata crescita sociale senza cui ritengono praticamente inimmaginabile una adeguata soluzione della crisi stessa; ma tra essi è davvero difficile trovare chi si preoccupi di andare almeno parzialmente incontro alle necessità materiali e immateriali di tanta gente ormai sul lastrico o priva di mezzi di sussistenza, spesso anche indebitata o afflitta da gravi ed urgenti problematiche familiari, mettendo in qualche misura a repentaglio i propri consueti e pur ingenti profitti e manifestando concretamente il proprio spirito di carità o solidarietà nei confronti di tante persone bisognose e spesso disperate.

Come dire: quando c’è una crisi di questa portata, sembra che anche i ricchi non possano che piangere e meditare sui modi in cui sia possibile proteggere il patrimonio sin lí accumulato. Ma, in realtà, la loro ricchezza, accumulata in tempi economici ordinari senza soluzione di continuità e senza alcuna preoccupazione per i salari bassi o molto contenuti che nel frattempo venivano concessi ad operai o a dipendenti pubblici e privati, è, evangelicamente parlando, una ricchezza disonesta: non nel senso che ci sia anche una ricchezza onesta perché Gesù non definisce mai onesta la ricchezza, ma nel senso che la ricchezza in se stessa, la ricchezza cioè che non viene condivisa comunitariamente e socialmente, non viene messa a disposizione dei non abbienti e dei più poveri, è sempre e comunque “disonesta” anche se è facile illudersi di potersi mettere la coscienza a posto con qualche lauta donazione o con qualche lascito cospicuo.

Gesù, certamente, non condanna ma benedice la ricchezza se di questo suo importante dono si fa l’uso e lo scopo cui è destinata ovvero la partecipazione di tutti ai beni materiali e spirituali che essa consente di produrre e di ottenere, mentre è del tutto evidente la sua avversione spirituale a tutte quelle forme di ricchezza personali o pubbliche che in realtà non siano fatte fruttare nell’interesse di tutti e in funzione della dignità personale di ognuno. E’ un concetto evangelicamente chiarissimo anche se ancora non molto familiare nell’ambito della mentalità cattolica e talvolta persino delle più alte sfere ecclesiastiche della Chiesa di Cristo. Duole doverlo dire, ma questa è la pura e semplice realtà.

Le crisi strutturali prima o poi esplodono nella storia non perché non ci siano più risorse da utilizzare ma semplicemente perché le risorse, più o meno ingenti e più o meno disponibili obiettivamente nelle singole società nazionali e oggi nella società globalizzata internazionale, vengono amministrate e distribuite in maniera sempre più arbitraria e iniqua sino a dar luogo a vere e proprie forme statuali di prevaricazione fiscale e tributaria e di usura legalizzata a loro volta indotte da potentissimi e spregiudicati gruppi finanziari internazionali, nei quali si può trovare di tutto e persino individui affiliati a cosche criminali di varia natura, che vengono lasciati indisturbati nel dettare legge sui mercati, sulle banche, sugli Stati e sui popoli. E la verità è che sono sempre di più quelli che sarebbero contenti di poter disporre almeno “del pane quotidiano” necessario, mentre sono sempre di meno quelli che, cristiani o non cristiani, vivono in condizioni di agiatezza ostentata o in ogni caso opulenta oppure addirittura di lusso sfrenato.

E se, da una parte, la Chiesa ripete con una certa frequenza che il cristianesimo è vita di comunione e non di competizione, di solidarietà e non di egoistico arrivismo, dall’altra la realtà continua ad essere segnata da un macroscopico sbilanciamento della gestione delle ricchezze sia a livello planetario sia a livello territoriale e locale, ed è proprio da questo sbilanciamento sempre suscettibile di aggravarsi ulteriormente che derivano in definitiva tutti gli effetti che abbiamo sotto gli occhi: dalla disoccupazione galoppante alle “nuove povertà”, alle immigrazioni di massa e alle nuove forme di schiavitù di cui il fenomeno sempre più esteso e visibile della prostituzione è certo un segno eclatante, a conflitti di vario genere che potrebbero prima o poi compromettere la sopravvivenza stessa dell’umanità.

Il sistema dell’economia mondiale è manifestamente iniquo e oppressivo e, anche secondo la migliore dottrina politica della Chiesa, i popoli sono o dovrebbero essere ormai legittimati a reagire contro questa forma di manifesta tirannide, se non con la violenza, quanto meno con tutti i mezzi pacifici di resistenza che sono a loro disposizione. Ma ad esser chiamati innanzitutto a vivere in modi più misurati o sobri e ad esercitare responsabilmente e democraticamente il proprio potere di scelta economica, anche al di là delle opzioni economiche spesso inadeguate o risibili dei diversi gruppi politici esistenti, sono i cristiani e i cattolici in quanto singoli e in quanto comunità, anche se si può presumere che ben pochi di essi si pongano almeno la seguente fondamentale domanda: cosa significa per me vivere da cristiano in questa società dell’opulenza e del benessere che sta precipitando rapidamente verso una povertà di massa e verso un malessere generalizzato? Come devo comportarmi concretamente, in base a quel che possiedo e tenendo conto delle mie reali e vitali necessità, per non allontanarmi dal principio evangelico di comunione e condivisione?

Già nell’Antico Testamento, in cui Dio è presentato come unico e vero padrone della terra e di quanto essa contiene (“Del Signore è la terra e quanto contiene”, recita emblematicamente il salmo 24, 1), il desiderio di possedere e di arricchirsi in modo stabile e illimitato è considerato come un disconoscimento della sovranità di Dio che mette a disposizione di tutte le sue creature i beni della terra. Il desiderio smodato di arricchimento è sancito anche nel settimo e soprattutto nel decimo e ultimo comandamento: “non rubare” e “non desiderare la roba d’altri”, il cui significato in verità viene spesso equivocato o univocamente interpretato nello stesso ambito della dottrina o della teologia cattolica. Infatti, questi due comandamenti non implicano soltanto il divieto corrente e più accreditato di non togliere e anzi di non desiderare di togliere al ricco o a chi sia proprietario di determinati beni la proprietà o parte di essa ma anche e innanzitutto il divieto universale di non volersi arricchire a spese degli altri e soprattutto dei più poveri (orfani, vedove, stranieri, per esempio, secondo quanto si desume da Dt 24, 17 ed Es 22, 20-22), sottraendo loro, non importa se in modo violento o avvalendosi di leggi arbitrarie e ingiuste, quella ricchezza e quelle risorse naturali di cui anch’essi sono destinatari per volontà di Dio.

La Chiesa cattolica, nel corso della sua storia, ha insistito molto più sul primo che non sul secondo di questi due divieti biblici, ma sarebbe il caso che ormai essa ristabilisse pienamente la verità esegetica e chiarisse in modo inequivoco e definitivo che i comandamenti citati vengono implicando in realtà ambedue i divieti, dal momento che, indipendentemente dal fatto che storicamente il popolo ebraico abbia faticato non poco a rispettare in particolare questi due comandamenti, nella religiosità ebraica la difesa e l’accoglienza dei poveri non erano viste in termini di semplice azione sociale ma come riproduzione del modo di agire di Dio stesso nei confronti del suo popolo. Non esistono biblicamente questioni economiche e finanziarie, questioni di bilancio e via dicendo che possano impedire a tutto il popolo e alla struttura statuale in cui è organizzato di provvedere prioritariamente alle necessità dei più poveri, dei più deboli, dei senza potere, dei semplici, di tutti coloro che sono oppressi dal potere dei ricchi e che costituiscono in sostanza “il popolo del Signore”.

Dal punto di vista biblico, l’economia non può essere risanata a spese dei non abbienti perché il soddisfacimento dei bisogni di quest’ultimi è principio fondante e imprescindibile della stessa prassi economica. Si pensi alla vibrante denuncia sociale del profeta Amos che condanna senza mezzi termini il latifondismo creato dal tremendo peso fiscale esercitato su piccoli contadini e commercianti (2, 6-7) e il comportamento gaudente e immorale delle matrone di Samaria, chiamate “vacche di Basan” (4, 1) perché dedite ad una vita di piaceri e di lusso resa possibile dallo sfruttamento e dall’oppressione cui erano sottoposti i più diseredati: Amos mostra bene il nesso intercorrente tra questi peccati di ingiustizia sociale e il culto idolatrico a divinità straniere ovvero ad idoli. Ogni epoca ha i suoi idoli: se al posto delle divinità straniere si mettono i dollari e gli euri è praticamente inevitabile che si perdano di vista i poveri e il senso della giustizia non solo sociale ma della giustizia tout court.

Si pensi anche al colto e raffinato profeta Isaia, che inveisce contro i grandi proprietari di case e di campi perché non esitano ad intensificare i loro profitti ricorrendo ai mezzi più loschi e perversi a spese dei poveri e ad usare la disonesta ricchezza accumulata per corrompere i giudici e condurre una vita dissoluta (Is 5, 8-24). Costoro, peraltro, osservano tanto devotamente quanto ipocritamente le pratiche rituali del culto inducendo il profeta ad usare parole terribili: “Voi alzate le mani che sono sporche di sangue…” (1, 13-17).

Nella cultura religiosa biblica non c’è dunque economia possibile senza sapienza religiosa e il denaro non ha quella ossessiva centralità che oggi occupa nell’economia contemporanea. Quanto alla collocazione sociale di Gesù, egli faceva parte di quel ceto medio in cui rientravano piccoli commercianti e artigiani, per cui non era né ricco come i latifondisti, i grandi commercianti, gli alti funzionari laici e religiosi, né povero come gli schiavi, i braccianti e i salariati. Gesù tuttavia volle vivere deliberamente da povero e il suo giudizio sui beni economici viene dunque da un uomo libero dal bisogno economico: in lui convergono il pensiero profetico e il pensiero sapienziale dell’Antico Testamento. Per lui i beni materiali, per quanto obiettivamente effimeri e inidonei a mettere gli uomini in una condizione di assoluta e definitiva sicurezza esistenziale, possono assumere indubbiamente un posto centrale o predominante nelle loro preoccupazioni condizionandone la condotta di vita e la sensibilità spirituale. Se un uomo vive fondamentalmente in funzione del denaro e della ricchezza, è evidente che la sua umanità e la sua spiritualità risulteranno gravemente alterate rispetto a quell’aspettativa divina di pienezza spirituale o di piena esplicazione di sé cui ogni essere umano è chiamato e destinato ab aeterno.

Ecco allora le celebri e serissime minacce rivolte da Gesù a ricchi e benestanti (Lc 6, 24-26), cui faranno seguito, con pari intensità, le invettive di Giacomo contro i ricchi latifondisti (Gc 5, 1-6) e i giudizi sferzanti dell’apostolo Paolo sul valore effimero ed illusorio dei beni di questo mondo (1Cor 7, 30). Non è che Gesù condanni la ricchezza in se stessa, perché essa è dono di Dio da partecipare a tutti e da condividere con tutti, né egli esalta la povertà che non può certo essere considerata in sé un bene, ma condanna la ricchezza come idolatria se essa non è più usata come mezzo di sostentamento e di benessere personali e comunitari ad un tempo bensí come mezzo di puro e semplice arricchimento personale a qualunque costo  e quindi come fine a se stessa cui risulti subordinato ogni altro valore umano.

Qui non si tratta solo di rinunciare ai beni, perché anche gli stoici hanno questa esigenza, ma di rinunciare ai beni per amore, per utilizzarli in funzione non solo del benessere personale ma di un benessere più grande e più generale quale è il benessere di tutti e in particolare dei più svantaggiati. Qui non è la ricchezza in quanto tale, in quanto abbondante disponibilità di mezzi e di risorse, ad essere presa di mira, ma il modo di concepire e di usare la ricchezza stessa, ovvero la ricchezza come puro e continuo accumulo di denaro e come attività economica e finanziaria completamente indifferente al bene sociale, al bene pubblico o comune a cominciare dal bene dei soggetti e delle categorie più deboli.

Questo è un punto delicato del vangelo che bisogna impegnarsi a comprendere bene se si vuole evitare di svuotare di senso e di valore l’insegnamento di Gesù, che non si limita a dire: “non ha importanza che voi siate ricchi ma ha importanza che voi non vi rendiate schiavi della ricchezza”, perché con una formuletta cosí generica sarebbe sempre molto facile tacitare la propria coscienza di ricco sfondato e tuttavia capace di compiere tante opere caritatevoli senza perdere un centesimo del proprio capitale ma anzi continuando ad accrescerlo a dismisura. No, Gesù chiede a tutti indistintamente di essere realmente generosi e caritatevoli non privandosi del superfluo ma, ove la situazione lo richieda, persino di una parte del necessario, il che significa che da persone ricche come Zaccheo si aspetta ancora di più, vale a dire la capacità di privarsi in modo sostanzioso o rilevante dei propri beni per consentire a chi ha molto di meno di condurre una vita quanto meno dignitosa.

L’elogio evangelico della povertà non ha motivazioni estetiche o vagamente etiche, ma motivazioni spirituali e religiose strettamente connesse alla necessità pratica, e quindi economica sociale e politica, che nessuno sia lasciato troppo indietro rispetto ad altri. Tale elogio, specialmente in epoche di scarsità economica come quella attuale, è funzionale non già ad ideali pauperistici e antieconomici ma ad un progetto altamente economico e produttivo di consapevole e responsabile partecipazione umana e sociale quanto più possibile corale alla gestione e alla produzione dei beni materiali del mondo. L’umanità sarebbe certamente più ricca e più evoluta nel suo insieme se non solo alcuni ma tutti potessero essere messi nella condizione di cooperare, in modi naturalmente diversi, al potenziamento e allo sviluppo dei suoi beni, mentre un’umanità il cui sviluppo sia affidato a ristretti gruppi di potere, che dispongano a proprio piacimento di tutto e di tutti, può dirigersi solo verso la sua autodistruzione.

La Chiesa apostolica delle origini aveva capito perfettamente il senso delle parole di Gesù, perché, come recitano gli Atti degli apostoli, “Chi aveva proprietà e sostanze, le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 45); “Nessuno infatti tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno” (At 4, 34-35). Non mancarono certo i problemi, anche nella Chiesa apostolica, come dimostra l’episodio di Anania e Saffira (At 5, 1-11). Ma in generale ci fu la presa di coscienza che i beni terreni vanno dati e condivisi. Si chiede infatti S. Giovanni: “Se uno ha ricchezze in questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimorerà in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 16-17).

Le esperienze di comunione dei beni della prima Chiesa di Gerusalemme, ha scritto giustamente don Mario Cascone, «dimostrano chiaramente la contrarietà ad una concezione di proprietà privata, come è stata elaborata successivamente da alcune teorie economiche. Sono anche lontane da certe indicazioni della teologia morale classica, che insegnavano a dare ai poveri solo il superfluo. La Parola di Dio ci dice che l’obiettivo non è di avere i poveri per potere fare opere buone, ma di aiutarli a non essere più poveri. E per fare questo bisogna mettersi dalla parte dei poveri: come ha fatto il Signore, che si è fatto povero per noi per arricchirci mediante la sua povertà (cfr. 2 Cor 8, 9)». Riflessi precisi di tali indicazioni evangeliche ed apostoliche si colgono poi nei Padri della Chiesa. Nella Didaché si legge: “Non respingerai l’indigente e farai partecipe di ogni cosa il tuo fratello; e non dire che ci sono cose private: se avete in comune le cose immortali, quanto più logicamente non dovete avere in comune quelle mortali?”. Tertulliano scrive: “Da noi tutto è comune, tranne le mogli. Sono i pagani che, gelosi custodi della proprietà, iniziano la comunanza là dove i cristiani la terminano”. E Giovanni Crisostomo afferma: “Il tuo e il mio, questa fredda parola: qui scoppia il contrasto, qui sorgono le inimicizie. Dove invece codesta distinzione non esiste, non si vedono sorgere né conflitti né rivolte. Di modo che la comunanza è nostro retaggio, più che la proprietà”.

Piaccia o non piaccia, la fede cristiana originaria comportava una concezione e una pratica sociali fondate sulla comunione dei beni materiali e spirituali in modo tale che nessuno mai fosse troppo agiato e nessuno troppo povero. Ognuno era chiamato a dare liberamente secondo le sue capacità anche contributive e ad ognuno si cercava di dare secondo le sue reali necessità. A chi osserva che questa sarebbe nient’altro che una visione comunista della società e della storia, si deve replicare che non fu il cristianesimo a prendere l’idea di comunione o di messa in comune di tutte le risorse disponibili dal comunismo ateo di Marx ma fu semmai quest’ultimo ad ereditare tale idea dalla tradizione biblico-ebraica e dallo stesso cristianesimo.

Per questa ragione, quindi, non il cristianesimo comunitario avrebbe ereditato un certo marxismo ma piuttosto quest’ultimo avrebbe ereditato il primo pur attraverso una radicale opera di laicizzazione ateistica che l’avrebbe privato della sua ispirazione religiosa. Tuttavia, non c’è dubbio che tra cristianesimo e marxismo comunista resta una non superabile incompatibilità, non solo in ordine alla fede in un regno extrastorico che cristianamente verrà pienamente rivelandosi  o compiendosi alla fine dei tempi ma anche là dove il primo postula una comunione dei beni da affidare esclusivamente alla libera scelta di coloro che costituiscono la comunità mentre il secondo prevede una società di eguali sotto l’egida di un violento potere coercitivo.

La logica evangelica e patristica è dunque una logica di comunione e condivisione, non di privatizzazione e competizione. Uno può certo usare i beni di questo mondo, a condizione che non li consideri come di sua assoluta proprietà ma come suoi solo in senso relativo e convenzionale, a condizione cioè che sappia bene che ciò che possiede deve essere messo anche a disposizione degli altri in caso di bisogno e che dunque la o le sue proprietà non potranno mai avere un valore assoluto ma pur sempre relativo. Come diceva bene san Tommaso d’Aquino: quello che possediamo lo abbiamo certo per usufruirne noi stessi ma anche e in certi casi soprattutto per darlo e condividerlo e per darlo anche largamente, cioè generosamente o, per usare le stesse parole di Tommaso, “con facilità”.

Pertanto, non è che evangelicamente non ci sia un diritto alla proprietà privata, ma quel che è inaccettabile evangelicamente e tomisticamente è che questo diritto possa essere esercitato in chiave egoistica nella completa dimenticanza dell’intrinseca funzione sociale della stessa proprietà; ne deriva, sempre secondo Tommaso d’Aquino, che il diritto di proprietà privata, più che essere un diritto naturale primario, è piuttosto un diritto secondario e strettamente connesso al dovere primario di porsi al servizio del bene comune. Che nella stessa vita della Chiesa ci si sia talvolta allontanati non poco dallo spirito evangelico, è vero, ma ciò non toglie che esso, su ricchezza e povertà, su proprietà personale e comunione dei beni, su libertà individuale e condivisione comunitaria, non possa essere né frainteso né equivocato in alcun modo, ove si abbia la disponibilità ad ascoltare e ad intendere la Parola di Dio senza preconcetti di sorta o interessi precostituiti.

Ad entrare però in decisa rotta di collisione con queste elaborazioni teologiche del cristianesimo sarebbe stato il pensiero laico e liberale moderno, a partire da Locke secondo il quale la proprietà privata sarebbe un diritto naturale non secondario ma assoluto perché legato all’essere stesso dell’individuo che decide di vivere in società con altri individui solo per motivi utilitaristici e quindi per pura e semplice convenienza. Questa formulazione teorica prepara il terreno al capitalismo più spietato (ed è il caso di ricordare che non esiste un “capitalismo buono” e un “capitalismo cattivo” oppure un “capitalismo mite” e un “capitalismo selvaggio”, dal momento che le diverse tonalità del capitalismo moderno e contemporaneo sono funzionali esclusivamente all’immutabile logica capitalistica dello sfruttamento e del profitto a tutti i costi) nel quale determinate preoccupazioni morali pure presenti tendono a cedere ineluttabilmente il passo, fin quasi a scomparire del tutto, ad istanze prettamente economicistiche e finanziarie non già di estesi gruppi sociali ma di oligarchie di potere sempre più ristrette.

Dove però è utile precisare che, contrariamente a un luogo comune cui lo stesso don Mario Cascone sembra a torto indulgere, quella formulazione teorica di origine lockeana non può essere attribuita più o meno strumentalmente anche al padre della scienza economica moderna, ovvero ad Adam Smith, che, in quanto professore e studioso di filosofia morale, ebbe ben chiaro lo stretto legame intercorrente tra economia ed etica e il concetto per cui non tutto si esaurisce con il mercato e che molti beni, come per esempio la cultura, la giustizia, la scuola, l’assistenza sociale ai soggetti più deboli, non possono essere assoggettati alle leggi del mercato, cosí come d’altra parte fu consapevole del fatto che la ricchezza o il capitale è certamente di fondamentale importanza per avviare un sistema di produzione industriale ma che questo non potesse in nessun caso implicare una sottovalutazione o una penalizzazione del lavoro, essendovi o dovendovi essere anzi tra capitale e lavoro non già un rapporto conflittuale ma un rapporto di reciproca funzionalità e convenienza. D’onde prive di fondamento sono ancora oggi tutte quelle interpretazioni che, in un’epoca in cui il capitale finanziario pretende di esistere e di incrementarsi senza o contro il lavoro, tendono a presentare Adam Smith come il «padre del liberismo economico fondato sul cheering nichilism (radicale individualismo privo di senso, scopo e valore etico)» (C. Tabarro,   Contratti “zero hours”: distruzione della dignità umana nel lavoro, in “Zenit” dell’8 agosto 2013).

Ma, riprendendo la pur sommaria disamina storica, contro la “sacralità” liberale della proprietà privata si sarebbero schierati, sia pure con finalità profondamente diverse o opposte, l’ateo marxismo ottocentesco e postottocentesco e la Chiesa cattolica di fine ottocento e della prima metà del novecento. E’ significativo che, sia pure sotto l’influsso della travolgente avanzata del socialismo e del movimento operaio, papa Leone XIII nella sua enciclica “Rerum Novarum”, pur in un’ottica antitetica a quella marxiana, prenda a difendere vigorosamente gli interessi della classe operaia contro i soprusi del sistema capitalistico; che successivamente Pio XI con la “Quadragesimo anno”, pur difendendo il diritto di proprietà privata, introduca e accentui chiaramente nella dottrina sociale della Chiesa princípi di sussidiarietà e solidarietà finalizzati al perseguimento del bene comune; che infine con il Concilio Vaticano II venga sottolineata energicamente la funzione sociale della proprietà privata.

A chiusura dello stesso Concilio venne votata e promulgata il 7 dicembre 1965, dopo essere stata oggetto di intenso dibattito e occasione di serrato e libero confronto soprattutto nella terza sessione conciliare (28 ottobre-10 novembre 1964), la Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, di cui qui si riporta un brano particolarmente significativo:  «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che tutti gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo».

In questo modo il cerchio si chiudeva, nel senso che veniva pienamente ripristinato con queste parole, dopo alcuni secoli di parziale “dimenticanza” o “omissione”, il senso più originario e genuino della dottrina evangelica sull’uso dei beni economici anche se non ancora la stessa prassi della Chiesa delle origini. In effetti, non può non rilevarsi che le indicazioni del Vangelo, dei Padri della Chiesa e del Magistero pontificio ed ecclesiale, sarebbero risultate non funzionali ma antitetiche all’economia del mondo contemporaneo, la quale sottopone a dura prova sia l’esistenza personale del cristiano sia la sopravvivenza di buona parte dell’umanità. E’ infatti in esso sempre più difficile distinguere tra “guadagno”, “profitto” e “usura”, come anche tra “giusto interesse” e “giusto prezzo”: il cosiddetto libero mercato è sempre più impersonale, anonimo, arbitrario, irrazionale e anarchico, e i confini tra ciò che è lecito e ciò che è illecito sono diventati cosí sottili da risultare del tutto evanescenti.

Nell’impostazione dell’economia globalizzata è cambiato il significato del possesso del denaro rispetto al passato, in quanto ormai si studiano scientificamente i modi in cui la vita economica, alimentata dal desiderio di voler possedere sempre di più da parte di chi già molto possiede, possa creare un profitto sempre maggiore e libero da preoccupazioni morali di qualunque tipo. Oggi la domanda del sistema economico mondiale non è: di che cosa ha bisogno veramente e vitalmente il mercato fra sei mesi o un anno, ma: che cosa si deve fare perché il mercato chieda quello che per gli imprenditori conviene produrre e, ancora più radicalmente, che cosa si deve fare, nel caso in cui il mercato sia comunque poco dinamico e si instauri una crisi economica non già congiunturale ma strutturale come quella odierna, per soddisfare le permanenti esigenze di profitto dei vari livelli gerarchici del sistema economico-finanziario internazionale.

In tal modo la tendenza più caratteristica dell’economia mondiale sarà quella per cui la ricchezza verrà concentrandosi nelle mani di oligarchie finanziarie sempre più ristrette che, a loro volta, verranno concentrandosi in cartelli e holdings ancora più potenti e tendenti al monopolio dei prezzi. La conseguenza sarà la creazione di enormi masse di poveri, con tutte le implicazioni sociali e politiche che tutti oggi possono vedere. Don Mario Cascone, già nel lontano 1974, notava come i mali dell’economia contemporanea fossero ben sintetizzati sulla tomba di Gandhi su cui appaiono scritti i sette peccati sociali individuati da quest’ultimo: politica senza princípi, ricchezza senza lavoro, piacere senza coscienza, sapienza senza carattere, commercio senza moralità, scienza senza umanità, culto senza sacrificio. Se già nel 1974 questi erano i terribili mali dell’economia e della società occidentali, non c’è dubbio che essi oggi lo siano ancora di più.

Nei monasteri benedettini non esiste, per volontà esplicita del suo fondatore, alcuna forma di proprietà essendo ogni cosa comune a tutti e da tutti condivisa. Certo, non è possibile trasformare il mondo, e specialmente il complesso mondo globalizzato di oggi, in un immenso monastero benedettino, però oggi la proprietà privata sta assumendo forme veramente mostruose e direttamente o indirettamente sempre più nocive al pubblico interesse e al bene comune. I cristiani non possono mettersi la testa sotto la sabbia confidando semplicemente in un intervento speciale e risolutore dal Cielo, perché infinita è senza dubbio la misericordia celeste a condizione però che essa trovi una giusta cooperazione tra gli uomini e soprattutto la disponibilità a sacrificarsi realmente per gli altri da parte di coloro che fanno professione di fede in Cristo. I cristiani, oggi come ieri, non possono non ricordare che c’è una povertà subìta, il più delle volte creata dalle umane iniquità e che come tale va combattuta perché è fonte e condizione di infelicità universale, e che poi c’è anche una povertà scelta liberamente che rende beati, secondo la promessa di Cristo, e che costituisce il modo migliore di contrastare la prima forma di povertà. Essi devono dunque farsi il più possibile poveri, in tutti i sensi, per poter lottare contro le molteplici forme di povertà esistenti nel mondo.

E’ stato recentemente osservato che sulla scena politica contemporanea mancano uomini politici e uomini di Stato capaci di dare un impulso significativo di cambiamento alle dinamiche dell’economia nazionale ed internazionale attraverso politiche governative e/o intergovernative puntate a riorientare gli stessi processi economici e finanziari in funzione del benessere di tutti o almeno di molti piuttosto che ad assecondarne l’odierna funzionalità al benessere moralmente illegittimo ed economicamente e socialmente distruttivo di pochi individui o di pochi gruppi (C. Tabarro,Veramente l’Europa è fuori dal tunnel della recessione?, in “Zenit” del 19 agosto 2013). Non solo singole personalità, si direbbe, ma nuove forze politiche organizzate in grado di dare veramente uno scossone ad una situazione paludosa da cui si rischia di non uscire più vivi: questo, almeno nel panorama politico nazionale italiano, è ciò che soprattutto sembra mancare.

Una politica europea e una politica nazionale responsabili che cosa ormai dovrebbero mettere all’ordine del giorno se non la disoccupazione ipergaloppante, l’aumento visibile delle diseguaglianze economiche e sociali, il risanamento delle banche alla luce di criteri compatibili con le sacrosante esigenze dei risparmiatori, delle imprese e delle famiglie, la ritrattazione di trattati economici internazionali rivelatisi completamente sbagliati? Ma, in realtà, il messaggio politico che istituzione europee e governi nazionali continuano a veicolare e a propagandare è che, senza politiche di rigore, senza riforme di struttura (il cui cinico significato è ben noto ai non sprovveduti), senza il rispetto dei vari patti di stabilità, senza un qualche rilevante programma di sviluppo, il destino dei paesi più deboli dell’area euro sarà identico a quello che ha già travolto la Grecia e Cipro! Stando cosí le cose non c’è dubbio che la parola “solidarietà”, pur talvolta proferita dalle autorità politiche europee e dai governanti di singole nazioni, venga da tutti percepita come parola totalmente vuota di senso e di valore.

I cristiani, se vogliono esserlo non solo di nome ma soprattutto di fatto, non hanno alternative: devono scendere anche nell’arena politica per cominciare a restituire al denaro la sua giusta dimensione, sforzandosi di ridurne il ruolo arbitrariamente acquisito di pericoloso e tirannico padrone e di potenziarne invece quello (che dovrebbe correttamente esercitare) di utile e buon servitore. Essi sanno infatti che Mammona o la ricchezza non è iniqua solo se diventa “cibo dei poveri” e che in tutti gli altri casi essa è ingiustificata e palesemente contraria alla volontà di Dio.

Il loro impegno politico non potrà non tener conto di un preciso e non eludibile insegnamento evangelico: che se persino il povero è tenuto, ove o quando sia necessario, a solidarizzare concretamente con chi abbia bisogno d’aiuto, il ricco, la cui ricchezza non è mai onesta ma sempre ingiusta per il semplice fatto che chi accumula in un modo o nell’altro non può non sottrarre agli altri, deve quanto meno cercare di “farsi degli amici con le ingiuste ricchezze” (Lc 16, 9), e quindi con il denaro, con i capitali, con il benessere di cui dispone, come dice Gesù; dove evidentemente gli amici cui si fa qui riferimento sono poveri o persone che comunque versano in uno stato di difficoltà economica. Sono proprio questi gli amici che testimonieranno un giorno a favore di quei ricchi che, volendo entrare nel regno dei cieli, avranno saputo privarsi di una parte consistente dei loro beni per soccorrere i propri fratelli indigenti ed ottenere l’eterna salvezza.

I cristiani in politica dovranno essere soggetti capaci di invertire la visione politica delle cose oggi dominante: non continuando ad avallare politiche economiche e politiche tout court  volte a spogliare o a spolpare un’intera popolazione e persino i più poveri dal punto di vista fiscale, tributario e retributivo, per far fronte a “debiti pubblici” costituitisi sulla base di contratti e parametri del tutto unilaterali, arbitrari e alla fine indiscutibilmente usurai che andrebbero contrastati e cambiati oltre che dichiarati immorali e illegali, e predisposti a crescere a dismisura quali che siano i sacrifici economico-finanziari imposti dai governi alle masse, ma mettendo le poche o molte risorse economico-finanziarie dello Stato sempre e comunque innanzitutto al servizio di esigenze insopprimibili di lavoro, di assistenza pensionistica e sanitaria, di formazione scolastica e culturale, di vita almeno accettabile e dignitosa per tutti, e assumendosi al cospetto dei poteri politico-finanziari europei e internazionali la responsabilità di porre dei paletti invalicabili a richieste di tassazione o di riscossione finanziaria di qualsivoglia natura.

I cristiani dovranno fare politica senza illudersi di trovare facili consensi o alleanze disinteressate ma forti della speranza di poter fare comunque di Cristo “il cuore del mondo” e di rendere questo nostro mondo un po’ più simile a quel regno di Dio in cui tutti in un certo senso sono signori! Già, perché Gesù è il Signore e questa sua prerogativa egli la comunica e la estende ad ognuno di noi, ad ognuno di noi che è chiamato ad essere signore. Il regno di Dio è un regno di “signori”, ma non di ricchi. La differenza non è di poco conto, perché il ricco è colui che ha, il signore è colui che dà, e di conseguenza l’unica politica economica praticabile cristianamente su questa terra è o deve essere una politica economica sostenibile e pur sempre compatibile con l’istanza etica prioritaria di salvaguardare la dignità umana, una politica non dell’avido possesso personale, non del profitto ad ogni costo, non del capitale senza o contro il lavoro, non del risanamento finanziario senza equità, non dello sviluppo senza giustizia sociale, non del progresso civile contro la dignità morale degli uomini, ma una politica del risanamento e dello sviluppo per l’appunto sostenibili, della disponibilità a farsi concretamente e coerentemente carico delle vitali necessità del prossimo più sofferente e a correggere storture o anomalie del sistema economico con provvedimenti pur sempre avveduti e ragionevoli e ispirati a criteri di equa e solidale condivisione.

Se i cristiani si mobiliteranno sul piano politico lungo queste direttrici spirituali, nella preghiera e nell’onesto lavoro quotidiano, essi potranno cambiare ancora una volta con Cristo il mondo, anche se non dovessero fare in tempo a vedere il successo, per quanto parziale, della loro opera.

Manifesto di un nuovo partito cattolico

Quando la politica non ha più profeti, ovvero persone credenti e non credenti che si occupino del bene comune non a chiacchiere o con idee solo apparentemente significative ma con irreprensibili condotte di vita e precise, rigorose e impopolari prese di posizione, suscettibili di esplicarsi coerentemente sul piano legislativo, a favore degli ultimi di sempre come i disabili, i malati, i nullatenenti, e dei “nuovi poveri” come intere masse giovanili prive di lavoro, disoccupati e cassintegrati, titolari di pensioni medio-basse, sino al punto di non sottrarsi al pubblico oltraggio pur di rimanere persone integerrime e serie, il mondo, la società e ogni forma di vita civile sono destinate ad impoverirsi ineluttabilmente sia in senso economico sia in senso morale e spirituale.

Per i cattolici in particolare, dopo la fine della Democrazia Cristiana, non si è mai data, certo per loro diretta responsabilità, un’occasione di rinascita e di unità politica all’interno di un partito che, pur rappresentando voci ed esigenze diversificate o variegate, fosse capace di coniugare al suo interno l’istanza di ben rappresentare punti fermi della loro fede quali quelli relativi ai princípi dogmatici da cui essa non può prescindere e ai cosiddetti “valori non negoziabili” con un’istanza forte di giustizia economica e sociale anch’essa a pieno titolo appartenente all’insegnamento evangelico e alla migliore storia dell’impegno cattolico nel mondo. Dopo la fine della Democrazia Cristiana, c’è stato Berlusconi e il berlusconismo, c’è stato l’illusionista delle folle e la sua capacità di manipolarle a proprio piacimento nel nome di un benessere nazionale sempre promesso ed esaltato ma mai realmente voluto e perseguito e di una concezione strumentale e demagogica della libertà volta ad affermare il primato dell’individuo sulla collettività e sugli stessi ordinamenti democratici dello Stato.

Alla fine per Berlusconi la condanna giudiziaria, troppo tardiva secondo alcuni e ingiusta secondo molti, è arrivata, mentre la sua mentalità, la sua filosofia di vita, il suo cinico e opportunistico pragmatismo, ha nel frattempo contagiato e inquinato la coscienza di molti italiani, ivi compresi quei cattolici che nella DC avevano militato solo per tornaconto personale e che nel partito dell’imprenditore lombardo hanno trovato per tanti anni un’occasione ancora più ghiotta per accaparrare vantaggi, profitti e privilegi personali.

Un lucido e coraggioso intellettuale cattolico come Aldo Maria Valli ha evidenziato come, all’indomani della condanna inflitta al “guitto Berlusconi”, non si può fare a meno di porre una domanda concernente i cattolici e le gerarchie: «come è stato possibile che per tanti, troppi anni la Chiesa istituzionale e un largo numero di sedicenti cattolici abbiano appoggiato quest’uomo? Com’è stato possibile che tanti cattolici, a tutti i livelli, abbiano votato e chiesto di votare per lui, che gli abbiano concesso credito, che lo abbiano visto come l’uomo della provvidenza? Com’è stato possibile che una parte, una larga parte del mondo cattolico non abbia provato un moto di spontanea ripulsa verso il guitto impegnato a usare la politica e gli italiani per il proprio tornaconto?» (L’esame di coscienza che non ci sarà, in www.vinonuovo.it, 3 agosto 2013).

Difficilmente a tale domanda si potrà dare una risposta perché i cattolici italiani generalmente non sono abituati a fare esami di coscienza troppo rigorosi e dolorosi e perché rispondere a questa domanda equivarrebbe a riconoscere «il vuoto culturale di un soggetto, il cattolico medio italiano, che sia sotto la Dc sia, e a maggior ragione, sotto l’ombrello berlusconiano non è mai stato abituato a pensare con la propria testa, a usare lo spirito critico, a distinguere tra senso dello Stato e opportunismo, ma si è lasciato guidare da una categoria tanto generica quanto comoda, l’anticomunismo, accontentandosi di parole d’ordine vuote» (ivi). Inoltre, osserva impietosamente Valli, «fare questo esame di coscienza equivarrebbe a togliere il velo steso sopra una classe dirigente ecclesiale in gran parte modesta e tremebonda, incline a non disturbare il manovratore e anzi a ingraziarselo, per ottenere vantaggi immediati. Fare questo esame di coscienza equivarrebbe a mostrare come la religione, separata dalla fede, diventi facilmente alibi per giustificare il non giustificabile, per chiudere gli occhi davanti all’arroganza del potere, per trasformare la stessa appartenenza di fede in strumento di potere e di sottopotere. Procedere con questo esame di coscienza equivarrebbe alla fin fine a mostrare il tradimento del Vangelo operato da tanti, sia chierici sia laici cattolici, che il berlusconismo o l’hanno sposato in pieno o l’hanno tollerato in silenzio o hanno cercato di utilizzarlo».

E infine, senza dimenticare che massicce dosi di berlusconismo sono state iniettate nel frattempo anche in quasi tutti gli oppositori politici ufficiali di Berlusconi che ne hanno enormemente favorito la durata politica proprio perché subalterni al “berlusconismo”, ecco la domanda più crudele ma anche più significativa: «Dov’erano i cattolici quando il guitto destabilizzava lo Stato con le sue battaglie ad personam? Dov’erano quando inebetiva gli italiani con i suoi circenses televisivi? Dov’erano quando separava la morale privata da quella pubblica infrangendo cosí uno dei pilastri della dottrina sociale della Chiesa? Dov’erano quando, palesemente e senza vergogna, divulgava con il proprio comportamento l’idea che con la ricchezza sia possibile guadagnarsi l’impunità?». La risposta è esplicita, veritiera e implacabile: «la verità è che la Chiesa italiana e gran parte dei cattolici, se si studia il loro rapporto con il guitto di Arcore, hanno sulla coscienza gravi peccati, sia di connivenza sia di omissione. Quando ne hanno preso le distanze lo hanno fatto timidamente e in ritardo, a scempio ormai compiuto, e comunque è difficile dimenticare certe immagini, come la folla del meeting di Rimini osannante nei confronti del guitto, accolto come un salvatore e riverito, incredibile dictu, come un vero statista» (ivi).

Fin qui una pars esclusivamente destruens del cattolico Aldo Maria Valli. Ma in questi giorni un altrettanto coraggioso e umile intellettuale cattolico, che risponde al nome di Edoardo Tincani e che l’“esame di coscienza” ha inteso farlo in profondità a cominciare da se stesso, si sta adoperando per approntare anche una pars construens, per far circolare quanto più estesamente possibile una sua proposta politica, non già di ricostituzione della “balena bianca” ma di formazione ex novo di un partito cattolico totalmente radicato nel vangelo stesso di Cristo: non un partito dei cristiani e dei cattolici (nonostante quanto sembrerebbe esprimere il sottotitolo del suo significativo volumetto “In politica con più fede. Un nuovo partito dei cristiani?”, Reggio Emilia 2012), perché sarebbe non solo presuntuoso ma anche impossibile perseguire una soluzione del genere, ma un partito di cristiani e di cattolici che si sforzi, come un “piccolo resto” della politica, di far germogliare la speranza altrimenti irrimediabilmente perduta di poter migliorare, senza retorica e senza proclami programmatici ma solo con la saggezza e l’audacia della fede in Cristo Signore della vita e della storia, l’esistenza individuale e collettiva sino a renderla sensibilmente più dignitosa di quanto oggi non sia.

Questo è il principale nucleo ispiratore della proposta di Tincani, che non indulge né a manifestazioni di orgogliosa indipendenza spirituale dalle gerarchie della Chiesa né a forme di calcolato o interessato ossequio verso le stesse gerarchie ecclesiastiche, anche perché quest’ultime, egli nota giustamente, non di rado vengono assumendo e svolgendo ruoli politici “impropri” o comunque molto più adatti a dei laici credenti che abbiano conoscenze e competenze ben più specifiche e puntuali. Il fatto è che Tincani, da cristiano colto e sensibile, non ritiene più sopportabile cristianamente assistere ad un epocale naufragio della politica e della politica democratica, sempre più incapace di dare risposte vere e non fittizie a ciò per cui nacque storicamente e in funzione di cui può giustificarsi la sua stessa ratio originaria e costitutiva: ai problemi e alle necessità della gente comune e, più specificamente, dei ceti popolari meno abbienti.

Egli è ben consapevole di come «la globalizzazione dei mercati, delle tendenze culturali, delle strategie del terrore, cosí come la scarsa attitudine della politica nel fornire alle persone risposte soddisfacenti alle incognite del lavoro, della sicurezza o della stessa tenuta del loro indebitatissimo Stato» rendano non più prorogabile un impegno politico cattolico oltremodo ravvicinato (p. 34), e  rileva poi che lo scollamento tra fede e vita, le divisioni non solo politiche esistenti tra i cattolici e nella Chiesa, il sostanziale “disimpegno” politico di cattolici non convenzionali e tuttavia isolati, sono diventati d’altra parte troppo macroscopici e abnormi perché dei credenti che siano in possesso di una coscienza cristiana ancora sufficientemente vigile, reattiva e caritatevole, possano continuare a far finta di non vedere e a starsene in disparte in attesa che qualcosa di nuovo possa succedere quasi meccanicamente.

E’ giunto il tempo di agire. C’è un tempo per formarsi (l’allusione è alle curiali “formazioni permanenti” cui si assoggettano di buon grado molti credenti laici) e c’è un tempo per agire anche e soprattutto in politica non per trarne benefici personali ma solo per sacrificarsi e mettere i propri talenti a disposizione degli altri, della comunità nazionale e persino internazionale. Sí, perché Tincani rileva che oggi la politica ritrova il suo o un suo senso solo se torna ad essere capace di riorientare il mondo e non questo o quel settore della vita nazionale, solo se si mostri in grado non di subire ma di riorientare la finanza e l’economia di cui la prima è solo parte, e in sostanza di riequilibrare i rapporti tra le diverse forme di potere (economico-finanziario, etico-giuridico, burocratico-amministrativo) sulla base di una ritrovata tendenziale centralità della politica. 

Non è più tempo di confronto tra scuole cattoliche di pensiero, di convegni e giornate di studio, di ennesimi proclami politici dei vescovi. Bisogna che chi sente realmente vivo Cristo nella sua vita, nel suo cuore, nei suoi progetti e nelle sue speranze, si dia da fare per ritrovarsi insieme a quanti avvertano la medesima necessità di agire, di offrirsi onestamente, di servire gli altri con dedizione e inequivocabile spirito di carità. Occorre oggi che ci siano dei “tralci” anche e soprattutto in politica se non si vuole che, salvo che nelle omelie e nelle predicazioni istituzionali e solitamente un po’ astratte di vescovi e preti, il mondo resti senza luce e la terra senza sale. Cristo, più che la sua stessa Chiesa ma possibilmente insieme alla sua Chiesa, deve animare i nostri pensieri e muovere i nostri passi di cattolici giustamente convinti che egli sia l’unico rivoluzionario della storia non solo perché capace di farci superare le angustie, i limiti e la fine della nostra esperienza storico-umana nel quadro della sua vita divina che continua dopo la morte e in cui le nostre vite non avranno più fine, ma anche perché egli è venuto a cambiare radicalmente il mondo non solo in senso genericamente spirituale ma anche in un concreto e specifico senso economico, sociale e politico.

Questo è precisamente l’impegno inderogabile dei cattolici: operare e militare in politica da figli di Dio, uniti saldamente a Cristo come i tralci sono strettamente uniti alla vite, incapaci di produrre cose buone da soli ma di produrne senz’altro insieme a lui  e in lui. Un partito dei “tralci”, scrive Tincani, ma un partito che forse, proprio in ossequio a questa bellissima e impegnativa immagine del tralcio evangelico, potrebbe anche denominarsi felicemente “vangelo e democrazia” o “vangelo e democrazia popolare”, dove il termine “vangelo” sarebbe tra l’altro il vero discrimine tra una concezione “laicista”, licenziosa o permissiva e demagogica o populista, e una concezione religiosa e cattolica (non nel senso di confessionale ma di “universale” e quindi di aperta a tutti e al contributo di tutti gli uomini di buona volontà) della politica e della democrazia.

Dunque: “cercansi tralci”, è l’appello di Tincani. Chi pensa di poter essere un tralcio evangelico e non inutile intralcio in politica, si faccia avanti, si presenti, si qualifichi: con l’aiuto di Cristo Tincani, primo e principale responsabile di questa necessaria ed auspicabile impresa politica, cercherà di capire, di distinguere, di fare la migliore selezione possibile, di metter su un partito leggero, agile ed efficiente dal punto di vista statutario, organizzativo e finanziario, massmediale e programmatico, di farvi confluire energie intellettuali e spirituali vigorose, sane, laboriose, che sotto la benevola assistenza di Cristo potranno far lievitare il Regno di Dio anche nel complicatissimo mondo politico nella misura del cento, del sessanta o del trenta per cento, tenendo ben presente che il primo e non eludibile obiettivo di una seria ed evangelica azione politica non può che essere in questo momento storico la lotta intelligente e responsabile ma convinta e necessaria per una profonda e radicale ridefinizione di tutti i trattati internazionali ed europei che, tutti indistintamente e acriticamente subordinati alla indiscussa ma molto problematica logica dei cosiddetti “debiti pubblici”, risultano realisticamente finalizzati non già al progresso economico e civile dell’umanità ma al suo ineluttabile e globale declino. 

Il libro di Tincani è bello, ispirato, profetico! E’ un prezioso e coraggioso anche se non ancora esaustivo manifesto delle direttrici lungo le quali presto potrebbe cominciare il suo cammino di testimonianza e di concreto impegno politico il nuovo ed evangelico partito cristiano e cattolico cui l’audace e generoso fratello di Reggio Emilia ha già saputo dare un vitale e lodevole impulso.  Generoso ma anche sapiente e non sprovveduto fratello cattolico che avverte perentoriamente quanto segue: il nuovo partito dovrà «tenere il più possibile lontano dalla propria dirigenza arrampicatori e personaggi subdoli del sottobosco politico perennemente pronti a riciclarsi o a rifarsi una verginità politica» (p. 83). Che Dio lo illumini e lo benedica!  

Per una nuova identità cattolica in politica

homeNient’affatto. Come cattolici non siamo d’accordo né con il vecchio conservatorismo politico di marca democristiana, né con alcune frange “progressiste” dello stesso mondo cattolico che, in funzione della possibile e auspicabile nascita di una nuova formazione politica di ispirazione cristiana, chiedono di “tener bassa la voce su questioni che interessano l’antropologia dei nostri tempi”, come quelle relative ai “princípi non negoziabili”, al fine di non urtare la suscettibilità di molti non credenti politicamente seri e “propositivi” e di non creare quindi occasioni pregiudiziali di scontro che non aiuterebbero i cattolici ad organizzarsi appunto in una nuova ed efficace forza politica.

Naturalmente questo non implica che di conseguenza saremmo d’accordo con altri segmenti cattolici che invece agitano ipocritamente e strumentalmente i “princípi non negoziabili” per poter meglio giustificare la loro contrapposizione, spesso reazionaria e interessata, alle forze laiche anche su questioni di natura economica e sociale. Anche perché tra i “princípi non negoziabili” noi includiamo il principio di dignità personale che non può non essere strenuamente difeso anche contro l’incapacità dello Stato di garantire un giusto posto di lavoro, un salario o uno stipendio accettabili, il tassativo rispetto del diritto a non vedersi pignorata in nessun caso la prima casa di proprietà o a non essere completamente abbandonati sotto il profilo economico-finanziario anche in caso di licenziamento, di perdita del lavoro o di malattia.

Se il signor Beppe Grillo, attor comico di professione che molte speranze, ivi comprese quelle di chi scrive, ha forse illusoriamente suscitato nel nostro Paese, dice che il suo movimento non sarebbe né di destra né di sinistra, perché conterebbero solo le idee buone e giuste che come tali non sono appunto né di destra né di sinistra, noi, consapevoli del fatto che nella vita come nella politica non ci sono solo idee ma anche ideali, non temiamo di affermare che il movimento cattolico che auspichiamo possa presto nascere e svilupparsi in Italia non dovrebbe avere alcun timore nel rischiare di apparire di destra su alcune cose e nell’essere di sinistra su certe altre cose.

Ma, intanto, a quei nostri fratelli di fede che vorrebbero si allentasse la guardia cattolica su problematiche “eticamente sensibili”, per evitare inutili e dannosi “scontri di religione” e per dare prova di buona volontà o di volontà pacificatrice rispetto a talune istanze “civili” del mondo laico, noi rispondiamo che, né in quanto uomini né in quanto cattolici, saremo disposti ad accogliere le loro erronee sollecitazioni, per il semplice fatto che in gioco qui non ci sono semplicemente le sorti della religione cattolica ma quelle della stessa civiltà.

Peraltro, la religione cattolica, e diciamo deliberatamente religione e non fede, potrebbe eclissarsi non solo perché i cattolici non siano eventualmente capaci di ascoltare il mondo e interagire con esso, ammesso e non concesso che per mondo possa intendersi qualcosa di definibile in modo univoco e lineare, ma anche e soprattutto perché essi, sempre meno sorretti dall’amore-carità verso Dio e verso gli uomini, abdichino eventualmente al loro compito evangelico di essere sempre e comunque sale della terra e luce del mondo (Mt 5, 13-16). Potrebbero mai cattolici degni di questo nome soprassedere sulla volontà di legalizzare il cosiddetto matrimonio tra persone omosessuali, senza con questo tradire la loro fede e infliggere un colpo mortale al futuro della famiglia e della stessa umanità?

Qui non si ha a che fare con bisogni umani, con istanze morali, con diritti civili, ma solo con forme inconfessate di turpitudine umana, con capricci individuali, con patologie spirituali e con perversi disegni di potenti lobbyes politico-culturali con annessi e corposi interessi finanziari che mirano a mutare le stesse caratteristiche antropologiche del genere umano e a lucrare sull’introduzione nella vita sociale dell’intero pianeta di bisogni artificiali e falsi, come falsi sono i bisogni alimentati dall’esistenza dei casinò o di certi teatri d’avanguardia. Peraltro, di sesso non è mai morto nessuno e mai si morirà, come invece si muore di fame, di mancanza di lavoro, di violenza sessuale subíta o di tante forme di umiliazione personale e sociale, fisica e spirituale, che molti esseri umani, privi di protezioni o di tutele privilegiate, sono costretti a subire ogni giorno. 

A noi non importa niente di apparire, anche agli occhi di questi nostri fratelli, dei cattolici integralisti o integristi, dogmatici e fondamentalisti, proni alla gerarchia ecclesiastica piuttosto che al vangelo, cosí come non ci importa niente di apparire ad osservatori cattolici diversamente collocati come cattolici comunisti o cattolici eversivi dal punto di vista economico e sociale. A noi importa solo di essere, e non certo in modo autoreferenziale e autosufficiente, quello che dobbiamo essere secondo il vangelo di Cristo e secondo gli insegnamenti più illuminati e profondi della nostra Chiesa.

Anche perché, francamente, dar vita a un movimento politico cattolico che dovesse preoccuparsi di non apparire conservatore o reazionario per la questione dei gay, di loro presunti specifici “diritti” aggiuntivi rispetto a quelli di cui godono e devono godere in quanto persone, sarebbe come voler somigliare al movimento 5 Stelle di Grillo, che è partito “sparato” per dar luogo ad una vera e propria rivoluzione “culturale” prima che politica nel nostro Paese e dopo appena due mesi di vita parlamentare, sottraendosi in modo grottesco a possibili e specifiche responsabilità governative, si è ridotto a brillare per il particolare impegno profuso dai suoi parlamentari proprio sui “diritti” dei gay! Otto milioni di voti messi a disposizione di un movimento che doveva essere “alternativo”, semplicemente per consentire sia pure involontariamente a quest’ultimo di trattare la questione omosessuale nelle sue molteplici articolazioni come una delle sue priorità politiche!

I cattolici dovrebbero scendere nell’arena politica con un movimento o un partito che rompa decisamente con le mode del “political correct”, secondo le quali sarebbe sempre e comunque conveniente non assumere atteggiamenti che collidano con una certa opinione pubblica o con modi di pensare e modelli culturali che abbiano il favore di gran parte dell’informazione massmediale e dei principali commentatori politici di parte laica. I cattolici dovrebbero scendere nell’arena politica anche per contribuire finalmente ad una moralizzazione della vita sociale ed economica, moralizzazione non più generica e farisaica, né soggetta ad acritiche e conformistiche aspettative di massa, ma efficacemente mossa dalla sicura vitalità della carità evangelica, per mezzo di un’attività politico-parlamentare capace di interagire criticamente e responsabilmente ma non arrendevolmente con i cosiddetti “poteri forti” internazionali e in pari tempo volta di principio ad affrontare ogni priorità o ogni emergenza nazionale a partire sempre, e in modo inderogabile, dall’assoluto e non negoziabile rispetto delle necessità dei ceti sociali più disagiati o meno abbienti, delle strutture produttive nazionali più vitali ed efficienti, delle piccole e medie imprese professionali e artigianali più laboriose e meritevoli di ogni singola regione, e in generale dalla volontà programmatica di fissare paletti ben precisi e invalicabili a qualsiasi ipotetica manovra di risanamento e di riequilibrio dei conti pubblici.

Sul terreno dell’azione politico-culturale ed economico-finanziaria, i cattolici che saranno impegnati domani sulle piazze o nelle aule parlamentari dovrebbero sempre ispirare le loro proposte, scelte, decisioni, ad un principio etico di chiara derivazione evangelica anche se spesso contestato dai tanti sapienti del mondo: quello per cui, al limite, sarebbe meglio una società più povera ma più giusta che non una società ricca o più ricca ma ingiusta o sempre più ingiusta. E’ inutile girarci attorno: le previsioni più volte fallimentari degli economisti, il graduale aggravarsi di ricorrenti o cicliche crisi economico-finanziarie, la periodica esplosione di conflitti sociali o di violente contestazioni popolari nei confronti dei poteri costituiti, non possono più non indurre a ritenere che il mondo si salva anche in un senso molto terreno non tanto favorendone sviluppo o crescita economica quanto impegnandosi coerentemente a ripensarne radicalmente modelli culturali, stili di vita e soprattutto forme strutturate e consuetudinarie di potere politico che ad oggi risultano orientate a salvaguardare invariabilmente, molto al di là di ogni revisione legislativa e di ogni apparente tentativo di modernizzare la macchina amministrativa e burocratica dello Stato oltre che lo stesso mondo del lavoro,  “interessi forti” e non “interessi deboli”.

Un santone della società civile italiana come Roberto Saviano ha scritto che «la Chiesa non ha alcun diritto di condizionare le leggi e le istituzioni dei paesi laici. I cattolici possono dire la loro, ma non influenzare o boicottare nuove leggi. Questo è profondamente ingiusto» (Lasciate che i gay adottino bambini, in “L’Espresso” del 17 gennaio 2013). Qui il tema è quello dei “diritti civili” da estendere alle particolari esigenze dei soggetti omosessuali, ma il modo di ragionare di Saviano potrebbe applicarsi a qualsiasi altro tema. Il punto è che secondo l’eroe dell’anticamorra i cattolici non avrebbero il diritto di concorrere alla formazione delle leggi e alla regolamentazione delle istituzioni nei paesi in cui essi vivono, pur pagando le tasse e godendo, al pari di tutti gli altri cittadini, dei diritti civili e politici sanciti dalle relative costituzioni statuali.

Io cattolico “posso dire la mia”, privatamente, ma pubblicamente e quindi politicamente dovrei astenermi, magari per legge, dal tentare di ostacolare o comunque condizionare la vita legislativa e istituzionale della mia nazione, affidandola completamente al giudizio e alle decisioni delle forze laiche. In quale articolo della Costituzione italiana stia scritto che un cittadino di fede cattolica non possa esercitare pressione sullo Stato per via democratica al fine di far valere le sue idee sul piano normativo, Saviano non ce lo dice ma non ce lo dice solo perché non ha letto il testo costituzionale oppure perché intende esprimere un pensiero eversivo rispetto al medesimo testo. Eppure è a tutti evidente che se i cattolici non potessero influenzare le leggi ci si troverebbe in una situazione in cui essi per primi si troverebbero ad essere discriminati e a vedersi negati quei “diritti civili” che egli invece vorrebbe estendere ai gay (con matrimoni resi legali anche per quest’ultimi e adozioni di bimbi da autorizzare a loro favore) non in quanto persone e cittadini ma in quanto omosessuali. Si poteva mai sospettare che l’intelligenza di un Saviano fosse cosí rigorosa e cosí penetrante?

Ma, checché ne dica lo scrittore campano, i cattolici hanno non solo il diritto ma anche e soprattutto il dovere di contrastare movimenti di opinione come quelli capitanati, se non proprio da ciarlatani, da avventurieri del pensiero come Saviano, e di unirsi in una formazione politica che tenda umilmente e coraggiosamente, nel nome e per conto di Cristo, ad egemonizzare pacificamente la cultura e la politica nazionali, o, ove non sia possibile, almeno a contrastarne sempre per via democratica eventuali degenerazioni e perversioni, tanto sul piano dei diritti civili quanto sul piano della prassi politico-legislativa ed istituzionale in genere. 

Vincenti o perdenti, i cattolici domani impegnati in politica dovranno operare solo secondo i princípi e i valori evangelici di integrità morale, di libertà umana e civile, di giustizia economica e sociale, adoperandosi ogni volta, al fine di testimoniarli storicamente, nella ricerca delle soluzioni politiche più idonee a favorirne una coerente traduzione in fatti oppure nell’opporre resistenza a processi impersonali di finta modernizzazione e di sempre più accentuata espulsione del lavoro e della dignità umani dai processi economico-produttivi della nazione. Se questi cattolici, nel segno di Cristo, potranno continuare a comunicare e a dialogare con il mondo, essi avranno compiuto un’opera utile per tutti, altrimenti avranno comunque saputo onorare il mandato spirituale loro conferito da Cristo. E avranno altresí cooperato ad instaurare il Regno di Dio già su questa terra.  

Grillo: achtung, achtung!

Il comico genovese Beppe Grillo, cui non fanno difetto l’intuito e la scaltrezza politica e che ha il merito storico di aver dato una spallata resasi ormai necessaria ad un sistema italiano di potere totalmente incapace di rinnovarsi per via interna o endogena, sta cercando di compiere in Italia un’operazione tanto soggettivamente ambiziosa quanto oggettivamente ambigua e pericolosa. Ambiziosa perché volta, in un sol colpo, a distruggere completamente le attuali forze politico-parlamentari di destra e di sinistra per sostituirle in toto con il suo movimento 5Stelle, in cui per dire la verità, dopo i primi mesi di vita parlamentare, non sono ancora emerse né competenze individuali e generali talmente eccelse da indurre buona parte del popolo che lo ha votato a coltivare aspettative troppo ottimistiche, né qualità morali cosí specchiate da indurre persino gli osservatori più imparziali ed onesti a deporre le armi della critica; ambigua e pericolosa, perché volta a convogliare il maggior numero possibile di segmenti sociali di diversa e composita estrazione politica in quell’unicum del 5Stelle che a tutt’oggi non risulta politicamente definito con chiarezza di princípi e linearità di metodo e che non fornisce ancora garanzia alcuna circa la natura e le finalità democratiche della sua struttura interna e della sua volontà politica di potere.

Poiché il carro di Grillo oggi è indubbiamente un carro politico vincente, era ed è inevitabile che molti saltassero e continuino a saltare su di esso alla ricerca di vantaggi leciti e illeciti che altrove ormai non era più possibile sperare di perseguire o di ottenere. Il guaio è che Grillo, per calcolato interesse, non sembra al momento volersene preoccupare, badando piuttosto ad incrementare il numero dei suoi seguaci ai fini di una presa sempre più stringente del potere e presentando propagandisticamente il suo movimento come composto per intero da persone di diversa estrazione sociale e professionale ma ugualmente oneste ed interessate in modo esclusivo al bene comune.

Con la sua urlata retorica antisistema, con il suo aggressivo e spesso becero richiamo alla volontà popolare, con la sua raffinata quanto astuta tecnica di alternare analisi critiche indubbiamente efficaci a velate ma insistenti allusioni relative a possibili e concreti pericoli di insurrezione sociale, e infine con il suo greve moralismo politico spesso fine a se stesso e totalmente disgiunto da una complessiva etica politica capace di farsi coerentemente carico delle oggettive necessità economiche della nazione e di dare risposte mirate a specifiche problematiche di ordine sociale ed occupazionale, Grillo non appare per niente interessato a stabilire sia pure approssimativamente la natura della composizione sociale e politico-culturale del suo movimento.

Quanti ex fascisti, ex comunisti, cattolici, quanti soggetti eversivi, quanti massoni, quanti mafiosi o terroristi possano farne parte, non gli interessa minimamente saperlo e ancora meno avverte per ora l’esigenza di protestare preventivamente contro tutti gli arrivisti e gli opportunisti che, semplicemente gridando il loro entusiastico “viva Grillo”, sono riusciti ad ottenere e possono sempre ottenere la sua paterna e benefica benedizione.

Per Grillo l’importante è rendere quanto più denso ed esplosivo possibile, sia pure per via democratica, il magma rivoluzionario anche sulla base di quell’ammaliante e mistificante slogan secondo cui il movimento non sarebbe né di destra né di sinistra ma si fonderebbe solo su idee buone e giuste; per lui l’importante è continuare a gridare contro tutto e contro tutti, persino contro persone come la giornalista Milena Gabanelli che appena un mese fa veniva votata dai parlamentari “grillini” come candidata alla più alta carica dello Stato e che oggi, solo per aver rivolto qualche “impertinente” domanda sulla gestione finanziaria interna del 5Stelle, viene subissata di critiche e di insulti sul blog del comico genovese. Per Grillo l’importante è cercare di tenere in stato di continua mobilitazione le masse dolorosamente afflitte dalla miseria e dalla disperazione e non già evitare di condannare il suo stesso movimento all’insignificanza politico-legislativa con decisioni dissennate e irrazionali come quella di non sostenere un governo PD-5Stelle o con i suoi cronici attacchi isterici che ben poco lasciano sperare circa la volontà e la capacità dei “grillini” di incidere realmente sul destino del nostro Paese.

E’ peraltro sconfortante constatare come nessuno ancora, tra i suoi stessi parlamentari, osi prospettare seriamente al leader genovese la possibilità che il movimento politico da lui fondato possa determinarsi a sopravvivere anche senza di lui e senza la sua guida. Anzi, sono ancora molti gli attivisti che pensano che il movimento debba chiudersi a qualsiasi confronto con “i nemici” o comunque con voci ad esso non organiche; che l’identità del movimento (ma quale sia l’identità del movimento, al di fuori di una generica volontà di disarticolazione del vigente sistema politico di potere, non è dato ancora sapere) si possa salvaguardare solo aggredendo in modo virulento i presunti o reali responsabili dell’attuale situazione di crisi e non sedendosi attorno a un tavolo giornalistico-televisivo o politico-parlamentare per discutere in modo disteso e conciliante con i propri avversari.

Non sono pochi i militanti che lanciano sistematici moniti a non andare contro la natura “rivoluzionaria” del movimento, avvertendo che chi disattende tale avvertimento non possa e non debba fare più parte del movimento. Purtroppo costoro non riflettono abbastanza e quindi non capiscono che il loro movimento, come qualunque altro movimento politico che come tale abbia finalità pubbliche, non è esclusiva proprietà di chi lo fonda ma è o diventa patrimonio comune di tutti coloro che lo votano. Non capiscono che il 5Stelle non può barricarsi dietro le idee dogmatiche e distorte di eventuali fondatori della “prima ora” ma deve continuamente valutare la bontà delle proprie proposte e prese di posizione alla luce delle indicazioni, dei suggerimenti, delle analisi, dei consigli di tutti coloro che, avendolo votato, siano in grado di offrire un contributo intellettuale, etico e politico onesto e qualificato, anche perché se la natura del movimento dovesse rimanere immutabile per l’eternità, esso già oggi non potrebbe certo contare su 8-9 milioni di voti ma su un bacino elettorale enormemente più ridotto. Lo si dovrebbe tenere bene a mente, per evitare di prevaricare ancora una volta in modo miserabile rispetto agli interessi generali della nostra nazione.

In presenza di un movimento politico che potrebbe rovesciare effettivamente “l’ordine di cose esistente”, il concetto di fondo non può non essere quello per cui nessuno può permettersi di appropriarsi del movimento, dei suoi obiettivi, delle sue finalità, delle speranze stesse di cui è portatore, perché altrimenti si avrebbe a che fare con un gruppo di cospiratori intolleranti e faziosi volti a sfruttare la protesta e il malessere popolari per semplici e inqualificabili fini di potere personale: ciò che, peraltro, non renderebbe il 5Stelle completamente alternativo ad associazioni e a logiche di stampo mafioso o camorristico.

Ma, in realtà, almeno fino ad oggi, è innegabile che il movimento si regga su uno spirito padronale, accentratore e autoritario da non confondere con una guida sicura ed autorevole di cui auspicabilmente quest’ultimo dovrebbe pur disporre. Né può essere accettato lo strafottente ed infantile invito di tanti militanti “grillini” a non votare per il 5Stelle ove non si condivida in toto, fideisticamente, la linea di Grillo, per il semplice fatto che, come prevede l’art. 49 della nostra Costituzione (agitata sempre dal movimento come il suo libro sacro salvo poi a recriminare su alcuni suoi particolari articoli come per esempio il 67 relativo alla libertà di coscienza del parlamentare o, appunto, il 49), «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Cosa significa questo? Significa che bisogna concorrere con metodo democratico e non autoritario, quale che sia il partito di appartenenza, “a determinare la politica nazionale”. Per la nostra Costituzione non c’è partito o movimento politico che non sia tenuto al suo interno a riflettere la struttura democratica dello Stato repubblicano italiano. Per questo motivo, anche la linea politica del 5Stelle non può essere dettata o decisa solo da Grillo e Casaleggio ma deve essere decisa per l’appunto con metodo democratico, che non comporta certo decisioni assemblearistiche o populistiche ma tali da risultare condivise almeno da un congruo numero di aderenti sulla base di argomentazioni e proposte chiare e coerenti anche se pur sempre in linea con gli obiettivi politici generali e lo spirito democratico del movimento; spirito democratico per il quale, in base alle parole programmatiche di Grillo medesimo, “uno vale uno”.

Uno vale uno, a cominciare ovviamente da quell’uno che è Grillo stesso, dove è evidente che egli, pur potendosi e dovendosi prodigare per convincere molti, non possa tuttavia pretendere di tappare la bocca a nessuno, perché tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. E francamente non si capisce con quali argomentazioni giuridiche oggi Grillo minacci di non far partecipare il 5Stelle alle prossime competizioni elettorali qualora venisse approvata in parlamento la proposta del PD, relativa all’obbligo per ogni partito o movimento politico di acquisire una ben definita personalità giuridica pena l’impossibilità di accedere al finanziamento pubblico e di partecipare alle elezioni, pur essendo chiarissimo che l’iniziativa del partito democratico rivela il suo timore di veder ulteriormente dimezzati i suoi voti e in pratica di sparire dalla scena politica a tutto vantaggio del 5Stelle.

Non si comprende proprio perché il 5Stelle non possa e non debba avere una normale personalità giuridica, con annessi statuto e regolamento interno, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Cosa teme Grillo? Forse di non poter più esercitare nel suo gruppo politico un potere incontrastato e di non poter introitare nascostamente fondi o somme di denaro che oggi affluiscono nelle casse del suo blog da provenienza oscura o addirittura illecita? E’ una domanda irriguardosa? No, è solo una domanda legittima e pertinente alla quale l’attore genovese, volente o nolente, non può sottrarsi. Né è sufficiente che egli continui a professarsi uomo democratico e rispettoso delle leggi correnti, nemico giurato del lobbysmo, della massoneria, del clientelismo, del malaffare, ma al tempo stesso capace di non lasciarsi incantare da quelli che gli ricordano sempre polemicamente le regole di un corretto credo democratico, o che proferiscono parole ed espressioni vuote come “bene comune” o “è l’Europa che lo chiede”, o che continuano a parlare in modo tanto ricattatorio quanto tedioso di “spread” e di “mercati”.

Non è sufficiente, anche se è sperabile che Grillo sia e dimostri di essere persona politicamente capace e moralmente integra al di là degli errori che inevitabilmente anche a lui può capitare di commettere e di taluni tratti decisamente ambigui e autoritari del suo modo odierno di agire e di governare il suo movimento. I militanti “grillini” più onesti dovrebbero ritenere non solo legittima ma persino indispensabile un’attenta vigilanza critica contro qualsivoglia tipo di ipotetica o reale degenerazione o perversione del movimento 5Stelle, e in ogni caso non è possibile astenersi dal lottare, anche in qualità di semplici cittadini, contro il periodico riaffiorare in esso di talune sue probabili tendenze originarie, ovvero presenti già nella sua “natura”, di marca manifestamente fascista.

Sia come cittadini, infatti, sia anche come cattolici, non vogliamo che in Italia nascano e attecchiscano di nuovo partiti o movimenti la cui natura prevalente sia di matrice fascista o autoritaria (non importa se di “destra” o di “sinistra”). E’ principalmente per questo obiettivo dovere di vigilanza civile che alcuni di noi rivendicano ancora a pieno la legittimità di appartenere al 5Stelle e si oppongono fermamente ai proclami sconsiderati di chi evidentemente percepisce il bene comune del nostro popolo come un semplice optional. Qui nessuno può più concedersi il lusso di pensare e decidere anche contro gli altri o come se gli altri non esistessero, di rivendicare il governo della nazione a colpi di insulti e di espressioni plebee, di esercitare potere semplicemente facendo un uso cinico e strumentale del malessere popolare e di umanissime aspettative di ripresa economica e sociale. Qui nessuno può pensare di avere il diritto ad occupare le istituzioni e i gangli fondamentali del potere repubblicano solo perché si sia trovato, forse anche suo malgrado, a calamitare e a cavalcare un malcontento popolare molto più ampio di quello che in un primo momento si poteva supporre. Come cittadini e come cattolici faremo sempre di tutto perché questo non accada e faremo del nostro meglio perché i responsabili politici del nostro Paese, ivi compresi Grillo e quelli che a lui si richiamano, si sentano energicamente indotti a rendere continuamente conto delle proprie posizioni.

Il filosofo greco di nazionalità francese Cornelius Castoriadis diceva che la democrazia è rendere perennemente conto, a tutti i livelli e in ogni ambito della vita associata e della stessa vita politico-istituzionale, di ciò che si pensa e di ciò che si fa. A Grillo, chi, anche come cattolico, ha creduto sinceramente nelle possibilità “rivoluzionarie” del suo movimento, non può oggi non rivolgere un accorato appello a voler rendere realistico, cioè praticabile, realmente spendibile, il suo apparente idealismo politico. Se Grillo accoglie questo appello, mostrandosi consapevole del fatto che una vera rivoluzione non si fa dall’oggi al domani ma ha i suoi “modi” e i suoi “tempi” oggettivi, renderà forte e stabile il 5Stelle, radicandolo profondamente nel cuore di tutti quelli che lo hanno votato e forse anche di molti di quelli che ancora non l’hanno votato; altrimenti, se si perderà questa occasione di oggettivo “cambiamento”, che tale è a prescindere dalle possibili perverse intenzioni del PD, tutto resterà come prima con l’aggravante che il 5Stelle verrà conoscendo una sempre più accentuata involuzione autoritaria, conseguente alla inconsistenza della sua azione politica, e verrà subendo un inevitabile e graduale restringimento della sua base elettorale.

Ma se anche il movimento di Grillo dovesse conquistare il potere per via plebiscitaria o dittatoriale, i cattolici non per educazione ma per convinzione sarebbero sempre lí a testimoniare la loro fedeltà ai progetti di Dio e la loro pacifica ma risoluta avversione ai malefici piani di Satana. Per questo, quali che potranno essere gli sviluppi politici del suddetto movimento, ci è sembrata e ci sembra significativa l’esortazione contenuta nel titolo: Grillo, achtung, achtung!

Silone e i falsi democratici

siloneIgnazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli, scrisse nel 1938, pensando in quel caso più al “fascismo rosso” del comunismo politico di matrice sovietica che non al “fascismo nero” di Mussolini e compagni, “la Scuola dei dittatori” (pubblicato in Italia con Mondadori nel 1962), un vero e proprio vademecum per aspiranti dittatori che cercano di ottenere per via democratica il più ampio consenso popolare possibile. Silone qui fa spiegare le ragioni e le modalità della conquista del potere al suo stesso alter ego, ovvero a Tommaso il Cinico (cinico non nel senso corrente di indifferente o amorale ma in quello etimologico di κύων e quindi di cane randagio in quanto esule ma anche di cane sciolto o cane abbandonato in quanto privo di sostegni politici o religiosi, come era in effetti lo stesso Silone nel suo duplice stato di “socialista senza partito” e di “cristiano senza chiesa”), che impersona la parte di un fuoruscito antifascista ed ex comunista italiano.

Ecco, Tommaso il Cinico spiega che tutti i politici che sono affetti da pulsione dittatoriale fanno pregiudizialmente e sistematicamente ricorso alla volontà popolare per giustificare la loro ricerca di potere. Se si pensa al mantra quasi quotidiano di questi anni sulla “maggioranza degli italiani”, sembrerà di poterne udire ancora oggi e per l’oggi le sferzanti parole. Gli aspiranti dittatori, argomenta il Cinico, sono mediocri sia intellettualmente sia moralmente, benché abbiano la mente infarcita di una falsa cultura basata più sulla categoria della verisimiglianza che su quella della verità ma utile a trasformare se stessi in idoli per le masse. Costoro sono essenzialmente soggetti ignoranti ma molto intuitivi, nel senso che  sono «opportunisti di genio», capaci cioè di stare dentro la storia  e di muoversi con istinto, istinto tanto più funzionale ad un’ascesa al potere quanto più in grado di correggere via via il tiro di precedenti analisi sbagliate e istinto che sfrutta e rivela debolezze intrinseche ai sistemi democratici.

Costoro sono in grado di capire che per puntare al successo si devono attenere ad una regola precisa:  «gettare il discredito sul sistema tradizionale dei partiti e sulla stessa politica, renderli responsabili di tutti i mali della patria e aizzare contro di essi l’odio delle masse…Discutere? Persuadere? Sarebbe una pazzia. Un aspirante dittatore non deve fare appello allo spirito critico degli uditori. Egli ne sarebbe la prima vittima. Un capo fascista deve saper trascinare infiammare esaltare i suoi uditori, ispirando disprezzo e odio verso i perdigiorno che discutono. ‘Le chiacchiere non riempiono lo stomaco’, ecco uno slogan efficace contro i politicanti tradizionali. Tutto quello che il capo fascista dirà, sarà enunciato nella forma dell’evidenza, in modo da non dare adito al minimo dubbio o discussione. Locuzione come ‘può darsi’, ‘forse’, ‘a me sembra’, ‘salvo errore’, saranno rigorosamente evitate. Ogni invito alla discussione sarà respinto. ‘Non si discute sulla salvezza della patria’, ‘non si discute coi traditori’, ‘i disoccupati aspettano lavoro e non parole’, ecco risposte che ogni seguace approverà».

Non sono impressionanti queste parole alla luce di certi fenomeni democratico-dittatoriali che oggi abbiamo sotto i nostri stessi occhi? Intendiamoci, questi capipopolo, questi tribuni del popolo molto più plebeo che colto o consapevole, sanno bene come blandire, come coinvolgere, come usare le masse per i loro fini di potere, e per questo non pronunceranno mai la parola dittatura né arringheranno la folla alla rivolta o alla rivoluzione contro i poteri costituiti dello Stato prima di essere ultrasicuri che lo Stato non abbia più la forza di opporsi o di resistere a moti eversivi o rivoluzionari.

Tuttavia, intimamente coltivano propositi o sogni di rovesciamento delle istituzioni democratiche, pur tenendoli accuratamente nascosti e camuffandoli propagandisticamente come sentimenti altamente e genuinamente democratici. Come ben osserva il Cinico: «Il dittatore moderno ha bisogno di qualificare il proprio regime come una forma superiore di democrazia, addirittura come la vera democrazia, la democrazia diretta, e a questo scopo farà promuovere quotidiane manifestazioni di folla e ogni tanto qualche plebiscito» (che oggi possono senz’altro leggersi come esaltazione acritica della “rete”, come logica meramente assemblearistica del meetup, come mentalità referendaria indiscriminata o puramente strumentale, e via dicendo).

La democrazia, d’altra parte, rileva il Cinico, tende a sovraccaricare lo Stato di «un numero sempre più grande di funzioni sociali» che viene implicando una moltiplicazione a dismisura di poteri «di una specie e in una quantità tali che la democrazia politica non può in alcun modo controllare» e allora accade che «la cosiddetta sovranità popolare si riduce in tal guisa ancora più a una finzione. […] La sovranità reale passa alla burocrazia, che per definizione è anonima e irresponsabile […]. Alla decadenza della funzione legislativa corrisponde fatalmente la caduta del livello morale degli eletti. I deputati non si curano che della propria rielezione».

Proliferando i poteri dello Stato democratico con relativa destinazione di fondi ai vari settori in cui essi vengono esercitandosi, «il bilancio dello Stato medesimo assume proporzioni mostruose indecifrabili per gli stessi specialisti. La sovranità reale passa alla burocrazia, che per definizione è anonima e irresponsabile, mentre i corpi legislativi fanno la figura di assemblee di chiacchieroni che si accapigliano su questioni secondarie», per cui «alla decadenza della funzione legislativa corrisponde fatalmente la caduta del livello morale medio degli eletti». Infatti,«per poter servire i gruppi di pressione che facilitano» la decadenza del potere legislativo, «essi stessi», cioè gli eletti, «hanno bisogno di benevolenza dell’amministrazione» ovvero degli apparati e dei poteri centrali dello Stato.

Va da sé che la forte egemonia statuale conseguita dalle élites di potere in seno alla società e sulla stessa società, costituisca «la premessa per ogni dittatura, anzi è essa stessa già dittatura». Queste élites tendono ad opacizzarsi sempre più rispetto ai bisogni reali della gente e a fare sostanzialmente tutto quello che vogliono, usando a proprio piacimento e in modo del tutto strumentale gli stessi meccanismi della vita democratica come le libere elezioni, il parlamento, il rispetto formale delle norme costituzionali, le libertà civili, in ciò enormemente aiutate dall’enorme diffusione dei cosiddetti massmedia, che concorrono enormemente ad «uniformare il modo di sentire degli individui e a distrarli da ogni pensiero autentico».

Proprio in situazioni di questo tipo, peraltro, vengono attecchendo movimenti impetuosi di protesta che non tanto alla loro base quanto ai loro vertici, sia pure nel nome delle idealità costituzionali e democratiche, il più delle volte vengono in realtà perseguendo obiettivi di violento e radicale rovesciamento dell’ordinamento democratico per sostituirlo al momento opportuno con un regime dispotico o dittatoriale. Anche questi movimenti formalmente non ideologici e solo alimentati in apparenza da una condizione generalizzata di malessere economico e sociale, tendono ad enfatizzare molto il concetto di maggioranza popolare e il diritto di quest’ultima ad esercitare una democrazia diretta, sino ad identificare il «governo della maggioranza del popolo», posto che di oggettiva maggioranza numerica si tratti e non di un consistente ma pur sempre limitato consenso elettorale manifestato a loro favore, con la «democrazia» tout court: equazione, questa, che Ignazio Silone contesta decisamente quando scrive che «il numero, senza la coscienza, è zavorra servibile a tutti gli usi».

Un governo democratico, al contrario, non è solo questione di natura numerica ma anche e soprattutto questione di natura culturale e morale: sulla scena politica italiana quante volte si sono alternati governi numericamente maggioritari ma privi di quella conoscenza e di quelle competenze, di quella determinazione a risolvere i problemi economici e sociali più urgenti dei cittadini e più segnatamente di quelli più disagiati, e di quella volontà etico-politica di tutelare i legittimi interessi del proprio popolo rispetto ad indebite o illecite ingerenze e prevaricazioni di gruppi finanziari nazionali e internazionali di potere? Sono le conoscenze, le competenze, le capacità intellettuali, non propagandisticamente sbandierate ai quattro venti ma oggettive ed incontrovertibili, insieme ad una coscienza morale capace di resistere a qualsiasi condizionamento di parte e di recepire le più profonde istanze del popolo e della nazione rappresentati senza mai indietreggiare rispetto alle molteplici pressioni di “poteri forti”, a dare vera sostanza alla democrazia e alle sue finalità generali di buon governo.

Negli ultimi vent’anni, in Italia, abbiamo avuto delle maggioranze numeriche che, salvo poche eccezioni individuali, proprio in virtù di un acritico numero maggioritario hanno finito per giustificare, con mille sotterfugi e motivazioni risibili, scelte politiche importanti ma compiute non nel rispetto bensí nella palese violazione di quella stessa volontà maggioritaria da esse paradossalmente invocata a sostegno delle proprie attività governative. «Siamo la maggioranza» è stato forse il leit-motiv più pressante, l’argomento buono per zittire il dissenso, arrivando spesso ad esiti paradossali appunto perché contrari alla stragrande maggioranza popolare. Forze di governo, forze di opposizione, forze parlamentari, forze extraparlamentari, farebbero bene a ricordarsene per evitare di reiterare in modo indeterminato una siffatta operazione truffaldina ai danni del popolo.

Ha scritto significativamente un’insigne accademica e studiosa brasiliana del pensiero siloniano come Doris Nàtia Cavaliari che «l’opera siloniana sarebbe “poco utile” in un mondo dove non vi fossero contadini senza terra per coltivare, dove non esistessero ingiustizie sociali e neanche politici corrotti, in un mondo che non fosse controllato dai mass media, dove i ricchi signori e i ricchi paesi non opprimessero i poveri e non comandassero il loro destino; un mondo del genere sarebbe senza guerre, senza armi e senza nessun tipo di dittatura, compresa quella che tante volte si traveste sotto il nome di democrazia, e non sarebbe necessario lottare per la libertà. Giudichi allora il lettore se valga la pena conoscere l’opera letteraria di Ignazio Silone».

Ma vale qui la pena di citare altri due giudizi. Il primo è dello scrittore francese Gilbert Sigaux: «La rivoluzione di Silone è la rivoluzione degli uomini nudi. Nudi, non soltanto nel senso di sprovveduti ma, più profondamente, nel senso di uomini soli, solamente uomini. Uomini che conoscono la loro solitudine e si sforzano perpetuamente di spezzarla con la fiducia e con le opere di misericordia: dar da bere agli assetati, nutrire gli ignudi, guarire gli ammalati». Il secondo è di Sandro Pertini, un uomo e un politico molto caro ad un “rivoluzionario” di questi tempi come Beppe Grillo e a molti attivisti del movimento 5 Stelle: «Silone era un uomo dal cuore puro, un intellettuale onesto. Di Silone c’è una frase che ho sentito di recente: “Gli schiamazzi della folla non possono far tacere la voce della coscienza”. C’era tutto Silone in quella frase». Sarebbe bello se il leader genovese e almeno una parte consistente di suoi seguaci condividessero almeno quest’ultimo giudizio e si sforzassero di fare propria l’esemplare e non comune sensibilità etico-civile di Ignazio Silone.

Sarebbe bello soprattutto perché, per quanto moralmente infervorati e politicamente determinati possano essere, talvolta sembra potersi loro applicare lo stesso giudizio che Silone esprimeva sui bolscevichi russi, a cominciare da Lenin, appena saliti al potere: «Ciò che mi colpí nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile» (citato in I. Montanelli, I protagonisti, Rizzoli Editori, Milano 1976, p.183).

Quale etica cattolica?

Un’etica cattolica integrale, non integralista ma integrale, ovvero non un’etica cattolica parziale o incompleta, basata solo su alcuni aspetti della concezione cattolica della vita e del mondo ma non su tutti i suoi aspetti globalmente considerati e dottrinariamente inscindibili gli uni dagli altri, è un’etica fondata sulla verità rivelata da Cristo e quindi anche e principalmente sulla morte sacrificale e sulla gloriosa risurrezione di Gesù, figlio unigenito di Dio. Certo, se per integralista s’intende un cattolicesimo che testimonia, in modo composto ma fermo, contro l’ammissibilità del divorzio, dell’aborto, dell’omosessualità nel novero delle cose “normali”, e delle pratiche omosessuali o dei cosiddetti matrimoni omosessuali o ancora di certe pratiche eutanasiche nel novero dei “diritti civili”, un’etica cattolica integrale, che come tale è tenuta ad ascoltare e a valorizzare prontamente anche i possibili contributi di verità e di umanità contenuti in posizioni ed esperienze di vita non richiamantesi a credi religiosi, non potrà non essere costitutivamente anche un’etica “integralista”, ma il punto che qui merita pregiudizialmente di essere precisato è soprattutto che mai un’etica cattolica, intesa appunto nella sua interezza e quindi nell’insieme dei suoi richiami e dei suoi valori spirituali e religiosi, possa essere assimilata ad una semplice religione civile, ad una delle tante etiche esistenti al mondo, ad un complesso di princípi e norme codificate secondo criteri di razionalità puramente storici ed immanenti.

L’etica della Chiesa e dei credenti cattolici è ben riassunta da san Paolo: “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria. Fate dunque morire ciò che in voi è terreno: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e cupidigia, che è idolatria. Per queste cose viene l’ira di Dio [sui figli ribelli]” (Colossesi 3, 1-6). E’ dunque un’etica chiamata a costruire “le cose di lassù” già su questa terra attraverso un continuo esercizio di rimozione o di annientamento spirituale delle tante iniquità che sono o possono in ogni momento insorgere dentro ognuno di noi e che appartengono in generale alla complessiva realtà mondana segnata dal peccato.

E’ di conseguenza anche un’etica che, pur mai implicando forme ossessive e violente di opposizione al male del mondo, ivi comprese le sue molteplici ed inique strutture di peccato politico e sociale, implica una instancabile ricerca di comportamenti virtuosi e santi, nel vincolo d’amore a Cristo, e un concreto  appassionato e caritatevole impegno a favore del prossimo qui e ora bisognoso e di una società retta da vincoli morali e spirituali prima e oltre che da vincoli contrattuali ed economici.

Un’etica cattolica integrale comporta una rivoluzione permanente delle coscienze, persino al di là di ineccepibili abitudini di vita, e una perenne volontà di trasfigurazione spirituale delle strutture mondane di potere, ben oltre le molteplici e variegate contingenze storiche o storico-politiche e culturali a cui il cristiano eticamente impegnato non può certo mostrarsi indifferente ma a cui in ogni caso la sua fede non potrà mai essere totalmente ridotta. Sí, perché un’etica cattolica, che è un’etica d’amore o meglio l’etica per eccellenza dell’amore gratuito e disinteressato, non è una semplice etica filantropica, compassionevole e solidaristica, non è né un’etica sociale né  un’etica di servizio sempre e comunque condiscendente rispetto a qualsivoglia genere di istanze o di presunte esigenze antropologiche ed umane, né un’etica senza verità, ma è un’etica che ha il suo fulcro e la sua unica giustificazione nella verità stessa che è Cristo e quindi nella Parola e nei precetti di Dio correttamente intesi oltre ogni pur possibile fraintendimento o mistificazione teologica e religiosa.

Ma quest’amore cristocentrico, quest’amore della grazia (perché l’amore nel cui nome il cristiano è tenuto a pensare e a vivere è dono divino e, appunto, grazia), quest’amore della fede (in quanto la sua sostanza e la sua cifra più alta sono costituite dalla fede e da una fede rocciosa nel Logos incarnato), da cui l’etica cattolica non può prescindere, non di rado è stato in passato e continua ancor oggi ad essere equivocato o malamente usato nelle stesse comunità cristiane e cattoliche.

Infatti, pur potendosi facilmente presumere che quest’ultime ben conoscano la meravigliosa e perfetta descrizione che dell’amore cristiano ha fatto san Paolo, non di rado accade che in esse se ne faccia un uso piuttosto banale e strumentale: basta pensare a tutte le volte in cui credenti del clero e credenti laici ricordano che la carità è paziente e benigna solo perché spiritualmente incapaci di stare veramente vicino a chi abbia subíto una qualche grave prepotenza o sia stata vittima di atti crudeli o malvagi; che la carità non è invidiosa, non si vanta, non cerca il suo interesse, non si adira né tiene conto del male ricevuto, omettendo tuttavia di aggiungere e di precisare che la carità non gode dell’ingiustizia e non si compiace affatto dei torti e delle sofferenze che un modo ingiusto di agire procura a tanti esseri umani ma si compiace solo della verità predisponendosi esclusivamente in funzione di essa a tutto coprire, tutto credere, tutto sperare, tutto sopportare (1Corinzi 13, 4-7).

Solo chi sa e vuole intendere correttamente la Parola di Dio, sforzandosi di non darne mai per scontati e di approfondirne continuamente lo spirito e il senso oltre che la lettera, solo chi agli insegnamenti di Cristo si accosta senza inconscia saccenteria e senza nascosta ipocrisia, solo chi coltiva la fede senza astuti sdoppiamenti di personalità e senza comode o complicate razionalizzazioni dialettiche, può alla fine sperare di amare realmente secondo l’amore di Dio, sino al punto di poter amare persino i suoi nemici e di predisporsi a fare del bene addirittura a coloro da cui è odiato, a pregare anzi per essi e a benedirli. Ecco: è solo a chi è capace di tanto che l’apostolo Giovanni si riferisce quando scrive:  “Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore”. (Gv 4,7-8).

In altri termini, un’etica cattolica, pensata e vissuta alla luce di tutto il messaggio e dell’opera stessa di Cristo, non genera né paternalismo religioso, né spiritualismo a buon mercato, né astratto e aprioristico giustificazionismo teologico. Cosí come un’etica cattolica degna di questo nome non può generare moralismo ma solo e sempre moralità. Moralistica, infatti, è la fede che rinvia al “regno di Dio” come a qualcosa che è semplicemente di là da venire, sempre oltre la storia che sta divenendo in questo momento e sotto i nostri occhi, e quindi nella sua statica ed assoluta contrapposizione al mondo e a questo specifico e determinato mondo storico della politica, del diritto, dell’economia e della cultura in senso lato.

Espressione di profonda e rigorosa moralità è invece la fede che non separa drasticamente il “regno di Dio” dal “regno degli uomini”, allontanando sistematicamente il primo dalle specifiche e drammatiche contingenze di individui-persone storicamente determinati, ma lo considera come realmente e sia pure misteriosamente presente ad essi e tra essi e come immanente alle loro esperienze e al loro agire.

In una concezione etica di tipo moralistico il “regno di Dio” ha una funzione meramente evasiva o elusiva e semplicemente consolatoria rispetto a condizioni storico-umane manifestamente inique di esistenza personale e collettiva, mentre un’etica cattolica della moralità non solo viene riconoscendo in esso un pur agognato e reale punto di approdo metastorico della vita  personale e collettiva di uomini e donne ma ad esso viene assegnando un ruolo propulsivo già nel quadro di questa esistenza storico-mondana e una concreta funzione di sprone e di liberazione rispetto ad una molteplicità di reali e possibili angustie esistenziali di qualsivoglia natura, che trovano il loro invalicabile limite nella morte e che il mondo, pur con le sue leggi, i suoi ordinamenti, le sue istituzioni e i suoi stessi “godimenti” di natura ludica o estetica o genericamente spirituali, è impossibilitato a superare. Il “regno di Dio” è in mezzo a noi tutti, nel senso che Dio è con noi e che noi cooperiamo con Dio alla costruzione del suo regno.  

In questo senso, pure, l’etica cattolica, pur presupponendo che Dio giudica le sue creature più sulla base della sincerità e dell’onestà delle loro intenzioni che non sulla base del fatto che quest’ultime siano o non siano coronate da successo, non è un’etica della pura intenzione, del puro dover essere (nel senso di quelle effimere o ipocrite “buone intenzioni” di cui, come si sa, “è lastricata la via dell’inferno”), cui corrisponde quasi sempre da una parte il moralistico e sprezzante giudizio dell’“anima bella” ovvero di chi predica dall’alto o nel chiuso di una aristocratica e orgogliosa torre d’avorio  e dall’altra un gretto conservatorismo politico-sociale o forme immature e irrazionali di ribellismo individuale o collettivo, ma è un’etica realistica della responsabilità antitetica all’etica retorica e disimpegnata dell’anima bella e profondamente funzionale ad un coraggioso e fattivo impegno evangelico contro tutte le forme di schiavitù e di iniquità che si annidano nella coscienza personale e nelle pratiche oggettive ed interpersonali degli uomini, della cui complessità e drammaticità occorre tuttavia essere ben consapevoli cercando ogni volta di entrare in solidale e amorevole comunione fraterna con tutti coloro che ne siano particolarmente afflitti e tra cui fra l’altro potremmo esserci trovati o potremmo trovarci noi stessi.

L’etica cattolica, infine, pur aperta ad un serio e costruttivo confronto con un’etica laica, non può tuttavia non differenziarsi profondamente e, alla fine, irrimediabilmente da essa. Il laico, non il laico credente ma il laico non credente o ateo, infatti, è colui che agisce senza operare alcun esplicito riferimento a Dio, che non si sente limitato da niente e che conta o confida esclusivamente su se stesso e sulle sue forze. Il cristiano, invece, è colui che pone o si sforza di porre ogni suo pensiero ed atto in relazione a Dio e ai suoi insegnamenti, colui che pertanto ha sempre ben presente il senso del limite e del peccato e che proprio per questo, quale che possa essere il grado della sua integrità morale e spirituale, non confida in se stesso ma esclusivamente nella misericordia di Dio. Il laico ritiene che, operando secondo razionalità e princípi etici universalmente riconosciuti, non si possa che perseguire il bene proprio e il bene altrui o bene comune, mentre il cristiano crede che, senza l’aiuto e senza la grazia di Dio, nessuno sforzo e nessuna opera umana siano suscettibili di produrre frutti buoni e duraturi.

Una volta il cardinale Joseph Ratzinger scrisse che «il problema soggiacente a tutta la morale cristiana è di capire come l’agire umano e l’agire divino collaborano», e in questo stretto nesso tra volontà umana e grazia divina è appunto il senso complessivo dell’etica cattolica. Però non bisogna pensare che questa differenza tra il confidare in Dio-Cristo e il confidare in se stessi divida uomini e donne in due categorie distinte e separate di persone, perché in realtà essa agisce all’interno di ogni soggetto e degli stessi soggetti che professano una fede cattolica.

Può infatti capitare che un laico non credente riesca ad esprimere nel corso della sua vita una spiritualità più sincera e generosa seppur non dichiaratamente religiosa, e per questo più gradita a Dio, di quella dichiaratamente religiosa di un credente cattolico sempre preoccupato e inquieto che agisce e vive come se Dio non ci fosse, e che per contro un credente cattolico, in aperto contrasto con la sua professione di fede e pur partecipando e accostandosi assiduamente alla santa messa e alla santa eucaristia, si lasci tuttavia andare ad atteggiamenti mentali e pratici simili a quelli di chi tende a deprimersi quando vede che le cose non vanno secondo le sue aspettative o i suoi desideri.

E’ proprio cosí: non è infrequente il caso in cui un cattolico si senta depresso o frustrato perché certe sue aspettative non siano state soddisfatte. Questo concetto è espresso nel vangelo di Luca, ove si racconta della pesca miracolosa. Dopo una notte infruttuosa nel corso della quale non è riuscito a pescare niente, Pietro, dopo aver fidato solo sulle sue forze e in evidente crisi di fede, appare sconfortato e sull’orlo della depressione. Depressione che supera non appena torna a riporre la sua incondizionata fiducia in Cristo Signore e Salvatore. La notte infruttuosa rappresenta i momenti in cui persino il credente più affezionato e più fedele a Dio si sente improvvisamente solo, abbandonato da lui o comunque da lui lontano, e cede alla tentazione di pensare che le cose della sua vita debba affrontarle e risolverle fidando solo sulle sue forze. Tale atteggiamento però è frustrante perché Pietro scopre abbastanza presto che senza Cristo non può fare nulla, e, nel caso specifico, non può pescare nulla pur impegnandosi strenuamente per moltissimo tempo: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5, 5), sono le sue parole.

Ecco: a volte anche il cattolico più sperimentato può agire come il laico non credente che pensa e vive senza percepire la concreta presenza di Dio nella sua esistenza, che pensa e vive senza più affidarsi alla “parola di Cristo”, e fidando presuntuosamente o disperatamente solo su se stesso. Ma può anche accadere che, nell’usufruire di condizioni di vita materiale e spirituale abbastanza lineari e gratificanti o addirittura lussureggianti, ci si senta indotti a presumere stoltamente di avere Dio a portata di mano (si veda l’episodio evangelico del giovane ricco), oppure che, al contrario, pur avendo sempre vissuto in modo trasgressivo e irreligioso, ci si possa sentire improvvisamente e irresistibilmente attratti, proprio nei frangenti più terribili e dolorosi della propria esistenza, dall’amore misericordioso di un Dio pronto a morire come noi e per noi sulla croce della vita (si pensi ad uno dei due malfattori crocifissi accanto a Gesù). 

L’etica cattolica è un’etica rigorosa anche in questo senso: che nessuno mai, sino alla fine della sua esperienza terrena, possa considerarsi assolutamente salvo o dannato.

I cattolici e il movimento 5 Stelle

Beppe Grillo e il movimento 5 Stelle avrebbero potuto trarre degli enormi vantaggi politici dalla débâcle di una classe politica, comprensiva di partiti quali Popolo delle libertà, Partito democratico e Scelta civica, manifestamente affetta da un cronico deficit di credibilità. Avrebbero potuto portare una ventata di pulizia e di svecchiamento politico-istituzionale unitamente ad una fresca e volitiva capacità di incidere concretamente anche sul piano parlamentare e legislativo. Avrebbero potuto inaugurare una stagione di seria dedizione al bene comune e di provvedimenti necessari ad una ripresa della complessiva vita economica nazionale, dando cosí adeguata risposta alle legittime e indifferibili aspettative di moltissimi cittadini. Avrebbero potuto contribuire davvero a ringiovanire l’Italia liberandola forse non completamente da ogni genere di meschino interesse personale o di gruppo ma almeno da un passato e da un presente segnati da ottusa e tirannica inconcludenza politica.

Cosí però non è stato, pur avendo essi avuto la concreta opportunità di trattare più ragionevolmente ed utilmente di quanto non abbiano saputo e voluto fare con il segretario politico del PD e di favorire quindi un governo PD-5Stelle certo suscettibile di produrre inediti e fecondi risultati sul piano economico-sociale e politico-istituzionale, checché ne vada adesso dicendo il troppo logorroico leader genovese, cui non si può certo disconoscere il merito di aver saputo creare le condizioni politiche per una necessaria disarticolazione di un incancrenito e inefficiente sistema italiano di potere, ma che, fidando più su presunte doti profetico-apocalittiche che non su una effettiva capacità di analisi e di utilizzazione delle oggettive possibilità tattico-strategiche delineatesi alla luce dei pur convulsi avvenimenti politico-parlamentari postelettorali, ha finito per favorire un’opera di restaurazione più che di cambiamento. Almeno per ora.

E’ un peccato che, pur potendo avvalersi di un consenso elettorale molto ampio di cui è parte integrante un considerevole numero di voti cattolici (come risulta anche da un recente sondaggio effettuato dal settimanale “Famiglia cristiana”), il movimento di Grillo non abbia saputo fin qui farne tesoro pensando forse di poter ulteriormente accrescere la sua forza elettorale più attraverso una reiterazione della sua funzione critico-contestativa nei confronti del sistema partitico di potere che non attraverso una immediata assunzione di responsabilità in ordine a pur impellenti necessità di attività governativa.

Ma questo calcolo, a meno di un rapido ripensamento sulla linea politica da adottare, non potrà che rivelarsi non solo sbagliato ma anche e soprattutto dannoso al fine di porre prontamente rimedio alla situazione emergenziale in cui versa sempre più agonicamente l’Italia: anche perché, per quanto riguarda i cattolici (tra cui anche chi scrive) che l’hanno votato in senso nobilmente strumentale ovvero più per disarticolare un sistema nazionale di potere ormai moralmente screditato e politicamente deprimente che non per sottoscriverne ogni punto programmatico, essi non potranno a lungo sostenere un movimento politico di tipo perennemente padronale e autoritario, e sia pure efficace in termini di momentanea contrapposizione e  rottura rispetto all’establishment dato, la cui democraticità e la cui capacità progettuale ed operativa siano a diversi livelli più ostentate che reali e in cui talune spinte meramente trasgressive sul terreno dei “diritti civili” (si pensi a proposte di legge “grilline”contro la cosiddetta omofobia, transfobia e a perverse amenità di questo genere) cominciano ad emergere sorprendentemente come punti qualificanti del programma politico “stellato” dei quali molti cattolici non avevano trovato e non trovano traccia tra i suoi tanto propagandati 20 punti.

Non che i cattolici ignorassero le critiche di Grillo alla Chiesa cattolica, ma non era parso che egli volesse indulgere su tematiche non accoglibili non solo per motivi religiosi ma anche per ragioni di puro e semplice buon senso. E francamente vedere che i senatori “grillini” si siano precipitati a presentare proposte di legge su questi temi, non può non turbare profondamente la coscienza cattolica, anche se i parlamentari cattolici del 5 Stelle fingano nel frattempo di non sapere e di non vedere.

Per cui, anche ma non solo per questo, «la domanda sorge spontanea: cosa faranno, adesso, i cattolici? Rimarranno divisi o cercheranno una strada per uscire dall’impasse e, soprattutto, nell’irrilevanza nella quale sono finiti? Come evidenziato dal vaticanista de La Repubblica Paolo Rodari “i leader delle associazioni cattoliche e dei movimenti ecclesiali che nei mesi scorsi si sono radunati a Todi non hanno dubbi: occorre ricominciare da zero”. E’ l’ora, quindi, scrive Rodari, “di un movimento che dal basso, come fu nel 1943 quando cinquanta esponenti cattolici stilarono a Camaldoli un documento programmatico che serví da linea guida decisiva per la costruzione dell’Italia, lavori alla ricomposizione del Paese”. Un nuovo movimento, quindi, che dia vita “a una nuova stagione nella quale a decidere linee e strategie saranno i laici e non più le gerarchie”. E’ finito, secondo Rodari, “il tempo della Chiesa ingerente in politica attraverso le lobby sponsorizzate dalla Cei”. Non è quindi un caso se qualche giorno fa il cardinale Bagnasco abbia aperto il consiglio permanente della Cei senza tenere, per la prima volta da anni, una prolusione» (F. Anselmo, Grillo visto dai cattolici, in blog “Formiche”, 21 marzo 2013).

Vero: occorrerebbero anche oggi almeno 50 esponenti cattolici, non necessariamente di chiara fama ma lucidi intellettualmente, integri moralmente, e dotati di una fede e di una spiritualità evangeliche adamantine, per sperare di poter introdurre nella vita politica italiana inediti e intransigenti testimoni della verità e della giustizia cristiane. Anche perché, a ben vedere, nel movimento di Grillo c’è tutto e il contrario di tutto: dal classico cittadino autoritario o reazionario al più accanito e fanatico ribellista di destra e di sinistra, dal più bieco e cinico titolare di ricchezza personale all’ultimo pezzente della scala economica e sociale, dal più raffinato cultore del sapere critico al più rozzo e scalmanato esponente di un becero senso comune, dal cattolico devoto all’ateo più viscerale.

Non è possibile che, alla lunga, tutta questa congerie di elementi eterogenei possa stare insieme per configurarsi non solo come forza tumultuosa e travolgente di discontinuità politica rispetto al passato ma anche e soprattutto come forza organizzata e propositiva di cambiamento secondo reali finalità di libertà personale e di convivenza civile, di uguaglianza giuridica e di giustizia  sociale, sia pure in un quadro di ragionevole sostenibilità economica e finanziaria. Non è possibile anche perché, in relazione al programma politico del movimento 5 Stelle, accanto a punti programmatici certo meritevoli di essere condivisi e sostenuti, figurano punti programmatici molto più irrealistici quali il reddito minimo di cittadinanza, vigente in paesi occidentali che se lo possono permettere, l’istituzione di un politometro, la cui funzione sarebbe comunque nulla senza l’attività giudicante della magistratura, la non pignorabilità della prima casa, alla quale ovviamente le banche erogatrici di mutuo non potrebbero mai rinunciare in modo assoluto, e molto più discutibili o pericolosi come il referendum propositivo e senza quorum, l’abolizione di qualsiasi tipo di finanziamento pubblico a partiti e a giornali.

E infine non è possibile che il calderone grillino di ribollenti pulsioni antistituzionali possa assurgere ad autorevole e credibile forza politica di cambiamento anche perché i cattolici sanno bene che nessun movimento rivoluzionario è stato e sarà mai capace di produrre un mutamento qualitativamente alto e scevro da contraddizioni o contrasti più o meno insanabili laddove almeno “un piccolo resto” di cattolici non abbia provato o non provi, con la sua testimonianza e la sua stessa vita, a fare di Cristo il cuore del mondo anche nel quadro dell’attività politico-legislativa.

I cattolici non possono rinunciare a testimoniare concretamente Cristo anche nella vita pubblica e politica, perché la loro stessa fede li porta a credere e ad essere testimoni di Cristo non solo tra le mura domestiche o le mura parrocchiali ma anche, e con pari energia spirituale, tra le mura del mondo e dello stesso mondo politico. In questo senso non è accettabile che il voto cattolico, come numerosi sondaggi di parte cattolica starebbero a dimostrare, non sia più decisivo per la vita politica del nostro Paese, in quanto i cattolici ritengano ormai di poter votare senza condizionamenti ecclesiastici di sorta in ordine sparso e un po’ in tutti i partiti politici.

Certo, nessuno potrà mai coartare le particolari sensibilità politiche dei cattolici che, entro certi limiti e specialmente in momenti di grave turbolenza economico-sociale e politico-istituzionale, possono risultare variamente e legittimamente motivate. Ma non c’è dubbio che un nuovo partito cattolico, non basato su pregiudiziali di natura classista o interclassista, libero da “poteri forti” di qualsivoglia natura, privo di tradizionali e troppo ingombranti apparati burocratici, fedele al magistero della Chiesa ma totalmente autonomo da poteri e condizionamenti ecclesiastici nell’esercizio dell’attività politica, e soprattutto determinato a perseguire politicamente obiettivi e finalità coerenti con i valori evangelici di verità, giustizia, carità, libertà e pace sociale, non svuotati del loro effettivo e santo significato, in un quadro complessivo in cui la sintesi della valorizzazione delle capacità e dei meriti personali con uno spirito fortemente comunitario e solidaristico costituisca il vero motore del benessere economico e sociale, sarebbe altamente auspicabile per la società italiana e non solo italiana del terzo millennio.

Auspicabile e forse anche necessario sarebbe ormai un nuovo partito cattolico diretto e animato da “uomini liberi e forti”, per riprendere la celebre espressione sturziana del 1919, capaci di non assolutizzare alcuna teoria economica ma di evitare in ogni caso che l’economia prenda il sopravvento sulla politica e che la finanza prenda il sopravvento sull’economia, di non sottostare a dogmatiche teorizzazioni di illusorie “crescite indefinite” o di mitici “sviluppi illimitati” ma di coniugare sempre e comunque il capitale disponibile con una domanda oggettiva di lavoro prima e oltre che con la legge del profitto, di rovesciare tendenzialmente ma radicalmente la strategia politica e la prospettiva storica degli ultimi decenni non assecondando e non rassicurando più i mercati finanziari nazionali ed internazionali con misure politiche volte a fare “macelleria sociale” ma opponendosi fieramente agli smisurati e illeciti (perché immorali e antisociali oltre che antinazionali) interessi finanziari dei grandi potentati mondiali, della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale, di ridiscutere criticamente e responsabilmente trattati e vincoli europei ed internazionali di qualsivoglia natura che mettano a repentaglio la sovranità nazionale, la democrazia popolare, la dignità e la vita stessa dei cittadini e in modo particolare di quelli più disagiati.

I cattolici sono chiamati dalla loro stessa fede a compiere la loro missione evangelizzatrice anche sul piano politico, e anche nella missione politica del cattolico dovrà riflettersi, come scriveva don Luigi sturzo nel 1956, il senso del divino, senza cui «tutto si deturpa: la politica diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa». Quali cattolici oggi, anche alla luce di queste considerazioni, proveranno coraggiosamente e disinteressatamente a rinfrescare e rigenerare l’aria mefitica della vita politica italiana?

Svergognati d’Italia!

Poco fa, Giorgio Napolitano, nel suo discorso parlamentare di reinsediamento in veste di confermato Presidente della Repubblica italiana, ha detto: «il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti». Che è un ragionamento formalmente ineccepibile ma, alla luce di vent’anni di prassi politica e parlamentare scorretta e inconcludente, ancora una volta ambiguo sotto il profilo morale, insufficiente sotto il profilo sociale, e sostanzialmente inefficace e inaccoglibile sotto il profilo politico se non da parte di forze parlamentari ormai arroccate da tempo attorno ad una concezione farisaica ed eteronoma dell’impegno politico in quanto incapace quest’ultimo di esplicarsi autonomamente rispetto ad istanze politico-finanziarie internazionali non solo estranee ma sempre più antitetiche ad istanze nazionali di riorganizzazione e di ripresa del complessivo quadro economico e sociale. 

Allora vediamo di poter rimettere a fuoco alcuni concetti semplici ma essenziali per una vita realmente e non retoricamente democratica del Paese Italia. La democrazia storicamente non è nata come ricerca di consenso ma come metodo per risolvere quanto più pacificamente possibile i dissensi e quindi le stesse contraddizioni che attraversano la società, per cui può accadere, e oggi accade molto frequentemente, che tutto il consenso ricevuto dai partiti non sia ancora condizione sufficiente perché uno Stato e una nazione occidentali possano meritare di essere definiti e qualificati come democratici. Se contraddizioni e conflitti inerenti il corpo sociale non possono esprimersi né nel quadro istituzionale, a cominciare dalla istituzione parlamentare, né per le strade o nelle piazze, è del tutto evidente che viene a mancare lo spazio vitale di espressione e di denuncia che è assolutamente necessario alla vita democratica.

Se la democrazia non riesce di fatto a costituirsi quale “strumento di liberazione e di lotta”, secondo la definizione di Jean Jaurès, essa viene meno al suo compito principale che è quello di migliorare non tanto formalmente quanto sostanzialmente la complessiva condizione di vita dei cittadini e innanzitutto e soprattutto dei cittadini più disagiati.

E’ inutile girare attorno alla questione: la democrazia è essenzialmente questo e se questo essa non è capace di essere non è più democrazia ma al più un truffaldino surrogato della democrazia che potrebbe comportare alla lunga pericolosissime convulsioni sociali di natura eversiva o rivoluzionaria.

Una società non è democratica semplicemente perché fondata sul suffragio universale e su un parlamento liberamente eletto ma è democratica solo se essa dispone di procedure che garantiscano la non eludibilità delle principali questioni economiche e sociali emergenti dalla complessiva volontà elettorale dei cittadini, e di regole o meccanismi preposti inderogabilmente a salvaguardia di un libero parlamento in cui non abbiano possibilità di accesso in qualità di rappresentanti della nazione non solo i cosiddetti incensurati ma anche i titolari di redditi esorbitanti: questo, evidentemente, per evitare che la democrazia, di cui tutti si sciacquano copiosamente la bocca, da “potere del popolo” non venga trasformandosi o non rischi continuamente di trasformarsi, a causa della sua pur necessaria mediazione della rappresentanza indiretta, in “potere dei ricchi” o “per i ricchi” o, che è lo stesso, dei furbi e per i furbi.

La democrazia si autodivora ove venga usata come strumento di potere fine a se stesso (ed è il caso dell’Italia) e non come strumento di servizio finalizzato a soddisfare domande oggettive e pressanti di eguaglianza e giustizia. Né sussistono ragioni particolari che oggi, nell’epoca della globalizzazione economica e finanziaria, possano giustificare il progressivo snaturamento della democrazia occidentale rispetto al suo originario e fondativo significato, a meno che non si voglia apertamente sostenere che, dati i tempi e la particolare emergenza economica mondiale ed europea, essa non sia praticabile integralmente, e che quindi paradossalmente democrazia possa esserci non già in tempo di crisi e di discordia ma solo in tempi di prosperità e di concordia sociale. Laddove invece la democrazia è proprio intrinsecamente antitetica non solo all’idea di una possibile e sia pure momentanea sospensione del libero esercizio della volontà popolare ma anche alla stessa possibilità che quest’ultimo possa essere minimamente condizionato da ingerenze internazionali “esterne”.

La sua peculiare funzione è infatti quella di impedire ingerenze o sopraffazioni dirette o indirette, interne o esterne, di qualsivoglia natura, e di contrapporsi a forme virtuali di “dittatura finanziaria” che possono attecchire storicamente solo in presenza di democrazie molto deboli o puramente formali. Occorre stare perciò molto attenti oggi a tutti quei politici e a quegli osservatori nazionali ed internazionali che agitano continuamente lo spauracchio dei nazionalismi e dei populismi proprio perché ideologicamente portati, nel nome e per conto degli ingentissimi interessi di alcune potenti oligarchie finanziarie, a contrastare l’oggettivo pericolo di un’opposizione democratica popolare troppo forte e determinata alle logiche arbitrarie e vessatorie, di matrice europeistica ed euromonetaria, che puntano ormai a consegnare a pochi gruppi privilegiati i destini del mondo e dei popoli.

Che una vera democrazia sia solo quella in cui si registrano convergenze politico-programmatiche di forze parlamentari diverse o opposte o in cui non si danno mai veri e propri conflitti in funzione di una generica ed astatta pace sociale, è una semplice e banale mistificazione sostenuta tra gli altri dal rieletto presidente della repubblica italiana Giorgio Napolitano, rispetto al quale anche una parte del mondo cattolico non sente di potersi associare alle parole augurali a lui indirizzate da papa Francesco, ovvero «di continuare la sua azione illuminata e saggia e di essere sostenuto dalla responsabile cooperazione di tutti» (20 aprile 2013).               

In particolare proprio i cattolici, il cui incondizionato amore per la verità dovrebbe essere scontato, non devono lasciarsi ingannare da concezioni o interpretazioni farsesche e farisaiche della democrazia, ed è per questo che essi, lungi dal voler evitare o nascondere i conflitti, devono capirli e tentare di risolverli con l’impegno quotidiano e con la preghiera. Consci di essere “agnelli in mezzo ai lupi”, non devono avere paura dei lupi ed indietreggiare pavidamente ma affrontarli con coraggio e determinazione evangelica perché possano nuocere il meno possibile e perché non passi come ovvia e ineluttabile verità quella convinzione, fallace ma ormai comune alla quasi totalità delle formazioni governative e spesso anche non governative, per cui in democrazia tutto si possa fare ma pur sempre in un rapporto di compatibilità con quelle che sarebbero le immutabili leggi del mercato e dell’economia.

E’ forse il caso di ricordare che monsignor Oscar Romero, una grande personalità del mondo cattolico alla quale la Chiesa non ha ancora tributato tutti gli onori che meriterebbe, riteneva che il capitalismo complessivamente considerato, sia pure nella differenza delle forme e dei modi in cui viene attuandosi nelle diverse aree del pianeta, fosse una controreligione assoluta, una mentalità ateistica particolarmente pericolosa per la Chiesa cattolica perché facilmente e subdolamente suscettibile di infiltrarsi nella sua stessa coscienza religiosa chiamata a discernere e ad operare in un mondo per l’appunto capitalistico in cui troppo spesso di fatto «i beni materiali si erigono a idoli e sostituiscono Dio» e in cui parole evangeliche eterne come quelle di giustizia, uguaglianza, libertà in senso ampio, e quindi anche di condivisione personale e comunitaria dei beni materiali e spirituali, sembra debbano venire adattandosi alle meschine e inique dinamiche dei poteri del mondo. Non è cosí, non può essere cosí, perché è vero che Cristo non è venuto a salvare l’umanità semplicemente da un punto di vista politico ed economico ma è altrettanto vero che non potranno essere disattesi impunemente i suoi continui e minacciosi moniti a preoccuparsi degli ultimi, degli affamati, degli assetati, insomma degli indigenti e a fare di tutto per essere giusti agli occhi di Dio e degli uomini. Non ce ne dimentichiamo!

Come potrebbero oggi i cattolici dissentire da una diagnosi quale quella formulata da Zygmund Bauman, il quale, parlando di un “capitalismo parassitario”, ha mostrato come, per precisi motivi di evoluzione storica, gli unici “ospiti” attuali di cui il capitalismo può nutrirsi, spolpandone avidamente le residue risorse, siano «gli stessi cittadini degli Stati ad economia capitalistica», i quali vengono sfruttati attraverso il loro assoggettamento al pagamento di interessi sempre più arbitrariamente alti sul debito contratto con banche e istituti finanziari, e come le politiche degli Stati capitalisti “democratici” o “dittatoriali” (come la Cina) vengano costruite e condotte non contro l’interesse ma nell’interesse dei mercati. Un tempo gli Stati proteggevano l’accumulazione di capitale attraverso lo sfruttamento della manodopera operaia, oggi assolvono tale funzione attraverso lo “sfruttamento dei consumatori”.

Se le cose stanno cosí, ci si deve chiedere seriamente per quale motivo ci si debba continuare ad indebitare, chiedendo credito e rifinanziamento del debito stesso, e si debba continuare a sottostare alle criminali ingiunzioni di mercanti e banchieri usurai. L’occidente cristiano non può consegnarsi mani e piedi, corpo e anima, a quei lupi famelici che sono chiamati mercati e che tendono a far strage di tutto, oltre ogni più elementare considerazione di ordine umano e morale, e a divorare tutto pur di ingrassare se stessi. Non è possibile né in senso laico, né in senso evangelico. Cristiani e non credenti non possono vivere in funzione di una “democrazia eterodiretta” e di una meccanica crescita a dismisura di mostruosi leviatani politico-finanziari che condannano un numero sempre più grande di persone ad uno stato di schiavitù.

E’ anche e soprattutto in questo senso che la patetica rielezione di Napolitano a Capo dello Stato non può non turbare profondamente l’animo della stragrande maggioranza del popolo italiano. Infatti, Napolitano, socio dell’Aspen Institute e dei più esclusivi clubs finanziari internazionali, è tra i massimi portavoce della grande finanza mondiale e di una politica europea che più che a migliorare le condizioni di vita dei popoli appare diretta ad opprimerli con pesanti trattati economici internazionali e asfissianti politiche fiscali.

Dove è del tutto chiaro che i partiti italiani che oggi hanno voluto rieleggerlo, e solo per motivi di convenienza o di bottega, non potranno domani dar vita ad un governo che non abbia al centro della sua agenda politica, sia pure forse con formulazioni leggermente attenuate, l’idea fissa del “mondialista” Giorgio Napolitano, ovvero l’Europa a tutti i costi, la necessità di onorare a tutti i costi i trattati internazionali e i patti di stabilità sottoscritti anche dallo Stato italiano, l’impossibilità di sottrarsi al dovere di continuare a pagare il debito pubblico, e, dulcis in fundo, proprio al fine di varare un programma cosí impegnativo ma cosí poco democratico, l’obbligo di un governo unitario di tutte le forze che, nel conferirgli il secondo mandato, hanno implicitamente accettato di sottoporsi ai suoi diktat.

In effetti, Beppe Grillo, benché il suo movimento non sia affatto privo di contraddizioni e ambiguità, non è andato molto lontano dal vero nel parlare di “piccolo golpe” in occasione della rielezione presidenziale del “migliorista” Napolitano, giacché la democrazia anche in questo caso è stata rispettata solo di striscio, solo ipocritamente e avendo in animo propositi assolutamente antidemocratici. Già, perché i vari Marini, Prodi, Amato, D’Alema, lo stesso Napolitano et similia, quanti voti avrebbero preso se agli italiani fosse stato consentito di votare e di eleggere direttamente il Capo dello Stato? Questi nomi, ha osservato una coraggiosa intellettuale italiana come Ida Magli, «vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia, che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro-finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale», né mancano buoni motivi per sospettare che «la presidenza della repubblica italiana» sia «appaltata al Bilderberg» (Il Bilderberg nomina il presidente della Repubblica italiana, dal blog “Italiani Liberi” del 21 marzo 2013).

Per questo, l’elezione di Napolitano non solo costituisce un atto di arroganza perché in palese contrasto con la domanda di rinnovamento e con la gran parte delle aspettative popolari emerse dalle ultime e recenti elezioni politiche, ma anche e soprattutto una inequivocabile dimostrazione di spudoratezza politica ed umana che non può non indurre persino i cittadini più civili e pacifici di questo nostro infelice Paese a qualificare gli artefici di una siffatta operazione e in particolare i “grandi elettori” del PD, di sicuro colpevoli di perpetuare un’oscena alleanza con Berlusconi e Monti, come puri e semplici svergognati: svergognati d’Italia!